Caos Iraq: l’avanzata dei jihadisti sunniti dell’ISIS tra verità e propaganda

Di Fabio Atzeni Martedì 01 Luglio 2014 17:37 Stampa

L’offensiva dell’ISIS – il cui obiettivo è in primo luogo la riconquista delle aree sunnite della provincia di Anbar e poi la costituzione del califfato islamico – contro le forze governative irachene del primo ministro Al Maliki ha aggiunto un nuovo complesso elemento al puzzle mediorientale, che potrebbe giocare a favore della sopravvivenza del regime di Assad nella vicina Siria.


Nelle ultime settimane i jihadisti sunniti dell’Islamic State of Iraq and the Levant (ISIS), organizzazione terroristica di matrice qaedista, hanno conquistato numerosi territori iracheni che includono le città di Mossul, Tikrit, Kirkuk e si sono spinti fino a Baquba, a poche miglia da Baghdad. Questa proiezione verso la capitale irachena e quindi potenzialmente verso le aree a maggioranza sciita del Sud del paese, come le città sante di Najaf e Karbala, ha messo in luce il fallimento di Nuri Al Maliki e del suo governo sciita. Questi ultimi non hanno fatto nulla per evitare l’esclusione dei sunniti dalla partecipazione politica, esacerbando lo scontro religioso e spingendo le tribù sunnite dell’Iraq centrale – le quali, benché in minoranza, detenevano il potere durante il regime di Saddam – tra le braccia dell’ISIS. Nei mesi scorsi, al-Maliki non è riuscito ad avviare alcuna riconciliazione tra il governo sciita e le tribù sunnite della provincia di Anbar. Al contrario, ha permesso il frazionamento e il conseguente indebolimento delle milizie sunnite moderate dell’Awakening di Al Sahwa, fino a quel momento garanti della stabilità del paese. A ciò va aggiunta l’incapacità dell’e Forze armate irachene di rispondere militarmente alle milizie dell’ISIS che sono meglio organizzate, meglio addestrate e godono del supporto di molti ex ufficiali sunniti e baathisti dell’esercito di Saddam.

Per tali ragioni, l’avanzata dell’ISIS in Iraq getta molte ombre sulla possibilità di resistenza dello Stato e la recente conquista di Mossul, la seconda città irachena, assume un significato rilevante sia in termini ideologici che in termini pratici: l’ISIS ha così acquisito una maggiore mobilità tra i territori iracheni e le sue staging areas oltre il confine siriano; ha conquistato il controllo dell’oleodotto Kirkuk- Ceyhan in Turchia, dell’energia elettrica e delle fonti d’acqua attraverso la diga di Mossul.

Se questi eventi da un lato sembrano favorire le ambizioni politiche dei falchi del regno saudita, pur con il rischio di un ritorno di fiamma, contribuendo a rendere più vicini alla realizzazione gli obiettivi degli sponsor del terrorismo islamista, le reazioni a livello internazionale sono state molteplici. L’Iran ha risposto quasi immediatamente all’appello di Al-Maliki e del Grande Ayatollah Al Sistani, che ha incoraggiato per la prima volta i fedeli sciiti a imbracciare le armi in difesa del paese e in particolare dei luoghi santi. Il presidente Rouhani ha inviato prontamente i reparti speciali dei Pasdaran e il comandante delle milizie di Al Quds, il generale Qassim Al Suleimani, a sostegno di Baghdad e ha dichiarato che l’Iran sarebbe anche disposto a collaborare con gli Stati Uniti pur di difendere l’Iraq libero e i propri confratelli sciiti, gettando così altra benzina sul fuoco del più ampio scontro religioso tra sunniti e sciiti nello scacchiere mediorientale.

Washington invece, con maggiore cautela, pur non rispondendo all’invito di Teheran, in modo da non incrinare le proprie relazioni privilegiate con l’Arabia Saudita e per non esacerbare lo scontro religioso, vero obiettivo dell’ISIS, ha promesso sostegno politico e militare a Baghdad, senza però l’invio di un contingente militare di terra, con la sola eccezione dei 170 marines mandati per rinforzare le difese della propria ambasciata. Per il momento il Pentagono si è limitato a schierare nel Golfo Persico la portaerei G. H. Bush, due navi da guerra dotate di sistemi missilistici Tomahawk e una nave anfibia, dalle quali sarà possibile condurre attacchi terrestri, delle sortite aeree, ma anche operazioni speciali finalizzate al recupero dei connazionali rimasti in Iraq.

