Dal decreto Ronchi ai referendum: quale futuro per l’industria idrica italiana?

Di Bernardo Pizzetti Martedì 24 Maggio 2011 13:57 Stampa
Dal decreto Ronchi ai referendum: quale futuro per l’industria idrica italiana? Foto: Mauro Maestri

Quanta complessità si cela dietro il semplice gesto di aprire un rubinetto per vederne sgorgare dell’acqua potabile, di buon sapore, inodore, incolore e disponibile in ragionevoli quantità e a tariffe accessibili?


Nel dispiegarsi delle numerose attività che caratterizzano la nostra vita quotidiana, di norma il consumo dell’acqua calda è considerato un fatto talmente naturale che il suo significato è stato traslato, nell’uso comune, come allegoria e rappresentazione del concetto stesso di banalità. Eppure, nel semplice gesto con cui la mattina si apre un rubinetto per farne uscire acqua calda è contenuta una complessità che riassume e comprende in sé molte delle categorie che caratterizzano la società moderna come la conosciamo.

Infatti, oltre alla stratificazione del sistema dei diritti che nel corso dei secoli ha segnato il percorso che ha consentito di raggiungere l’attuale definizione dell’accesso all’acqua potabile come diritto inalienabile di ogni essere umano, esiste una complessità industriale che coinvolge istanze anche molto lontane dalla nostra salle de bain. Per riuscire a godere tutti i giorni della giusta temperatura dell’acqua, occorre evidentemente un acquedotto che, a partire da una sorgente e attraverso sistemi di pompaggio, potabilizzazione e controllo della qualità dell’acqua, sia in grado di condurla fino alla nostra abitazione. Se quest’ultima è dotata di una caldaia a gas, allora sarà necessario far giungere questo idrocarburo da regioni anche assai remote, utilizzando gasdotti che attraversano paesi e continenti. Gas e acqua da soli, tuttavia, ancora non sono in grado di produrre una cosa così banale come l’acqua calda. Il gas infatti, per poter sprigionare il proprio potere calorifico, deve bruciare. Non serve molto, basta un fiammifero o una scintilla. Ma per ottenere anche una sola scintilla occorre di norma una rete di distribuzione elettrica alimentata da centrali che utilizzano combustibili di diverso genere provenienti anch’essi dalle più disparate parti del nostro pianeta.

Una volta che tutti questi elementi siano garantiti dai sottostanti assetti industriali e gestionali anche e soprattutto nella continuità della fornitura e nella contemporaneità dell’utilizzo ecco che, finalmente, saremo in grado di modulare l’intensità del calore dell’acqua secondo le nostre individuali, ancorché banali, preferenze e bisogni.

In una società avanzata dunque, che assume fra i propri fondamenti anche quelli della fornitura dei servizi per una moltitudine rilevante di persone, la garanzia di poter ottenere acqua potabile in quantità e qualità adeguate può essere assicurata solo ed esclusivamente da un corrispondente livello di organizzazione industriale.

Ciò per due ordini di motivi. Sotto l’aspetto tecnico-economico, come ampiamente noto, nel settore idrico non è possibile raggiungere un assetto concorrenziale (inteso come possibilità per il consumatore finale di poter scegliere fra diversi fornitori) come avviene invece nei casi del gas e dell’energia elettrica o in quelli, assai meno sperimentati in Italia, dei trasporti e dell’igiene urbana. La fornitura idrica, infatti, rappresenta il più classico dei casi di monopolio naturale dal momento che non è tecnicamente possibile immettere nelle condotte acqua proveniente da fonti lontane dal territorio di riferimento o di imprese diverse fra loro, né è economicamente conveniente duplicare gli acquedotti e l’intera struttura di adduzione e distribuzione. Ciò significa che le economie di dimensione rappresentano un importante fattore di riduzione dei costi e, generalmente, più grande è il soggetto che distribuisce la risorsa idrica, minori risulteranno i costi unitari.

