Israele e Palestina nel labirinto del Palazzo di vetro

Di Maria Grazia Enardu Mercoledì 05 Ottobre 2011 12:27 Stampa
Israele e Palestina nel labirinto del Palazzo di vetro Foto: UN Photo

La richiesta di riconoscimento della Palestina come Stato membro dell’ONU, presentata da Abu Mazen al Consiglio di Sicurezza, ha aperto un periodo di grande incertezza nel doloroso processo di pace in Medio Oriente. L’esito appare ancora lontano, ma l’isolamento di Israele e il desiderio di Netanyahu di prolungare a oltranza i negoziati sono sempre più evidenti.

 

La sessantaseiesima sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite – la più attesa da anni – la cui agenda prevede la questione del pieno riconoscimento della Palestina, si è aperta a fine settembre. Da subito i due protagonisti, il presidente palestinese Abu Mazen e il primo ministro israeliano Netanyahu, hanno marcato i confini della propria disponibilità a una trattativa vera. Al di là degli artifici retorici, non esiste un terreno comune: se ci fosse stato l’avrebbero trovato da tempo.

Per mesi, Israele ha considerato la sessione dell’Assemblea generale come una calamità da circoscrivere, appoggiandosi agli Stati Uniti o cercando di agganciare vari Stati per averne se non l’aiuto perlomeno una disponibilità all’astensione. Tutto in un clima di crescente isolamento, anche a causa di eventi non prevedibili come la primavera araba e la rottura con la Turchia, vecchio amico ormai perso.

Le opinioni pubbliche dei due paesi erano in uno stato di viva tensione, soprattutto quella palestinese, ansiosa di sentire il proprio presidente parlare davvero al mondo e di vedere realizzato un sogno.

Abu Mazen aveva due strade davanti a sé, e una scelta strategica cruciale. Poteva chiedere di passare da soggetto osservatore a Stato membro, a pieno titolo, con l’approvazione del Consiglio di Sicurezza, dove è richiesta una maggioranza di nove voti, ma è anche garantito, e da tempo, il veto americano. E a questo muro si arriva dopo una procedura assai lunga.

Oppure, più facilmente e rapidamente, il presidente palestinese poteva chiedere il voto dell’Assemblea, che però può solo ammettere uno Stato in qualità di osservatore, come il Vaticano. Si tratta di un obiettivo minore, ma in Assemblea la maggioranza è ampiamente garantita, senza veti, e la preziosa parola “Stato” sarebbe conquistata agevolmente, assieme alla partecipazione a svariati organi dell’ONU.

Abu Mazen ha scelto la prima strada, il che ha dato al suo messaggio il massimo pathos e impatto, tra l’entusiasmo della sua gente nel West Bank e il quasi totale silenzio di Gaza. Hamas, infatti, ha da mesi accettato di formare un governo comune con l’Autorità palestinese, governo che però non si è materializzato per insanabili contrasti soprattutto sulla nomina del primo ministro. Hamas non vuole la riconferma di Salam Fayyad, ma non ha nemmeno rotto con l’AP, perché una parvenza di unità conviene a entrambi, per non rafforzare il comune avversario Israele.

Hamas comunque non condivide la decisione di sottoporre la questione all’ONU, sia perché sarebbe un successo politico per il poco amato Abu Mazen sia perché comporterebbe l’abbandono della speranza di ritorno a tutta la Palestina. Scelta che l’OLP e l’Autorità palestinese hanno compiuto da tempo, ma alla quale Hamas si oppone: è disposta a una lunga tregua, non a una pace di rinuncia.

Nel fervore dell’aspettativa dei discorsi a una così vasta e determinante platea, gli aspetti tecnici, prioritari in un organismo complesso come l’ONU, erano compresi meno; era solo chiaro che, chiedendo l’ammissione come Stato membro a pieno titolo, e non come Stato osservatore, i palestinesi sarebbero andati a sbattere contro il veto americano. Come ribadito più volte dal presidente Obama, che non può ribaltare la politica del suo paese su un punto chiave e per di più all’apertura della campagna per la rielezione.

La questione è passata, dunque, al Consiglio di Sicurezza, dove si è deciso subito di incaricare un’apposita commissione di studiare la questione per un parere “tecnico”. Hanno promesso di far presto ma passeranno settimane, se non mesi.

Intanto, dietro le quinte, i palestinesi cercano di assicurarsi il nono voto, puntando soprattutto sulla Bosnia.[1] In questo modo costringerebbero gli Stati Uniti ad apporre il veto e questo sarebbe per Abu Mazen,  in termini politici, una sconfitta circonfusa di vittoria, in cui emergerebbero le contraddizioni di Washington, incastrata tra le belle parole così spesso rivolte al Medio Oriente e i meno attraenti fatti.