Obama sostiene innanzi tutto la necessità di individuare degli obiettivi chiari e inequivocabili e richiede al governo di Al Maliki di impegnarsi in modo incisivo, con delle riforme, per placare la frattura tra iracheni sunniti e sciiti, cercando di dar prova dell’imparzialità dello Stato rispetto alla questione religiosa. In questo modo lo scontro religioso si trasformerebbe in un conflitto tra forze governative e gruppi terroristici di destabilizzazione, premessa necessaria per privare l’ISIS del supporto più o meno diretto delle tribù sunnite moderate e riconciliabili. Per tali ragioni la Casa Bianca ha predisposto, non senza difficoltà, l’invio di un piccolo contingente di forze speciali per assistere l’esercito e il governo iracheno. Nonostante le dichiarazioni ufficiali, una possibile cooperazione sul campo, anche in modo indiretto, tra Washington e Teheran, potrebbe costituire la premessa per un più ampio dialogo diplomatico anche riguardo ad altre questioni rilevanti come il futuro dell’Afghanistan o la questione del nucleare iraniano. Rimane invece ambiguo l’atteggiamento della Turchia, che se da un lato ha appoggiato i curdi nord iracheni e ne sostiene la resistenza contro l’ISIS, favorendone per la prima volta il cammino verso l’indipendenza da Baghdad, dall’altro, almeno inizialmente, sembrava non dispiacersi della possibile insaturazione di uno Stato sunnita in Iraq, a opera degli ex appartenenti al partito Baath.

 

La vera natura dell’ISIS

L’Islamic State of Iraq and the Levant, come suggerisce il nome stesso, ha un’agenda prevalentemente nazionalista e locale. Benché sia un gruppo d’ispirazione qaedista, e quindi legato all’internazionale del terrore, ha obiettivi più pragmatici e maggiormente legati alla costituzione del califfato islamico auspicato da Bin Laden nelle aree sunnite di Iraq e Siria. Lo stesso leader dell’organizzazione, Abu Bakr Al Baghdadi, ha assunto un nome di battaglia che ne reclama le origini irachene, in modo tale da rendere più credibili i propri obiettivi politici locali e per facilitare il reclutamento. Al Baghdadi fa parte della seconda generazione di leader di al Qaeda, maggiormente influenzati dalle tattiche estremamente violente dell’ex leader iracheno Al Zarqawi, assassinato dagli Stati Uniti nel 2006 e quindi in contrasto con la leadership tradizionale legata ad Al Zawahiri, votata invece all’internazionalismo del Jihad.[1]

Benché gli obiettivi politico-religiosi dell’ISIS prevedano la conquista e la costituzione di uno Stato islamico e il controllo del suo territorio, così come narrati nella loro superlativa campagna di comunicazione, la tattica utilizzata sul campo è quella della guerriglia, ovvero di colpire gli obiettivi e ritirarsi subito dopo, in modo da non essere individuati. In questo modo è stata recentemente attaccata e conquistata la città di Samarra; come in altre zone del paese, gli obiettivi reali riguardavano, più che il mantenimento del territorio, la conquista dei pozzi petroliferi e delle raffinerie, come quella di Beiji che è la più grande del paese, il saccheggio delle banche e il rifornimento di viveri, di mezzi ed equipaggiamenti sottratti alle Forze armate irachene. La sfuggevolezza dell’ISIS se da un lato rappresenta un grave problema per le forze governative, dall’altro ne impedisce un vero e proprio consolidamento organizzato sul terreno, consentendone la concentrazione in poche città o aree all’interno del paese e oltre il confine siriano.

