La Birmania a un bivio

Di Piero Fassino Venerdì 26 Novembre 2010 11:54 Stampa
La Birmania a un bivio Foto: Giovanni Marasco

Piero Fassino, inviato speciale dell’UE per Birmania/Myanmar, analizza la situazione attuale e le prospettive future della Birmania all’indomani delle prime elezioni dal 1990 e della liberazione di Aung San Suu Kyi.

La Birmania è nato come Stato indipendente nel 1947, dopo circa settant’anni di dominazione coloniale inglese. Fondatore e leader storico della nazione birmana è stato il generale Aung San, padre di Aung San Suu Kyi. Dal 1947 al 1988, la Birmania è stata governata da un sistema politico inizialmente pluralistico e poi, via via, sempre più autoritario con il prevalere delle gerarchie militari che hanno gradualmente assunto ogni potere. Nel 1988 un movimento popolare democratico provocò la crisi del regime e inaugurò una breve stagione democratica, culminata nel 1990 nella vittoria elettorale della Lega nazionale per la democrazia, guidata da Aung San Suu Kyi. All’indomani di quelle elezioni, i militari – con un colpo di Stato – tornarono al potere e da allora una Giunta militare guida il paese. Aung San Suu Kyi ha trascorso quindici di questi vent’anni agli arresti domiciliari e anche per questo è stata insignita del premio Nobel per la pace.
Nell’agosto del 2007 il paese è stato investito da una rivolta popolare, guidata dai monaci buddisti, che protestava contro il rialzo dei prezzi e le condizioni di vita della popolazione. È seguita una dura repressione, in conseguenza della quale Unione europea, Stati Uniti e altri paesi occidentali hanno inasprito ulteriormente le sanzioni economiche adottate negli anni precedenti.
Il regime si è caratterizzato in questi vent’anni per una politica di forte isolamento del paese e per un profilo spiccatamente nazional-identitario, di cui sono evidente manifestazione la decisione di adottare un nuovo nome, Myanmar, e fondare una nuova capitale, Naypyidaw.
Nonostante sia ricco di risorse naturali (gas, petrolio, legname pregiato, pietre preziose) fino ad oggi il paese ha conosciuto un tasso di sviluppo lontano dalla crescita in atto nei paesi vicini. Aspetto non secondario è il carattere multietnico e multireligioso del paese, nel quale convivono numerose e consistenti comunità etniche i cui rapporti con le autorità centrali sono complessi, spesso segnati da tensioni e conflitti, anche per la presenza, nelle zone di confine, di organizzazioni armate.
La collocazione geopolitica della Birmania – incastonata tra India e Indocina, porta della Cina sull’Oceano Indiano – ha indotto negli ultimi anni Cina e India a promuovere una crescente politica di interscambi, investimenti e penetrazione economica su larga scala. In particolare la Cina è oggi il più importante partner della Birmania e considera il paese un elemento strategico della sua espansione nel Sud-Est asiatico. Il che preoccupa non poco i paesi delle regione e gli stessi Stati Uniti, inquieti anche per i legami che il regime birmano avrebbe stabilito con la Corea del Nord.

La recente liberazione di Aung San Suu Kyi – dopo oltre quindici anni di isolamento assoluto – ha dinamizzato significativamente lo scenario birmano. La liberazione, anche se non certa, era attesa per scadenza a termine di legge degli arresti domiciliari. Non era affatto scontato invece quel che è accaduto dopo: Aung San Suu Kyi ha goduto e gode, per ora, di una piena libertà di movimento e di espressione e intorno a lei si sta attivando una rete di relazioni e di forze fino ad oggi fortemente oppresse dal regime. È lecito chiedersi quanto questo clima durerà: vi sono infatti già i segni di misure repressive nei confronti della stampa. E tuttavia, pur in uno scenario precario, si aprono possibilità nuove. Peraltro Aung San Suu Kyi ha dimostrato fin dal primo momento lucidità e saggezza, evitando ogni recriminazione polemica e orientando tutti i suoi interventi a manifestare la sua disponibilità, senza precondizioni, all’apertura e al dialogo per una transizione democratica fondata sulla riconciliazione nazionale.