Oltre a tutto ciò, occorre inoltre considerare che la normativa italiana concorre a rafforzare ulteriormente l’assetto monopolistico del settore. Il servizio idrico è “integrato”, cioè la legge[1] prevede che vi sia un unico gestore per ogni ambito territoriale ottimale che, di norma, è individuato su base provinciale. La società che gestisce il servizio non deve portare solo acqua nelle case, ma deve assumere anche il compito di canalizzarla nelle fognature e di depurarla prima di rilasciarla nuovamente nell’ambiente. Entrambe queste fasi, per ovvi e immediati motivi, sono evidentemente non gestibili attraverso sistemi concorrenziali.

Mettendo l’accento sulla natura necessariamente industriale del servizio, si intende quindi assumere tale dimensione quale modello organizzativo privilegiato per soddisfare in maniera efficiente ed efficace i bisogni diffusi di un rilevante numero di persone e di imprese.


Lo scenario critico che si apre con la riforma dei servizi pubblici locali

La legge 166 del 20 novembre 2009 (che converte il precedente “decreto Ronchi”) introduce una nuova disciplina di gestione dei servizi pubblici locali incentrata su una eccessiva confidenza della possibilità del “mercato” di risolvere alcuni degli annosi problemi di bilancio delle società “ex municipalizzate” e di qualità dei servizi che esse erogano ai cittadini. Occorre premettere da subito che, in realtà, di mercato all’interno del provvedimento ne è presente ben poco. La legge 166/09 prevede infatti che l’affidamento dei servizi pubblici locali (SPL) dovrà avvenire quasi esclusivamente a seguito di una gara. Quest’ultima può essere indetta per assumere la gestione del servizio in senso stretto (il cui effetto, al contrario di quanto declamato, non sarà quello di introdurre una più accentuata liberalizzazione dei servizi ma di assegnare un monopolio, seppur temporalmente definito, ad un soggetto privato), oppure su almeno il 40% del capitale della società pubblica locale in cui al socio privato siano attribuiti compiti operativi. In quest’ultimo caso la società manterrebbe l’affidamento diretto e quindi l’effetto, al contrario di quanto declamato, non sarà di liberalizzare ma, piuttosto, di ridefinire i pesi fra soggetto pubblico e soggetto privato all’interno di un monopolio. In entrambi i casi previsti dalla nuova disciplina, quindi, verrà esercitata una possente spinta verso l’aumento delle gestioni dei servizi pubblici in regime di monopolio privato.

A rafforzare tale spinta, interviene anche il sistema delle deroghe alla gara che, seppure differenziate fra società quotate in borsa e non quotate, risultano tuttavia univoche in quanto a risultati a causa della maggiore potenza dell’incentivo ad utilizzarle in luogo della procedura concorsuale. Il meccanismo, infatti, è relativamente semplice: per le società non quotate in borsa, come ricordato, la gara sul servizio può essere evitata nei casi in cui l’amministrazione pubblica ceda il 40% della società che opera in house. Per quanto riguarda le quotate, invece, si stabilisce che la società potrà mantenere la gestione del servizio fino alla scadenza dei contratti (di norma pluridecennali) se e solo se entro il 30 giugno 2013 sarà ridotta fino al 40% la quota pubblica nell’azionariato (da ridurre ulteriormente al 30% entro il 31 dicembre 2015).

La maggior potenza dell’incentivo ad utilizzare la deroga sta tutta in queste disposizioni. Per un qualunque sindaco, infatti, la privatizzazione parziale dell’azienda (sia essa quotata o meno) è di gran lunga preferibile perché consente:

a)      di ottenere liquidità in cambio di azioni, che può essere utilizzata nel corso del mandato elettorale;

b)      di mantenere l’affidamento diretto del servizio alla propria azienda anche se parzialmente privatizzata, evitando così di generare tensioni occupazionali;

c)      di continuare a nominare rappresentanti nel consiglio di amministrazione dell’azienda, anche se in numero inferiore a prima;

d)     di avviare una negoziazione per la scelta del socio che, nel caso di società quotate, può avvenire anche per trattativa privata.

