Israele: un voto in cerca di normalità

Di Carlo Pinzani Venerdì 15 Febbraio 2013 13:17 Stampa
Israele: un voto in cerca di normalità Foto: The Israel Project

Sebbene il recente voto politico in Israele abbia avuto per risultato un quasi perfetto equilibrio fra le forze che appoggiano il governo Netanyahu e quelle che vi si oppongono, ciò non cancella la sostanziale sconfitta politica di Netanyahu e del suo programma, prevalentemente incentrato sui temi della sicurezza. Il successo di Yair Lapid e del suo partito e l’arresto del declino del partito laburista testimoniano invece del desiderio di Israele di divenire un paese normale, come tutti gli altri alle prese con le dolorose conseguenze della crisi economica e finanziaria.


È probabile che le due amministrazioni di Barack Obama saranno nel tempo ricordate per il loro legame con la crisi finanziaria ed economica, iniziata nel 2008 e di cui non è ancora in vista la fine, proprio come le prime due amministrazioni di Roosevelt lo sono state per il collegamento con la Grande crisi del 1929. Anche le elezioni parlamentari israeliane rientrano pienamente in quel contesto: si sono svolte infatti in un momento in cui i rapporti tra Stati Uniti e Israele, pur restando solidissimi, non sono certo allo zenit e, secondo tutti gli osservatori, hanno risentito in misura decisiva della situazione economica e sociale interna e internazionale.

Anche il loro risultato è stato condizionato da questi fattori: mentre il governo conservatore di Netanyahu ha cercato di porre ancora una volta al centro del voto il problema della sicurezza d’Israele, nel quale è decisivo il ruolo degli Stati Uniti, gli elettori hanno mostrato di privilegiare le preoccupazioni economiche e sociali interne, memori delle manifestazioni dello scorso anno che esprimevano il disagio di una parte della popolazione per le difficoltà economiche e abitative. Ne è uscita una Knesset quasi perfettamente divisa a metà con 60 (o 61) deputati aderenti a partiti laici o religiosi che appoggiano il Likud e il governo Netanyahu e 60 (o 59) deputati di partiti che vi si oppongono. La spaccatura della Knesset sembra più apparente che reale, visto che i due partiti arabi hanno ottenuto 12 seggi e visto che non v’è alcuna possibilità che questi voti siano utilizzati nella formazione del nuovo esecutivo. È dunque assai probabile che Netanyahu riesca nuovamente a formare un governo di coalizione di centrodestra, nonostante le schermaglie di questi giorni tra il Likud e il nuovo partito centrista di Yair Lapid, Yesh Atid (“C’è un futuro”), che come secondo partito ha rivendicato la guida del paese.

Anche se Netanyahu riuscirà a restare primo ministro ciò non basterà a cancellare la sua sconfitta politica: non solo la fusione del Likud con il partito ancor più conservatore e nazionalista, l’Yisrael Beiteinu di Avigdor Lieberman, ha portato a un risultato inferiore alla somma dei consensi per i due parti separati, ma è fallito anche il tentativo di intimorire gli elettori con l’allarme per l’immediata sicurezza d’Israele. Questo allarme, oggi, può riguardare soltanto la minaccia nucleare iraniana, vera o presunta che sia, dal momento che l’ANP ha intrapreso la difficile strada del tentativo di costringere Israele a ritornare alla trattativa tramite le pressioni della comunità internazionale e che Hamas ha ridotto il suo grado di belligeranza avvicinandosi alle posizioni arabe moderate della Fratellanza musulmana in Egitto e di alcuni degli Emirati del Golfo.