In parallelo, è partita anche l’iniziativa del Quartetto (formato da Nazioni Unite, Unione europea, Stati Uniti, Russia, e coordinato da un sempre meno convincente Tony Blair) che ha ripreso la proposta fatta all’Assemblea dal presidente Sarkozy: ripresa dei negoziati ma con tempi serrati, non biblici, quasi a tappe forzate da chiudere entro un anno.

 

La strategia israeliana

Nella ridda di reazioni e commenti due aspetti sono appena emersi.

Netanyahu, che nel suo discorso aveva offerto di riaprire subito i negoziati, ha di nuovo insistito sul riconoscimento di Israele come Stato ebraico, richiesta rivolta ai palestinesi ma in realtà diretta a delimitare le aspettative della minoranza araba israeliana. Problema delicatissimo e sotterraneo, ma anche causa di tensioni interne sempre più difficili da controllare. Il primo ministro israeliano ha poi annunciato un nuovo aumento delle costruzioni nella contesissima Gerusalemme Est, rassicurando così la parte più intransigente della sua coalizione, e ha infine dichiarato di accettare la proposta del Quartetto. Senza precondizioni.

Subito dopo, però, Netanyahu ha annunciato che Israele presenterà comunque al Quartetto una lista di riserve (“qualifications”), riguardo al calendario, a negoziati paralleli (e non unici) su tutta una serie di questioni (Stato ebraico, profughi palestinesi ecc.). E soprattutto riguardo al congelamento della richiesta palestinese di adesione all’ONU. Come ha detto un anonimo ministro, Israele è sulla linea del “sì, però”, e spera che la proclamata accettazione della proposta del Quartetto renda invisibile alle varie opinioni pubbliche, compresa quella israeliana, la lista delle obiezioni.

Tutto questo mentre da parte palestinese si pone una precondizione assoluta e risonante: il blocco degli insediamenti. Un negoziato che conduca a un ritiro massiccio, se non quasi totale, dal West Bank e a una divisione di Gerusalemme sarebbe per i palestinesi impossibile se gli insediamenti continuano a mettere radici sempre più vaste e profonde. Netanyahu è sincero quando dice di volere un processo di pace, il più lungo possibile, ma non è disposto a concluderlo con un vero ritiro, anche se di solito accenna a dolorosi sacrifici. Non ne ha né volontà né forza politica.

Da quanto detto è logico dedurre che l’atteggiamento di apertura, sia pure molto condizionata, del governo Netanyahu alla proposta del Quartetto sia dettato da due constatazioni: da una parte l’isolamento crescente di Israele, che in pratica può contare in sede ONU sull’appoggio americano e su qualche misurata astensione, in un momento in cui a livello regionale il Medio Oriente è diventato ancora più complesso. Dall’altra il calcolo che siano gli stessi palestinesi a far “fallire” i negoziati con la richiesta del blocco degli insediamenti.

Si tratta di un calcolo assolutamente trasparente che può essere oggetto di critiche non eludibili. Esso potrebbe persino divenire la premessa per un ritardato ma trionfale ingresso all’ONU della Palestina come paese osservatore, quando la richiesta di adesione come paese membro sarà bocciata dal Consiglio.

A conti fatti, dunque, la mossa di Netanyahu è dovuta soprattutto a necessità di ordine interno. Il primo ministro israeliano potrà infatti affermare di fronte alla propria opinione pubblica che ci si è provato, ma non si è trovato un partner con cui trattare. Evitando al contempo di essere scavalcato dalla destra oltranzista, guidata dal ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, il quale ha parlato, pubblicamente, di possibile forti reazioni alla mossa palestinese in sede ONU, come ad esempio l’annessione del West Bank.

 

Israele in un vicolo cieco?

Su tutto questo è calata – con la pesantezza di cui è capace la politica interna quando si traveste da politica estera – la decisione del Congresso americano di bloccare 200 milioni di dollari di aiuti a progetti dell’Autorità palestinese e la promessa di fermare anche gli stanziamenti dell’anno prossimo (600 milioni) se l’Autorità non ritira la richiesta di ammissione all’ONU.

Si apre infatti un anno elettorale, per la Casa Bianca e per il Congresso, e la carta filo-Israele viene giocata duramente. Anche se la minaccia statunitense potrebbe avere un risvolto paradossale: qualora l’Autorità non fosse più in grado, per ragioni politiche o finanziarie, di fare fronte agli impegni prioritari, come la sicurezza o i servizi essenziali, e se rinunciasse ad amministrare il West Bank, sciogliendosi, Israele – potenza occupante – sarebbe tenuto a intervenire, e non potrebbe semplicemente trincerarsi dietro la famosa barriera di sicurezza.