Nessuno di tali incentivi è acquisibile attraverso la gara per il servizio che, al contrario, presenta tutti i rischi speculari ai vantaggi appena elencati. La “liberalizzazione” tramite gara costituisce quindi un evento che, con rare eccezioni, non si verificherà con elevata frequenza ma la cui previsione all’interno della nuova disciplina è assai utile per fornire alibi e giustificazione all’intero impianto.

L’intero panorama della letteratura economica, pur diviso su mille questioni, è sostanzialmente concorde nell’affermare che fra tutte le forme di gestione dei servizi pubblici, il monopolio privato sia la peggiore e che ove il monopolio non sia eliminabile per ragioni tecniche, allora è preferibile che questo sia pubblico.


Impatto sul settore idrico

Applicate tali disposizioni generali allo specifico comparto dell’acqua, i potenziali effetti della riforma Ronchi risultano moltiplicati a causa della particolare struttura naturalmente monopolistica dell’industria idrica precedentemente descritta. Su tale scenario incombono ora due referendum abrogativi: il primo può essere giudicato sostanzialmente condivisibile perché si concentra sull’eliminazione dell’obbligo a privatizzare le aziende erogatrici di SPL introdotto dal Ronchi. Il secondo, invece, intervenendo sul codice ambientale (decreto legislativo 152/2006) avrà come effetto principale quello di incidere sulla natura industriale dell’impresa erogatrice dei servizi idrici in virtù della richiesta abrogazione della remunerazione del capitale investito; tale circostanza è da valutare attentamente perché, al netto della sua componente evocatoria, rischia di produrre quale effetto la disintegrazione dimensionale e organizzativa dell’industria idrica italiana, al contrario di quanto sia auspicabile.

I timori espressi dai referendari sulla eccessiva “vocazione al profitto” delle aziende erogatrici di servizi idrici non sono completamente infondati; secondo il Blue Book “le componenti unitarie di costi operativi e canone (costi esogeni) appaiono in diminuzione ma sono più che bilanciate dall’incremento di ammortamenti e remunerazione del capitale”.[2] In altri termini, il quadro della fornitura idrica italiana sarebbe rappresentato da un trend di aumento dell’efficienza media delle gestioni (in virtù dei costi operativi in diminuzione) e da un incremento del valore degli investimenti. La simultanea tendenza all’aumento della remunerazione media del capitale investito sta ad indicare che di tale maggiore efficienza non se ne avvantaggiano né gli utenti, né i lavoratori ma esclusivamente i detentori di capitale, sia esso di rischio o di debito.

Tuttavia, anche a fronte di tali criticità, la risposta non può essere rappresentata dal mero azzeramento della remunerazione del capitale, perché ciò non consentirebbe al soggetto gestore del servizio idrico, sia esso pubblico o privato, di ricorrere all’indebitamento per finanziare gli investimenti o, se anche vi riuscisse, il costo di tale servizio sarebbe assai più oneroso di quanto non sia attualmente con evidenti ripercussioni sia sulla realizzazione degli investimenti in senso stretto, sia sulle tariffe che tali investimenti sono poi chiamate a ripagare.

L’industria idrica italiana viene spesso rappresentata come un settore in gravi condizioni ed è innegabile che il livello medio delle perdite sia particolarmente elevato (37%)[3] e che gli investimenti sulle reti, in particolare per quanto riguarda la fognatura e la depurazione, appaiono in qualche ritardo.[4] Nonostante ciò, può essere utile rammentare che le principali caratteristiche della fornitura idrica (cioè che giunga nelle abitazioni acqua potabile, di buon sapore, inodore, incolore e, infine, disponibile in ragionevoli quantità e a tariffe accessibili) sono garantite quotidianamente per gran parte della popolazione italiana. Nel momento in cui è stata varata la riforma dei servizi pubblici locali, il servizio idrico presentava (unico fra i servizi pubblici locali) livelli di apprezzamento e di soddisfazione degli utenti assai elevati. È su tale stato dell’arte (certamente non ottimale in alcuni territori ma più che gradito nella quasi totalità degli altri), che si è venuta ad innestare la novità del decreto Ronchi che, purtroppo, concentrandosi eccessivamente sulla sola forma di affidamento dei servizi, non consente di far percepire quali potrebbero essere i miglioramenti qualitativi, quantitativi e tariffari ottenibili con la gara sia nelle località ben servite, che in quelle maggiormente problematiche.