Questa strategia è tanto più importante oggi, in un momento cruciale per la Birmania, dopo che lo scorso 7 novembre si sono svolte elezioni – le prime dopo vent’anni – per l’elezione di un Parlamento bicamerale e dei Parlamenti regionali. Le elezioni si sono svolte in uno scenario fortemente condizionato dalla Giunta: un controllo ferreo sul paese; Aung San Suu Kyi agli arresti domiciliari; duemila prigionieri politici; una legge elettorale e regole per la campagna elettorale lontane dagli standard occidentali (anche se non dissimili da quelli adottati in altri paesi asiatici). Difficilmente perciò ci si poteva attendere che dalle urne discendesse un immediato cambiamento politico significativo. E infatti i risultati ufficiali assegnano all’USDP – il partito del regime – oltre l’85% dei seggi. Cionondimeno, lo scenario è più animato del previsto. Alle elezioni hanno partecipato trentasette liste, alcune delle quali guidate da personalità dell’opposizione. Le minoranze etniche, tutte, hanno partecipato ritenendo le elezioni uno spazio di agibilità da percorrere, soprattutto nella elezione dei Parlamenti locali. La campagna elettorale ha fatto emergere, nonostante le mille difficoltà, forze della società civile. All’indomani delle elezioni ci sarà comunque un Parlamento – che oggi ancora non c’è – e si formerà un governo civile a cui dovrebbero essere trasferiti i poteri attualmente esercitati dalla Giunta. La Lega nazionale per la democrazia non ha partecipato alle elezioni non sulla base di un’esclusione, ma sulla base di una scelta. L’NLD infatti invoca il riconoscimento delle elezioni del 1990. La decisione di non partecipare alle elezioni – da cui la scelta di Aung San Suu Kyi di non recarsi a votare – è stata assunta a maggioranza e ha condotto un settore della NLD, a presentarsi alle elezioni con la nuova lista NDF (National Democratic Front).
L’ONU, l’Unione europea, gli Stati Uniti e la comunità internazionale hanno scelto di non rifiutare a priori il passaggio elettorale, ma di agire perché esso potesse essere “credibile” (questa è la parola usata in tutte le dichiarazioni internazionali, da ultimo quella del vertice ASEM, l’Asia-Europe Meeting, dello scorso ottobre) con la speranza che dopo le elezioni, potesse avviarsi una fase nuova, incentrata sulla liberazione di Aung San Suu Kyi e dei prigionieri politici, sull’apertura di un dialogo tra Giunta, opposizione e minoranze etniche e sull’avvio di un processo di riconciliazione nazionale e di transizione democratica.
Peraltro, avvicinandosi le elezioni, dall’interno della Birmania – sia dalle fila dell’opposizione sia dalla società civile – sono venute crescenti sollecitazioni a non isolare il paese, ma a cogliere ogni occasione per aprirlo.
Va ancora rilevato che una strategia fondata sulle sanzioni – adottate da UE, Stati Uniti e Canada – ha un valore morale e politico, ma una scarsa efficacia: l’85% dell’interscambio birmano avviene infatti con i paesi asiatici, tutti contrari alle sanzioni (compresi Stati democratici come Giappone, Corea, Indonesia, Singapore, Malesia e Thailandia, nonché Australia e Nuova Zelanda). Né in sede Onu, né in sede ASEAN le sanzioni hanno trovato avallo. In particolare tutti i paesi asiatici – seppure con diversi gradi di sensibilità – prediligono e praticano una strategia di moral suasion. La stessa Cina, che pure intrattiene intense relazioni con il regime birmano, non è aliena dall’incoraggiarne prudentemente una “evoluzione controllata”. Mentre l’India, nonostante la sua tradizione democratica, si astiene del tutto da qualsiasi iniziativa che possa incidere sulle relazioni bilaterali tra i due paesi.
Sono queste le ragioni per cui gli Stati Uniti – che erano i più duri sostenitori della linea sanzionatoria – negli ultimi mesi hanno proceduto ad una policy rewiev che, pur confermando le sanzioni, ha inaugurato una strategia di engagement, che ha portato Kurt Campbell, assistente del Segretario di Stato per l’Estremo Oriente e il Pacifico, a visitare già due volte il Myanmar dove ha incontrato sia Aung San Suu Kyi sia i rappresentanti del regime.
E anche l’Unione europea – che nel novembre 2007 ha nominato un suo inviato speciale – ha adottato la stessa strategia: conferma delle sanzioni (con possibilità di revisione a fronte di fatti nuovi), engagement con tutti gli stakeholders della società birmana (Giunta, opposizione, comunità internazionale), incremento degli aiuti umanitari e dei programmi di cooperazione sociale.
A conferma della linea adottata, Stati Uniti e UE hanno scelto di non includere nella risoluzione sui diritti umani in Birmania, proposta come ogni anno all’Assemblea generale dell’ONU, alcun riferimento ad un’eventuale commissione di inchiesta internazionale, proposta avanzata, peraltro in modo generico, da Tomás Ojea Quintana, rapporteur delle Nazioni Unite sui diritti umani in Birmania. E ciò non perché USA e UE non considerino critica la situazione dei diritti umani, ma perché hanno ritenuto controproducente sostenere quella proposta in una fase segnata da nuove opportunità di apertura.
Sul dossier birmano anche l’impegno dell’ONU è stato costante. Dopo la “rivoluzione zafferano” dell’agosto-ottobre 2007, il segretario generale Ban Ki-moon ha nominato un suo rappresentante speciale (posizione che è stata ricoperta, fino alla primavera scorsa, da Ibrahim Gambari ed è ora occupata, ad interim, dal capo di gabinetto). Il paese è stato visitato più volte sia dai rappresentanti del segretario generale sia dallo stesso Ban Ki-moon, il quale presiede il cosiddetto Group of Friends, di cui fanno parte i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, l’Unione europea, i principali paesi asiatici e occidentali impegnati nel dossier. Dopo il ciclone Nargis (maggio 2008) l’ONU e l’ASEAN hanno assicurato il coordinamento degli aiuti umanitari internazionali, garantendo una maggiore agibilità alle agenzie dell’ONU e alle ONG internazionali e favorendo la crescita di ONG locali.
In coerenza con tale impegno il dossier birmano è stato più volte oggetto di discussione tra i membri del Consiglio di sicurezza, anche se non come punto all’ordine del giorno – a causa della contrarietà di Cina, Russia e altri paesi membri – ma come punto di informazione. Il che spiega perché, a partire dal 2007, il Consiglio di sicurezza non abbia più adottato risoluzioni formali, pur proposte da Stati Uniti e Unione europea, ma dichiarazioni del segretario generale e “statement presidenziali” del paese presidente di turno.