Netanyahu infatti vuole un’Autorità debole, arrendevole, senza Hamas; ma non la vuole liquefatta, perché non avrebbe alcun interlocutore per un processo di pace che vorrebbe infinito, e perché il costo – politico, militare, economico – per Israele sarebbe disastroso. Quasi come il costo del ritiro. Su questo gli occidentali dovrebbero riflettere un poco: Israele è preso nella tagliola. La scelta di fondo è tra un ritiro dai costi astronomici e un fallimento palestinese che – senza nemmeno contemplare l’eventualità di una guerra – sarebbe anch’esso catastrofico.

I palestinesi, a lungo incapaci di formulare una politica unitaria e di trovare una strategia vincente, sono alla fine arrivati, quasi per caso, a cacciare gli israeliani nel loro stesso vicolo cieco, dove gli spazi ristrettissimi nuociono più a un paese forte che alla controparte debole.

 

Una situazione ancora molto fluida

Si apre quindi un periodo di incertezza, a vari livelli.

Di attesa palestinese per le decisioni del Consiglio di Sicurezza e per l’eventuale ricorso al voto dell’Assemblea per divenire Stato osservatore.

Di tentativi per far partire i negoziati, con o senza precondizioni (pubbliche o sottobanco), tra le pressioni di tutti i soggetti forti – gli americani (in un momento di paralisi elettorale), il Quartetto, la Lega Araba – e  le istanze dei meno forti, come la Giordania.

Di crescente sfiducia del mondo arabo verso gli occidentali e verso Washington.

Un periodo nel quale un ruolo sempre più indipendente sarà giocato da tradizionali alleati, come l’Arabia Saudita, che sulla questione palestinese sono già intervenuti in modo assai duro.

Infine un periodo nel quale i palestinesi potrebbero cominciare a fare uso di forme di nonviolenza molto decisa, che avrebbero come risposta  non solo l’intervento dell’esercito di Israele – che è già stato pianificato – ma degli stessi coloni, già appositamente addestrati dai militari.

Uno scenario da incubo che, paradossalmente, gioca più a favore dei palestinesi che di Israele. Con Netanyahu infatti, Israele può solo sbagliare o affidarsi troppo a un alleato americano che ha priorità complesse e non necessariamente allineate, nel tempo, a quelle di Israele.

Mentre i palestinesi, se evitano, come pare probabile, una terza intifada – che nessuno vuole – e se Hamas e Autorità fanno un minimo di gioco di squadra al solo scopo di ostacolare Israele, potranno permettersi di attendere tutto il tempo necessario. Per un ingresso all’ONU, non importa in che forma, con modi e tempi di resistenza dove il fattore demografico, o comunque politico, si faccia sentire, in prospettiva e in un Medio Oriente imprevedibile. Israele ha giocato tutto sul tempo, sul radicamento degli insediamenti, sui fatti compiuti sul terreno. Una strategia che molti, in Israele e nel mondo ebraico, ritengono miope e distruttiva. Questa è la stessa conclusione cui stanno arrivando, anzi ci sono già arrivati, i palestinesi, che stanno provando a ritorcerla contro trasformando i fatti compiuti in nodi che Israele dovrà dolorosamente sciogliere.

D’altra parte tutti sanno, dagli Stati Uniti alla Lega Araba, che la pace può solo venire da un ritorno alla linea ante 1967 salvo compensazioni concordate, possibili con scambi di popolazione – che possono apparire piccoli (non meno di 70 mila persone) ma che sono enormi per Israele. Per muovere i 7 mila di Gaza fu necessario mobilitare l’esercito, sotto la guida di un implacabile Sharon. Sono passati anni, è cambiato il paese e anche l’esercito. Netanyahu non ha uguale lucidità e forza, si frantumerebbe la sua coalizione e si spaccherebbe il paese, già al momento in cui il negoziato prendesse una piega seria.

Uno scenario complesso che, qualunque cosa dica il Quartetto, non può chiudersi felicemente in un anno, nemmeno come intesa da attuare in seguito. Il 2012 sarà un anno cruciale ma non c’è da attendersi nulla sul fronte della pace.



[1] Al momento, oltre che dai cinque membri permanenti (Stati Uniti, Russia, Francia, Regno Unito e Cina), il Consiglio di Sicurezza è costituito da: Bosnia ed Erzegovina, Brasile, Colombia, Gabon, Germania, India, Libano, Nigeria, Portogallo e Sudafrica.