D’altro canto può essere utile osservare che il 90% delle imprese che gestiscono il servizio idrico integrato in Italia sono riconducibili direttamente o indirettamente alla proprietà pubblica e che ciò dovrebbe far riflettere sull’efficacia di concentrare ogni sforzo sulla obbligatorietà dell’impresa pubblica quale garanzia di comportamento non predatorio. Non sempre è così, ed occorre cercare altri percorsi, strumenti ed istituzioni di tutela che possano garantire una maggiore equità nella gestione dei servizi idrici. Mi riferisco in particolare al sistema di regole e di norma che consentono all’impresa idrica, pubblica e/o privata, di adottare comportamenti non esclusivamente orientati al profitto. Torneremo in seguito su questo punto.


Per una industria italiana (ed europea) delle acque

I fattori tecnico economici e gli assetti normativi presenti e futuri appena rammentati che concorrono entrambi a collocare il servizio idrico integrato in una condizione ineliminabile di monopolio naturale orizzontale (cioè quello nel quale sono prevalenti sia le economie di dimensione che l’insostenibilità della duplicazione dei costi di infrastruttura) e verticale (a causa dell’obbligo di legge di prevedere un unico gestore per tutte le fasi del ciclo integrato delle acque), aiutano ad inquadrare la prospettiva di sviluppo dell’industria idrica italiana che, sostanzialmente, dovrebbe continuare a perseguire la linea di progressiva aggregazione delle gestioni già ben delineata dalla legge Galli nel 1994.

La struttura dell’industria idrica in Italia è ancora oggi molto frammentata; alla fine del 2009 si contano oltre 72 affidamenti, di cui 34 in house (cioè affidati a società controllate dagli enti locali), 13 a società quotate in borsa (anch’esse in gran parte controllate da enti locali), 12 in regime di partenariato pubblico-privato (PPP), 6 affidamenti in concessione a società private di capitali (di cui 5 in Sicilia) e i restanti 7 con affidamenti transitori o in regime di salvaguardia.[5]

Come termine di paragone può essere utile gettare uno sguardo al modello francese che, al contrario di quanto avviene in Italia, può contare, oltre che su diverse società locali e gestioni dirette (fra cui, recentissima, la ri-municipalizzata gestione del servizio idrico a Parigi) su ben due diverse aziende multinazionali partecipate con diversa intensità dallo Stato francese:

1)      Veolia, che con oltre 700 filiali sparse per il mondo, costruisce e gestisce impianti di distribuzione idrica e di smaltimento delle acque reflue, servendo oltre 80 milioni di abitanti. Veolia ha un fatturato di circa 35 milardi di euro, di cui circa 10 miliardi sono da attribuire alle gestioni idriche. Il principale azionista della società è la Caisse des Dépôts et Consignations, che detiene il 10% del capitale.

2)      Suez-Gaz de France, che rifornisce di acqua oltre 110 milioni di persone in tutto il mondo, con un fatturato imputabile al settore acqua e rifiuti di circa 13 miliardi di euro. Il principale azionista è la Repubblica francese (36%), seguita da altri azionisti fortemente frazionati, ognuno con partecipazioni inferiori al 6%.

Nel nostro paese, le maggiori società di gestione dei servizi idrici sono il gruppo ACEA, società partecipata al 51% dal Comune di Roma e che, direttamente o per il tramite di società controllate, serve oltre 8 milioni di abitanti con ricavi nel settore idrico di circa 645 milioni di euro e l’Acquedotto pugliese Spa, società interamente controllata dalla Regione Puglia, che fattura poco più di 350 milioni di euro e serve circa 4 milioni di abitanti.[6] È principalmente attorno a questi due soggetti che deve essere immaginato lo sviluppo dell’industria idrica italiana che, a diverso titolo, li vedrà protagonisti in un prossimo futuro, sia come concorrenti, sia come alleati.

