La crisi dell’università: responsabilità, problemi, soluzioni?

Di Andrea Graziosi Martedì 04 Gennaio 2011 12:51 Stampa
La crisi dell’università: responsabilità, problemi, soluzioni? Foto: Dolce Luna

La crisi del sistema universitario italiano va inserita nel più generale declino di buona parte dei sistemi universitari dell’Europa continentale. Il caso italiano ha però caratteristiche particolari, che discendono da cause specifiche non imputabili alla riforma Gelmini, i cui effetti potremo giudicare solo tra qualche anno. La rassegna delle cause del degrado dell’università italiana che ci propone qui Andrea Graziosi ci può aiutare a capire quale potrebbe essere il suo impatto.

La crisi del sistema universitario italiano – dove pure esistono isole di qualità e migliaia di docenti di valore – non è negata da nessuno, e va inserita nel più generale declino di buona parte dei sistemi universitari dell’Europa continentale, a sua volta sintomo della perdita di peso ed energia del nostro continente. Il caso italiano ha però caratteristiche particolari, che discendono da cause specifiche.
Tra queste non v’è la legge Gelmini, che deve ancora esplicare i suoi effetti, e potremo quindi giudicare solo tra qualche anno. È giusto però interrogarsi sulle sue possibili conseguenze, e una rassegna, ovviamente schematica, delle cause specifiche del degrado dell’università italiana ci può aiutare a capire quale potrebbe essere il suo impatto.

Al primo posto di questa rassegna sta l’incapacità – imputabile alle classi dirigenti – di “pensare” la straordinaria crescita quantitativa del nostro sistema universitario avvenuta tra la metà degli anni Cinquanta e quella degli anni Novanta, quando si è risposto alle molteplici esigenze di una società più moderna e complessa allargando a dismisura un modello ideato in e per una società di elite, fondata sul privilegio sociale.
Questa politica ha goduto del sostegno di docenti, studenti e famiglie, illusi dalla prospettiva che fosse così possibile conservare i benefici che quel tipo di università era stata in grado di riservare tanto ai primi che ai secondi. La sensazione di molti studenti che il futuro gli sia stato “rubato” dipende in parte anche dal loro improprio comparare la loro situazione, in un paese con milioni di laureati, con quella di un passato non lontano quando le poche lauree garantivano posizioni di gran lunga migliori di quelle assicurate dalle lauree odierne (a eccezione di alcune facoltà a numero chiuso). Va però ricordato che comunque la laurea garantisce ancora al suo possessore un reddito superiore e un tasso di disoccupazione inferiore a quelli di chi ne è privo.
Una buona legge dovrebbe quindi cercare di capovolgere la situazione, e puntare alla nascita di un sistema universitario pubblico articolato al suo interno su fasce di diversa qualità (per esempio in base al titolo di studio che è in grado di elargire: laurea triennale, specialistica o dottorale), ad accesso diversamente selettivo, e con tasse crescenti, capace di convivere con un buon sistema di formazione professionale di terzo livello, differenziato su base regionale.

La seconda causa è più particolare e va cercata nella combinazione tra l’autonomia universitaria introdotta negli anni Ottanta, più simile – perché irresponsabile – ad un’autogestione che a una vera autonomia, e la creazione – all’inizio degli anni Novanta – del Fondo di finanziamento ordinario (il FFO). Si è creato così un meccanismo perverso, ma inevitabile, in cui atenei retti da organi collegiali elettivi, il cui elettorato andava per di più progressivamente allargandosi, hanno speso quote crescenti dei fondi ricevuti per assumere personale e migliorare la posizione del personale già impiegato. A soffrirne sono stati i fondi per la ricerca, per i laboratori, per le biblioteche, per la didattica: messi di fronte ai loro elettori che – potendo scegliere – anche nel migliore dei casi preferivano un assegno di ricerca, un passaggio di livello, o un posto di ricercatore a più macchine o più risorse elettroniche, le autorità accademiche hanno aperto una corsa che ha portato rapidamente i fondi per il personale a superare spesso il 90% del FFO. Ancora oggi, malgrado le tante dichiarazioni in contrario, l’arrivo di un po’ di soldi è visto di regola come occasione per nuove assunzioni o nuove promozioni di interni.
Una buona legge dovrebbe quindi introdurre riserve obbligatorie di spesa all’interno del FFO,  possibilmente con ampi margini di oscillazione (per esempio: dal 60 all’80% per il personale, dal 10 al 30% per la ricerca, dal 10 al 30% per la didattica ecc.), in modo che le università possano scegliere dove posizionarsi e quindi che tipo di università essere, ma abbiano comunque vincoli minimi.

