L’altra guerra di Siria

Di Maria Grazia Enardu Martedì 14 Maggio 2013 11:47 Stampa
L’altra guerra di Siria Foto: Thierry Ehrmann

Considerata dal punto di vista di Israele, la questione della guerra civile siriana presenta molte sfaccettature, e soprattutto molte incognite e un sostanziale paradosso. Per il governo israeliano, la permanenza al potere di Assad ha sempre garantito la stabilità del “non confine” del Golan. D’altra parte, il regime di Damasco è sostenuto apertamente proprio dagli arcinemici d’Israele: Hezbollah e l’Iran. Il futuro della Siria e il suo possibile disfacimento costituiscono dunque motivo di grande apprensione per il governo israeliano e allontano anche la possibilità che si riapra il processo di pace.


Seguiamo tutti, per quanto è possibile sapere, quel che accade in Siria: due anni fa la rivolta iniziata quasi per caso, dopo la brutale reazione del regime di Assad a scritte ironiche di ragazzini a Dera, inneggianti alla primavera araba («ora tocca a te, dottore!»), poi la guerra civile, con il paese che si scompone secondo linee etnico-religiose mai superate, nemmeno in un paese laico com’è la Siria praticamente da sempre, dai tempi del mandato francese a quelli della dinastia Assad.

Il fronte dei ribelli è assai diversificato, costituito in buona parte da sunniti, ma non solo, e anche tra i sunniti si va da gruppi apertamente islamici ad altri di visione religiosa moderata. Una guerra che ha provocato una marea di profughi, almeno 2,5 milioni secondo i dati ufficiali (ma molto probabilmente sono di più), fuggiti verso la Giordania, la Turchia, il Libano, l’Iraq. L’unico confine sigillato è quello che non esiste, perché è la linea del cessate il fuoco (post 1973) con Israele.

Tra i paesi che incastonano la Siria, Israele è l’attore più anomalo. Tutti i paesi confinanti, chi più chi meno, sono coinvolti nella guerra, come basi dei ribelli, vie di rifornimento degli uni o degli altri, rifugio di profughi. Israele è l’unico ad avere un ruolo limitato, ma non per questo meno incisivo.

Israele non vuole un cambio di regime, un Assad, sia pure legato all’Iran e fornitore di Hezbollah, è pur sempre preferibile a un leader ribelle e magari debole, di più difficile comprensione e gestione. Men che mai vuole uno staterello alawita sulla costa siriana del Mediterraneo, rifornito dagli iraniani, che sarebbe però collocato a nord del Libano, e dunque non adiacente a Israele. I termini della questione, con Assad, erano chiari: la Siria per firmare una pace rivoleva indietro il Golan, che Israele ha pensato più volte di restituire – l’ultima nel 2008, ai tempi del governo Olmert –, tanto più che la pace con la Siria avrebbe quasi automaticamente portato alla pace con il Libano, ma poi l’operazione Piombo fuso su Gaza, nel dicembre 2008, le dimissioni di Olmert e l’avvento di Netanyahu avevano mutato la situazione. Nel frattempo il quasi “confine” era relativamente tranquillo e i palestinesi in Siria sotto osservazione (compreso il capo di Hamas, Khalid Meshal). L’unica vera preoccupazione erano le armi chimiche: non solo il pericolo che la Siria le avesse, ma il timore che finissero in mani sbagliate. E anche che la Siria costruisse un impianto nucleare, già oggetto di un attacco aereo israeliano nel 2007.

Il disfacimento della Siria introduce un’equazione di sole incognite che preoccupa moltissimo Gerusalemme. E soprattutto rischia di diventare il campo di battaglia con un vecchio nemico, Hezbollah, rifornito dall’arcinemico Iran. Gli attacchi di Israele delle scorse settimane, è stato detto, erano mirati a obiettivi precisi, convogli o depositi di missili iraniani destinati a Hezbollah.

Perché Hassan Nasrallah – segretario generale di Hezbollah che condusse con abilità militare e politica la guerra contro Israele nel 2006, arrivando al colpo di teatro di scusarsi con i libanesi per quello che avevano subito – forse ha commesso un grosso errore. Per Hezbollah, più ancora che Assad e gli alawiti (gruppo vicino ma distinto dall’Islam sciita, che spesso lo respinge), contano le linee di rifornimento con l’Iran, che passano dall’Iraq e poi dalla Siria. Non ci sono alternative. Per difenderle Nasrallah ha prima espresso il proprio appoggio ad Assad e poi ha inviato uomini per combattere contro i ribelli. La forza politica di Hezbollah in Libano, prima della rivolta siriana, consisteva principalmente nel presentarsi come attore di governo, non come elemento di aggravamento delle crisi che inevitabilmente coinvolgono il Libano, sia per l’arrivo dei profughi sia per l’acuirsi delle tensioni interne in un paese che è una democrazia confessionale, dove Parlamento e istituzioni sono suddivise.

Fino allo scoppio della rivolta siriana, Hezbollah aveva il potere di suscitare le preoccupazioni di Israele, che temeva sopra ogni cosa l’eventuale risposta di Hezbollah ad attacchi contro Gaza o addirittura contro l’Iran. Intervenendo in Siria, però, Hezbollah diventa più sciita e meno libanese, più legato a interessi della regione, dove è un soggetto debole, e meno a quelli libanesi, dove era più forte dei suoi semplici numeri e si vedeva in crescita. In questo modo, Hezbollah rischia di diventare, in una Siria sfasciata, l’alleato di una roccaforte alawita e quindi esposta alle contromosse delle altre componenti libanesi.