Di certo, il paragone fra i nostri campioni nazionali e le aziende francesi appare scontare un’evidente differenza di ordini di grandezza. L’aspetto dimensionale, come ricordato, può essere di maggiore aiuto nella ricerca di una doverosa maggiore efficienza[7] di quanto non possano esserlo sistemi di gara che verrebbero ripetuti soltanto ogni venti-trenta anni.[8] In tale ricerca, può essere opportuno tentare di quantificare il “mercato” dell’acqua, perché avere presente la massa monetaria che sarà movimentata nei prossimi anni rappresenta una informazione assai rilevante per i decisori.

Iniziamo dall’aspetto più semplice: qual è il valore economico dell’acqua? Attualmente, ogni metro cubo (1.000 litri) costa in media all’utente circa 1,4 euro e richiede investimenti per 8,6 euro (di cui circa 4 euroa metro cubo per l’acquedotto e 4,6 euro al metro cubo per fognatura e depurazione).[9]

In Italia vengono erogati annualmente circa 5,5 miliardi di metri cubi di acqua, per cui il mercato potenzialmente fatturabile è di quasi 7,7 miliardi di euro all’anno. I sottostanti investimenti richiedono una mobilitazione di risorse pari a circa 64 miliardi di euro per i prossimi trenta anni (2,1 mld di euro/anno).[10] Incidentalmente vale rammentare che circa la metà di tale fabbisogno sarà finanziato con le tariffe, il 36% sarà costituito da capitale di debito, il 10% con investimenti pubblici e solo il 3% risulterà a carico degli azionisti attraverso aumenti di capitale.

A fronte di tali ricavi e investimenti, i costi operativi risultano attualmente (2010) di 0,91 euro a metro cubo, con un trend sostanzialmente stabile fino a giungere ai 0,85 euro al metro cubo previsti nel 2020 (– 6,5%).[11]

Anche l’altra significativa componente di costo, il canone di concessione, ha una incidenza prevista in diminuzione nei prossimi dieci anni, passando da 0,13 a 0,09 euro al metro cubo (– 30%).[12] La corrispondente tariffa reale media (TRM) varierà invece dagli attuali 1,37 euro al metro cubo a 1,63 euro al metro cubo del 2020 (+19%).[13]

Pertanto la struttura economica del settore per come è attualmente rappresentata (costi in discesa e ricavi in crescita), consentirà margini positivi e significativi per i soggetti presenti e futuri del sistema e consente ampiamente lo sviluppo di un’industria idrica italiana che possa misurarsi (ed eventualmente integrarsi) con gli altri attori internazionali.

Come si fa a stimolare la creazione di una seria industria idrica nazionale? Evidentemente non per decreto ma favorendo un quadro istituzionale che consenta l’emersione e l’affermazione delle aziende più efficienti, la certezza e la stabilità delle politiche tariffarie, la qualità del servizio reso agli utenti finali e la loro tutela. Occorre, in altri termini, coniugare la necessità di una adeguata dimensione industriale con la collocazione del settore idrico in un ambiente che consenta la mitigazione delle regole che il mercato impone, affinché i livelli tariffari non risultino ingiustificati e sia garantito un uso sostenibile della risorsa idrica.


Sulla necessità di un regolatore indipendente

Come si è detto, il settore, pur mobilitando risorse ingenti, purtroppo continuerà ad essere deficitario di concorrenza. Sarà dunque l’impalcatura istituzionale del sistema dei diritti che deve riconoscere e assumere tale vincolo, perché il mercato, da solo, non sarà in grado di farlo. Un rinnovato “spirito del tempo”, che tragga nutrimento dall’idea di prossimità con i territori che era propria di Adriano Olivetti nello sviluppo della sua idea di impresa, nonché dall’approccio di Enrico Mattei nella condivisione dei profitti con le popolazioni “proprietarie” della risorsa, così da realizzare una modalità di creazione di valore dell’impresa che, pur estraendo profitto, non risulti predatoria.