La terza causa va cercata nella presunzione, di origine europea e condivisa da buona parte della sinistra e della destra, ma introdotta e magnificata in Italia dalla riforma Berlinguer, di poter conoscere le realtà, e persino prevedere le tendenze del mercato del lavoro. Per meglio garantire il contatto con esso, si disse, la laurea triennale sarebbe stata “professionalizzante”. È stata così alterata la natura stessa dell’insegnamento universitario, con risultati che – come era facile prevedere – il “mercato del lavoro” non ha apprezzato, visto che si è trovato di fronte laureati dalla formazione ristretta e quindi privi della necessaria capacità di adattamento e sviluppo.
Una buona legge dovrebbe perciò rovesciare la tendenza alla professionalizzazione dei trienni e puntare a poche lauree triennali di largo respiro, capaci di alimentare un numero superiore di lauree specialistiche. L’indispensabile formazione professionale di terzo livello, di natura spesso tecnica (la formazione corrispondente a quella, spesso molto buona, garantita in passato dagli istituti per geometri, ragionieri, tecnici di vario tipo), andrebbe affidata ad istituzioni specifiche, che potrebbero essere organizzate su base regionale.

La quarta causa va cercata nel comportamento dei docenti, che hanno assecondato le tendenze in atto, e le hanno spesso aggravate senza rendersi conto di minare così la base del loro prestigio, e quindi della loro posizione sociale ed economica. Poiché i professori non sono angeli, c’è da chiedersi però che altro avrebbero fatto altri messi al loro posto. La verità è che il sistema è stato retto da regole che per decenni hanno premiato comportamenti perversi, dando per esempio più peso a chi aveva più studenti, dava voti più alti, o laureava con minore difficoltà, visto che il ministero distribuiva le risorse basandosi sul numero degli iscritti, sulla media degli studenti in regola con gli esami, e sui voti di laurea (dati usati anche dai quotidiani per pubblicare ridicole graduatorie di università).
Una buona legge dovrebbe quindi introdurre regole e soprattutto incentivi che spingano i docenti ad agire diversamente, premiando altri tipi di comportamento: per esempio chi fa più ricerca, di qualità nazionale o internazionale, chi partecipa a più progetti di ricerca locale, nazionale o internazionale, chi assicura un livello maggiore di internazionalizzazione ecc. Questo in base al principio che l’università è veramente tale solo quando combina ricerca e insegnamento.

La quinta causa va cercata nei comportamenti, e nelle richieste, di studenti e famiglie che, in preda all’illusione – in parte ancora giustificata, anche se al di sotto delle loro aspettative – che il “pezzo di carta” assicuri comunque dei benefici, hanno quasi sempre chiesto solo ciò che poteva facilitare il rilascio dello stesso – più sedute di esame, meno carichi didattici, lauree più facili, nessuna penalità ai fuori corso, se possibile nessun aumento delle tasse e nessuna selezione all’ingresso – senza accorgersi di partecipare così alla corsa che riduceva drasticamente quei benefici.
Una buona legge dovrebbe invece puntare a ripristinare, sia pure a diversi livelli, una selezione all’ingresso basata sul merito; assicurare una didattica continua e seria, non interrotta da sedute di esame; incentivare la frequenza; scoraggiare anche finanziariamente i fuori corso, ecc. E dovrebbe farlo spiegando perché tutto ciò è oggi indispensabile.
Vi sono naturalmente altre, e importanti cause del degrado del nostro sistema universitario, come la difficile ricezione della “globalizzazione” da parte del nostro paese nel suo complesso, che ha spesso reagito ad essa esaltando vecchie tendenze strapaesane, quando non apertamente reazionarie. La cosa ha radici profonde e non c’è lo spazio qui per parlarne, come pure si dovrebbe.