L’unico paese che sulla Siria ha una linea chiarissima è l’Iran: il ministro degli Esteri, in visita a Damasco, ha dichiarato che il suo paese farà di tutto per sostenere Assad. Anche sfasciare la Siria e regalare a chiunque si metta in mezzo decenni di instabilità. Considerando che Teheran si sente isolata e minacciata, c’è da credergli. È noto che in Siria sono presenti consiglieri militari e combattenti iraniani. Ma anche il legame tra Iran e componenti siriane o Hezbollah va considerato nel contesto di uno Stato non arabo che appoggia componenti arabe con interessi e culture assai diverse.

Israele si trova nella paradossale situazione di desiderare da una parte la sconfitta di Hezbollah e dell’Iran (o quanto meno che essi subiscano danni significativi) e dall’altra la vittoria proprio di quella figura che queste forze vogliono salvare: Assad. E quando ci sarà – se ci sarà – la conferenza internazionale su cui il segretario di Stato americano John Kerry e il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov hanno trovato un’intesa qualche giorno fa, Israele rimarrà fuori dalla porta. Se partecipassero gli altri paesi confinanti, com’è probabile visto che sopportano il peso dei profughi e altre conseguenze della guerra civile siriana, Israele sarebbe esclusa perché, come detto, non condivide con la Siria un vero confine. Potrebbe solo contare su una rappresentanza indiretta tramite gli americani e forse anche su un minimo di attenzione da parte della Russia su un tema che per Israele è prioritario, tanto da convincere Netanyahu a un imminente viaggio a Mosca per parlarne di persona a Putin: impedire che i russi forniscano ad Assad missili terra aria S-300. Israele teme sia il rischio che finiscano in mani diverse, sia quello che siano usati, anche dal regime, contro l’aviazione israeliana in caso di nuovo attacco a convogli di rifornimento di Hezbollah. Questo è il tipo di trattativa che fa molto rimpiangere a Netanyahu di reggere l’interim del ministero degli Esteri in attesa di un ritorno di Avigdor Lieberman, che con i russi ha sempre avuto rapporti cordiali. Nel frattempo, il ministro Lavrov ha dato la consueta risposta sul tema dei rifornimenti russi ad Assad: il contratto è firmato da tempo, si tratta di una vecchia fornitura che la Russia intende onorare – giusto per tenersi tutte le opzioni aperte.

A preoccupare Israele, e non solo, è anche l’afflusso in Siria di combattenti, soprattutto anti Assad, provenienti da altri paesi e considerati automaticamente come un pericolo e come la futura generazione di jahidisti in addestramento. Paradossalmente, l’unica componente rimasta quasi invisibile è quella dei palestinesi di Siria, che sono ospiti e sono sunniti, e cercano di non destare troppa attenzione, anche se un gruppetto ha recentemente fatto dichiarazioni bellicose. Il piccolo Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina - Comando Generale (FPLP-CG), strumento del regime siriano, ha annunciato di voler riprendere il controllo del Golan. Sarebbe una missione virtualmente suicida con cui Assad ricambierebbe in modo indiretto gli attacchi di Israele. Mentre nel Golan la popolazione araba, di etnia drusa, secondo un noto giornalista israeliano, Gideon Levy, è spaccata a metà, tra sostenitori di Assad e fautori dei ribelli. Inoltre, mentre Israele diffida fortemente degli sciiti, da Hezbollah all’Iran, una Siria post Assad, anche se in qualche modo fratturata, sarebbe più sunnita e più attiva nel cercare nuove collocazioni. È quindi una partita incredibilmente complicata vista da qualsiasi angolazione – e in particolare da Gerusalemme.

Il caos siriano rende molto più difficile, anzi allontana del tutto, ogni ragionevole prospettiva di ripresa di qualunque cosa assomigli a un vero negoziato di pace con i palestinesi. E quali palestinesi, c’e da chiedersi, visto che l’Autorità Palestinese di Abu Mazen è molto debole, soprattutto dopo le dimissioni del primo ministro Salam Fayaad, e che Hamas vuole consumare il tempo perché pensa che il tempo consumi Israele. I primi due anni del nuovo mandato di Obama rappresentavano la finestra di opportunità, se le due parti l’avessero voluto, ma la finestra rischia di rimanere chiusa a causa della tempesta siriana.

Il dopo Assad per Israele dovrebbe essere di una Siria più o meno ufficialmente divisa, e con zone etnicamente più omogenee, visto anche il fenomeno dei profughi interni. Ma da sorvegliare con molta più attenzione di quanto non si facesse prima, quando gli Assad garantivano un Golan quasi tranquillo, mentre in futuro anche le alture rischiano di “libanesizzarsi”, per così dire.

Ma se Israele aggiunge la Siria alle questioni che richiedono vigilanza quotidiana e risposte immediate (se necessarie) cambia tutto il quadro, regionale e internazionale. Israele non può permettersi impegni su troppi fronti, e questa può essere la premessa di scelte molto razionali ma anche il terreno per tentare imprese risolutive. Speriamo di no.

 

 


Foto: Thierry Ehrmann