In Italia, le politiche tariffarie del servizio idrico sembrano più affidate al capriccio di una divinità burlona che ad un serio esame delle determinanti di costo che dovrebbero alimentare e giustificare le tariffe medesime. I valori di tariffa più elevati si registrano nell’ATO 5 Toscana Costa (2,28 euro al metro cubo), quelli più contenuti nell’ATO Città di Milano (0,66 euro al metro cubo), con una variabilità di oltre il 240%. Non esiste sottostante struttura dei costi che possa giustificare tali differenze fra territori[14] e tale osservazione dei dati rafforza la necessità di istituire un regolatore indipendente che definisca criteri tariffari non penalizzanti per gli abitanti di determinati territori rispetto ad altri.

Sotto l’aspetto regolatorio, in assenza di segnali concorrenziali, può essere opportuno stabilire criteri di determinazione della tariffa sulla base di un confronto fra le strutture dei costi dei diversi soggetti erogatori tentando di realizzare concretamente quel meccanismo meglio conosciuto come yardstick competition scegliendo, per il periodo di riferimento, la struttura dei costi dell’X azienda più efficiente (o anche di quella che si colloca al livello mediano della classifica di efficienza) quale driver tariffario anche per le altre aziende. In tal modo sarebbe “il mercato” a condurre naturalmente verso una aggregazione della struttura industriale che premierebbe le aziende più efficienti.

Affinché ciò sia possibile occorre una istituzione che, oltre ai doverosi poteri di ispezione e sanzione, abbia il potere di accedere alle informazioni e il compito di raccogliere e organizzare i dati economici, patrimoniali, finanziari e sulla qualità e quantità del servizio e, successivamente, possa quindi definire quei criteri tariffari utili a garantire la corretta remunerazione del capitale impiegato e idonei ad accompagnare il processo di costituzione di una industria idrica italiana di livello europeo e mondiale.


In cerca di conclusioni

Tuttavia, la più che opportuna previsione di un regolatore terzo e indipendente non è sufficiente a limitare i rischi che si corrono replicando in maniera acritica l’applicazione delle logiche concorrenziali (già sperimentate con successo in altri settori) alla distribuzione dell’acqua; in quest’ottica, immaginare lo sviluppo di un’industria idrica nazionale ed europea in un ambiente differente rispetto al mercato non deve essere considerato un approccio “retrò” ma, al contrario, in sintonia con i più avanzati orientamenti assunti di recente dal Parlamento europeo. Quest’ultimo, infatti, si è espresso il 12 marzo 2009 approvando una risoluzione[15] che, fra le tante altre cose afferma che «l’acqua va proclamata un bene pubblico e dovrebbe essere posta sotto controllo pubblico, a prescindere dal fatto che sia gestita, interamente o parzialmente, dal settore privato». Più avanti, la risoluzione del Parlamento giunge a chiedere alla Presidenza di turno «di considerare l’accesso all’acqua potabile un diritto vitale, fondamentale dell’essere umano, e non solo un bene economico soggetto unicamente alle leggi di mercato».

Pertanto, al netto delle mere questioni di efficienza di cui si è fin qui discusso, ripensare gli assetti organizzativi di un settore di base come quello idrico rappresenta una occasione importante per la ricerca di strumenti di intervento che consentano di reinterpretare, innovandolo, un pezzo importante del patto sociale che prevede la fornitura di beni pubblici in cambio di tassazione. I principali strumenti utilizzati nel secolo scorso – le società pubbliche – fanno parte del patrimonio storico della sinistra europea: si pensi alle società municipali create all’inizio del Novecento in Italia dal governo Giolitti sulla spinta dell’esperienza della giunta Nathan a Roma che, mutuando le esperienze del fabianesimo socialista anglosassone, hanno rappresentato per oltre un secolo un importante fattore di sviluppo e di coesione sociale per le comunità locali. Oppure, qualche decennio più tardi, all’esperienza della nazionalizzazione elettrica del 1962, che costituì una tappa fondamentale per integrare il Mezzogiorno al resto del paese e per sostenere il rapido sviluppo industriale di quegli anni che non sarebbe stato possibile con le reti elettriche frammentate, disperse e scarsamente efficienti gestite dagli operatori privati. Esperienze positive senza dubbio, ma che hanno adesso bisogno di una differente declinazione, perché se è pur vero che sono a tutti noti i limiti e le degenerazioni assunte dal sistema delle industrie pubbliche nella parte finale del secolo scorso, rimane tuttavia non opportuno che imprese che gestiscono reti di servizi pubblici e che ambiscono ad avere dimensioni sovranazionali abbiano come unica bussola direzionale le regole della borsa valori o, in generale, delle società per azioni.