Ma il problema iraniano è forse quello sul quale maggiore è la distanza tra Israele e Stati Uniti, che non intendono drammatizzarlo. Parimenti ardua è la questione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, sui quali il governo Netanyahu ha assunto negli ultimi tempi una posizione non lontana da quella del partito dei “coloni”, Bayit Yehudi (la Casa ebraica) vale a dire l’aperta affermazione del diritto storico degli ebrei a Eretz Yisrael, con la conseguente annessione di tutti i territori compresi tra il Giordano e il mare. Anche su questo punto la distanza con gli Stati Uniti è enorme, dato che l’amministrazione Obama persegue la ripresa della trattativa con i palestinesi per giungere alla soluzione dei due Stati in quei territori. E, non per nulla, subito dopo le elezioni il governo di Netanyahu ha ripreso ad alimentare la tensione con lo spauracchio delle armi non convenzionali siriane che potrebbero cadere nelle mani degli sciiti libanesi e con i conseguenti raid aerei. Secondo Netanyahu, gli israeliani non possono mai rilassarsi.

Il successo di Yair Lapid e del suo partito è invece espressione del desiderio che Israele cominci a cercare di divenire un paese normale, che, come tutti gli altri, affronti le dolorose conseguenze della crisi economica e finanziaria. Anche l’arresto del declino del partito laburista si inserisce nel quadro della prevalenza dei temi economici e sociali, vista la scarsa importanza attribuita nella campagna elettorale dalla nuova leader Shelly Yachimovich alla questione palestinese. Né a compensare questo calo di tensione nell’elettorato israeliano basta il successo del partito progressista e pacifista Meretz.

Alcuni osservatori fanno rilevare che il diffuso bisogno di normalità significa soprattutto acquiescenza a uno status quo largamente favorevole a Israele, il che comporta la rinuncia alla ripresa del processo di pace. Ma, anche se così fosse, la sconfitta politica di Netanyahu non sarebbe meno pesante: la conquista della normalità in Israele non può non passare attraverso una pace reale con i palestinesi e, in generale, con gli arabi, perfino – al limite – nell’eventualità di un’annessione della Cisgiordania. Ovviamente, in questa ipotesi, una pace effettiva e stabile potrebbe avvenire solo con una profonda trasformazione interna, conseguente al riconoscimento della parità di cittadinanza per gli arabi: in pratica, con la nascita di un unico, nuovo Stato che difficilmente potrebbe ancora chiamarsi Israele.

Che lo Stato ebraico si trovi ora a un bivio è confermato dalle dimissioni di Stanley Fisher da governatore della banca centrale – dopo che per accedere alla carica aveva rinunciato alla cittadinanza americana – proprio per l’incompatibilità della politica nazionalista di Netayahu con le condizioni generali dell’economia israeliana e mondiale. La scelta di fronte a Israele è dunque chiara: o si torna ad una politica più moderata e realistica accettando senza riserve mentali la soluzione dei due Stati – la sola che possa soddisfare l’aspirazione espressa dagli elettori – o si procede sulla strada del nazionalismo ideologico più acceso per fondare la sicurezza d’Israele soltanto sulla forza. Come si è detto questa soluzione è più apparente che reale anche perché conduce, a scadenza più o meno breve, a un contrasto non effimero con gli Stati Uniti, com’è già del resto avvenuto con la comunità internazionale.

Per quanto riguarda gli USA è difficile che Obama possa rinunciare ai suoi principi generali di politica internazionale (e anche a quelli più specifici per il Medio Oriente) per tollerare ancora a lungo un atteggiamento che avrebbe avuto bisogno di una vittoria repubblicana nelle elezioni americane, apertamente auspicata da Netanyahu. Un chiaro segno in questo senso è la scelta, come Segretario alla difesa di uno dei pochi repubblicani non appiattiti sulle posizioni della destra israeliana, con l’ex-senatore Chuck Hagel. Se poi, e in qual misura, quest’ipotesi sia fondata sarà più chiaro tra poche settimane con la visita, annunciata in questi giorni, del presidente americano in Israele. In ogni caso, i margini per proclamare una volontà di pace e al contempo tenere comportamenti pratici che la allontanano sembrano essersi di molto ridotti.

Quanto alla comunità internazionale, essa potrebbe difficilmente modificare la politica sin qui seguita appoggiando pedissequamente Netanyahu senza abdicare ignominiosamente (e questa volta in modo definitivo) al proprio ruolo, visto che la questione palestinese è stata creata nei suoi termini storici e ancora attuali dalla risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del novembre 1947 sulla partizione della Palestina.

 

 


Foto: The Israel Project