Nella mia lista dei colpevoli non vi sono invece i baroni, tanto importanti nella retorica populista di destra e di sinistra. Il dibattito sulla nuova legge è stato per esempio segnato da accuse reciproche di favorirli segretamente, al limite del delirio paranoico. Vi sono certo alcuni docenti prossimi alla pensione e formatisi nell’università degli anni Sessanta, quando i professori di ruolo erano circa 2.000 e avevano poteri e privilegi reali, che cercano ancora di imitarne i comportamenti. E come in tutte le grandi aziende – le università hanno più di 100.000 dipendenti – vi sono nel sistema universitario uomini di potere, che questo potere usano in modo virtuoso o corrotto. Ma i baroni non esistono più: le università hanno circa 60.000 docenti, e la piccola frazione dei più pagati guadagna poco più di 4.000 euro al mese netti, una vetta cui pochi arrivano dato il ritardo con cui ormai si entra in ruolo. Gli stipendi italiani sono oggi più bassi di quelli anglosassoni e di area tedesca, e paragonabili a quelli francesi (ma in Francia esistono le grandi scuole, che assicurano ben altre condizioni). È oggi per esempio impossibile attirare nel nostro paese gli studiosi migliori, anche perché non vi sono più posizioni apicali  – vogliamo dire “baronali”? Da questo punto di vista, l’atteggiamento persecutorio verso gli inesistenti baroni sembra rappresentare un aspetto dell’inconscia accettazione del degrado italiano, che è nei fatti ma cui ci si rassegna così senza combattere: premendo per diminuire ulteriormente il prestigio, la posizione, e gli stipendi del corpo docente, o almeno di quella che dovrebbe essere la sua parte migliore, spingiamo infatti  a emarginare ulteriormente il nostro paese dal giro del mondo che conta.

Vediamo ora se le domande avanzate dal movimento degli studenti e dai ricercatori che hanno lottato contro la nuova legge risolvano in qualche modo i problemi che ho elencato. I primi si sono battuti “contro i ladri del futuro” in nome di una università “pubblica”. Nessuno però minaccia la natura pubblica dell’università italiana: con le università non si guadagna, le università private sono piccole e basate su facoltà poco costose, nessuna di essa ha facoltà di scienze o medicina – a eccezione di quelle cattoliche, che sono a loro modo università pubbliche di altro tipo e comunque si limitano alla medicina ecc. Le università statali corrono semmai il rischio della regionalizzazione (un altro tipo di proprietà pubblica), per cui si battono potenti interessi ma che ha dato cattiva prova di sé in Germania, dove pure le amministrazioni regionali hanno solide tradizioni.