In altri termini, occorrerebbe ragionare su un nuovo sistema di diritto. Un “diritto speciale europeo” che non risponda solo all’obiettivo del pur fondamentale risultato d’esercizio alla fine di ogni anno ma che possa aiutare le società nazionali ad incrementare e integrare le reti favorendo così lo sviluppo delle comunità locali. Per fare ciò occorre assegnare regole ad hoc che, nel prevedere la giusta remunerazione del capitale impiegato, possano assegnare obiettivi di medio e lungo periodo, attualmente incompatibili con qualsivoglia sistema borsistico.[16]

 



[1] La legge Galli (legge 36/946) di riforma del servizio idrico integrato (ora assorbita dal decreto legislativo 152/06, “Norme in materia ambientale”), nasce con lo scopo di superare la eccessiva frammentarietà delle gestioni e con l’intento di creare imprese integrate verticalmente e dimensionate su livelli adeguati a garantire il livello di servizio e la continuità degli investimenti necessari al settore.

[2] Il “Blue Book”, la cui citazione nel testo è relativa all’edizione 2008 (p. 3), è edito annualmente da ANEA e dal centro ricerche Utilitatis pro acqua energia e ambiente, e rappresenta una delle principali fonti di dati sul servizio idrico.

[3] Commissione Nazionale di Vigilanza sulle Risorse Idriche (CONVIRI), Rapporto sullo stato dei servizi idrici 2009, p. 170.

[4] Da un’analisi campionaria degli investimenti effettuata da Utilitatis, «emerge che 15 piani revisionati su 18 presentano una correzione al ribasso degli ammortamenti», intesa quale differenza fra «gli investimenti previsti nei primi anni di affidamento del singolo Piano di prima attivazione e quelli effettivamente realizzati dal gestore e riconosciuti nel computo tariffario». Si veda Utilitatis, Blue Book 2010, p. 121.

[5] Ivi, p. 26.

[6] Dati ricavati dai siti internet aziendali di ACEA e Acquedotto pugliese.

[7] Può rivelarsi utile ascoltare anche la voce di addetti del settore: «La prossima revisione del Decreto 152/06 è invece l’occasione per avviare una nuova politica nazionale nel settore del grande approvvigionamento ad usi multipli che consenta un impegno comune e coordinato dello Stato e delle Regioni interessate, verificando la possibilità che questi sistemi siano gestiti in maniera unitaria a livello nazionale da una o più società pubbliche che assicurino davvero la disponibilità della risorsa anche nelle regioni strutturalmente deficitarie, come la Puglia, o che periodicamente devono affrontare periodi di siccità, fenomeno prima ristretto alle isole e alla Basilicata, ma che si manifesta con sempre maggiore frequenza anche in altre aree del paese». Si veda, B. Miccio, Le prospettive del servizio idrico nel d.l. 135/09 disponibile su www.idrotecnicaitaliana.it.

[8] Tale considerazione sembra trovare conferma nelle analisi riportate nel “Blue Book 2010” (pp. 254 e sgg.) secondo la quale i principali indicatori di redditività e di performance economiche crescono (anche in maniera significativa) al crescere della dimensione dell’impresa analizzata).

[9] Ivi, pp.117 e 121.

[10] Ivi, p.111.

[11] Ivi, p.139.

[12] Ivi, p 151.

[13] Ivi, p. 166.

[14] Ivi, p. 167.

[15] Si veda.

[16] Le valutazioni espresse impegnano esclusivamente l’autore e non l’istituzione di appartenenza.

 

 


Foto di Mauro Maestri

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