Insomma la Birmania è di fronte a un bivio, tra opportunità di apertura e rischi di repressione e chiusura. Per quanto un’evoluzione positiva sia possibile, essa non è affatto scontata. Ci si potrebbe anzi trovare di fronte a un nuovo indurimento del regime. Proprio per evitare questo rischio risulta evidente la necessità di sostenere il nuovo scenario, con un’azione finalizzata a tre obiettivi: la liberazione dei duemila prigionieri politici; la cessazione delle ostilità nei confronti delle minoranze etniche; l’avvio di un vero dialogo tra giunta, opposizione e comunità etniche per la gestione della transizione.
Per perseguire questi obiettivi l’Unione europea intende sviluppare una strategia attiva e propositiva che accresca il livello di engagement aumentando gli aiuti umanitari, cooperando in settori sociali cruciali per la popolazione (educazione, sanità, infanzia), sostenendo la società civile e incoraggiando il dialogo.
E in questo contesto l’Alto rappresentante Lady Ashton ha confermato la decisione (presa nei mesi scorsi ma congelata in attesa della liberazione di Aung San Suu Kyi) di inviare una missione di alto livello.
Quanto alle sanzioni, appare ragionevole – come già dichiarato più volte dal Consiglio europeo e dal Consiglio dei ministri dell’UE – confermare la disponibilità a modularne l’applicazione, subordinando riduzioni e sospensione a concreti sviluppi positivi della situazione.

 

smallhr

Vedi anche:

All'inizio dello scorso novembre, poco prima che si tenessero le elezioni in Birmania, il premio Nobel per l'economia Amartya Sen ha pubblicato un appassionato articolo sulla situazione nel paese asiatico: leggi l'articolo qui.

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