L’università “pubblica” che vogliono gli studenti, e le loro famiglie, non è quindi semplicemente una università statale: essa è piuttosto un’università a cui si accede liberamente e dove si pagano tasse bassissime, vale a dire il modello indifferenziato che ha fatto fallimento a seguito della sua massificazione, e che comunque oggi nessuno ha più le risorse per mantenere. E il futuro è stato “rubato” nei decenni trascorsi da chi ha permesso l’aumento del debito pubblico, osteggiato l’immigrazione, ignorato serie politiche di aiuto alla famiglia, vissuto come se l’Italia fosse ancora quella del miracolo economico, accettato il declino qualitativo di scuola e università ecc. Si tratta evidentemente di un “chi” collettivo. Come non vi sono perversi baroni che hanno distrutto l’università, non abbiamo vissuto in una dittatura, e i ceti politici sono stati espressione di interessi diffusi.
I circa 25.000 ricercatori andrebbero differenziati: tra loro, come tra i professori, vi è un numero rilevante di persone prossime alla pensione, entrate all’università con la disastrosa ope legis dei primi anni Ottanta, e vi sono migliaia di vincitori di concorsi localistici, spesso con uno o due candidati, tanto si sapeva che non poteva esservi competizione. Vi è poi qualche migliaio di bravi studiosi, costretti in una categoria mal pensata e che è giusto abolire. A questi ultimi occorrerebbe offrire prospettive di carriera con concorsi regolari e competitivi. Invece di raccontare una realtà differenziata, una parte dei ricercatori ha preferito costruire un’immagine – di grande successo mediatico – in cui giovani e virtuosi studiosi sono ostacolati da malvagi baroni (spesso gli stessi professori che li hanno assunti e ai quali sono culturalmente se non omologhi, molto vicini). Si è cercato così – come è in fondo naturale – di garantire che il maggior numero di risorse possibile andasse alla promozione di chi, come loro, già lavora nell’università.

Venendo finalmente alla nuova legge – che è peggiore del disegno originario – essa affronta questa situazione in maniera ambigua, presentando dei punti oscuri ma offrendo anche opportunità. Il suo difetto principale, al di là della mancanza di fondi – che è però oggi un problema di tutti i paesi occidentali, che renderà anche da noi inevitabile l’aumento delle tasse – è quello di una generale timidezza: la legge pone dei problemi, ma non offre soluzioni adeguate, e quando le offre lo fa a volte, come nel caso dei giudizi di idoneità nazionali, con meccanismi tali da annullare le buone intenzioni iniziali. Lo stesso si può dire per gli strumenti premiali e punitivi, vantati e poi smussati; per la selezione degli studenti all’ingresso, lasciata solo intravedere dall’introduzione – di cui vi era bisogno – di un test nazionale di valutazione di chi si vuole iscrivere all’università; per il riconoscimento di una diversa organizzazione della gestione degli atenei, in parte rovinata da una retorica populistica che fa a pugni con una politica di qualità ecc.
La legge però permetterà agli atenei che ne saranno capaci, perché dotati di un buon gruppo dirigente, di scrivere statuti in gradi di metterli in condizione di costruire università migliori di quelle attuali, accelerando il processo di differenziazione del nostro sistema universitario. Essa pone inoltre il problema della qualità, e si basa su un “discorso” in cui il merito occupa un posto importante, permettendo così, almeno in teoria, dei provvedimenti amministrativi di tipo diverso da quelli del passato.
Molto dipenderà quindi dai decreti attuativi, e soprattutto da come essi saranno interpretati e applicati. In particolare, molto dipenderà dall’ANVUR (Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e della ricerca), dalla qualità dei suoi dirigenti, dalle risorse e dai poteri che le verranno affidati, e soprattutto dal rigore con cui agirà, profittando dei varchi aperti dalla legge e interpretandone la retorica.

Mettere in moto un processo virtuoso sembra davvero difficile. Ma è indispensabile almeno provarci. Senza la ricostruzione di un serio meccanismo di selezione delle sue élite, di cui un buon settore di università pubblica è un pezzo essenziale, sarà difficile per il nostro paese riuscire a trovare una collocazione soddisfacente in una situazione oggettivamente pesante, che richiede estrema serietà. Era possibile fare i pinocchi e non pagare il conto quando si viveva in società demograficamente fiorenti che dominavano il mondo. Certo, era meglio allora. Purtroppo una società di anziani, che fa parte di un continente in via di emarginazione, richiede altro.

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Foto di Dolce Luna

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