 

Il centro di gravità del conflitto: la provincia irachena di Anbar e la guerra in Siria

In questo conflitto il centro di gravità geografico è costituito dalla provincia di Anbar e dalla città di Ramadi, mentre le tribù sunnite, a seconda di come si schiereranno a favore o contro l’ISIS, rappresentano quello politico. Allo stesso tempo, la possibilità che i due gruppi dell’Awakening sunnita di Ahmed Abu Risha e di Mahmoud Al Hayis si riuniscano e si alleino con Al Maliki, costituisce un ulteriore passo verso la riconciliazione auspicata da Washington, che sarebbe l’unica via per alterare a favore di Baghdad l’equilibrio delle forze. L’apparente preponderanza dell’ISIS, ben celebrata dal gruppo stesso per mezzo della propria propaganda, anche attraverso i social network e la cassa di risonanza dei media internazionali, va in realtà ridimensionata. Il gruppo terrorista, infatti, sarebbe in difficoltà nel controllare la città di Ramadi, dove a marzo è stato assassinato uno dei suoi top leader Abu Abdul Rahman Al Kuwaiti. Qualora il gruppo di Al Baghdadi dovesse perdere il controllo di Falluja (conquistata lo scorso gennaio) e non riuscisse a impedire l’alleanza fra le tribù sunnite, le milizie dell’Awakening e il governo di Baghdad, ne uscirebbe quasi certamente sconfitto, tenuto conto anche del contributo dell’Iran e del potenziale intervento americano.

Inoltre, al di là del confine siriano l’ISIS è tenuto costantemente sotto pressione dalle forze regolari di Assad ma anche dalle altre fazioni ribelli con i quali si è scontrato apertamente, ovvero i moderati del Free Syrian Army, ma anche i qaedisti del Jabhat Al Nusra. Le tattiche estremamente violente dell’ISIS e la priorità data alla realizzazione del califfato, rispetto all’abbattimento del regime siriano, ha alienato molti ex sostenitori del gruppo e ne ha determinato l’isolamento e l’indebolimento: molti territori in precedenza conquistati dal gruppo sono stati recentemente abbandonati, soprattutto nella provincia di confine con l’Iraq di Deir el-Zor, obbligando molti combattenti a ritirarsi fino a Raqqa, ben all’interno dello Stato siriano.

Il vero obiettivo dell’ISIS nel breve termine è quindi quello di reinsediarsi nelle proprie aree di origine, le aree sunnite della provincia di Anbar in Iraq, riprendendone il pieno controllo come nel 2005-06. Tali aree, infatti, sono state abbandonate dai guerriglieri di Al Baghdadi in seguito al successo della counterinsurgency americana e a causa dell’esodo di combattenti generato dal jihad in Siria, a partire dal 2011.

Per quanto concerne le implicazioni di questi eventi nella guerra in Siria, appare ora sempre più improbabile un appoggio diretto degli Stati Uniti alle forze ribelli, in particolare con la fornitura di sistemi missilistici contraerei di nuova generazione, richieste dal Free Syrian Army per fronteggiare l’aeronautica di Assad: questi sistemi d’arma, decisamente efficaci, se persi in battaglia, rischierebbero di finire proprio tra le mani dell’ISIS e potrebbero essere usati contro i ribelli moderati siriani, contro le truppe irachene, contro gli aerei civili o ancora più paradossalmente contro gli americani stessi. Infine, il regime di Assad, benché continui a reprimere violentemente i ribelli, costituisce oggi l’unico baluardo politico e militare contro gli estremisti qaedisti di Al Nusra e contro la minaccia dell’ISIS. Pertanto, retorica a parte, l’atteggiamento della comunità internazionale e in particolare degli americani dovrà adeguarsi alle necessità di evitare un altro Iraq in Siria. Il regime di Assad, ha quindi trovato nell’escalation di attacchi dell’ISIS un modo paradossale ma efficace di prolungare la propria sopravvivenza.

A tre anni dal ritiro delle forze statunitensi dall’Iraq, il nuovo Iraq democratico è ormai uno Stato fallito, che fornisce un severo monito a qualsiasi politica che non tenga conto dei reali confini etnico-religiosi, che costituiscono le vere e proprie linee di faglia in tutto il Grande Medio Oriente.



[1] A. B. Atwan, After Bin Laden, Al Qaeda the Next Generation, New Pr, Londra 2013.