La città degli eterni ritorni

Di Rita Borioni Martedì 23 Aprile 2013 11:24 Stampa
La città degli eterni ritorni Foto: Luigi Guarino

Da anni, ormai, i governi della Capitale non si dimostrano in grado di discostarsi da un modello di offerta culturale obsoleta, incapace di valorizzare la cultura nella sua dimensione creativa e produttiva e, in definitiva, di trasformarla in motore dello sviluppo turistico-economico della città.


Più di trenta anni fa, Antonio Cederna scriveva sul “Corriere della Sera” a proposito dell’ipotesi di chiudere i “buchi urbani” nel centro storico «qui il rischio maggiore è quello della noia: che si ricominci daccapo come decenni fa a disquisire sulla legittimità o meno degli ‘inserimenti’ moderni in un tessuto antico (…) mentre l’antico va sottoposto a recupero, riuso, riutilizzo, risanamento conservativo. E dove ci sono ‘buchi’ meglio tenerseli e destinarli a spazi pubblici, vuoti utili quanto e più dei pieni. L’isolato dei Polacchi, poi, è un’importantissima area archeologica da esplorare (resti della Crypta Balbi) con edilizia da risanare; quanto a via Giulia, meglio pensare ad altro. Da respingere, infine, il proposito di costruire o far costruire parcheggi in centro, per l’ovvia ragione che se li fai aumenti l’attrazione e la congestione in contrasto con tutti i buoni propositi per la salvaguardia del centro».

Se non fosse per il riferimento alla Crypta Balbi, che nel frattempo è stata aperta al pubblico, queste parole, specie per la vicenda di via Giulia potrebbero essere state scritte ieri. Ma l’Italia è il paese degli eterni ritorni. E Roma ne è il simbolo.

Si è parlato spesso del fortissimo legame che unisce Roma al suo passato millenario e di come esso abbia sabotato ogni innovazione di grande portata, ogni pianificazione sistemica volta al futuro. Di come, cioè, le rovine, il Medioevo, il Rinascimento, il Barocco, i fantasmi che emergono da tremila anni di storia, tengano la città ancorata alle glorie inarrivabili del suo passato, la costringano in uno stato di soggezione paralizzante. Tesi affascinante, se non fosse che la contemporaneità è stata la sigla caratterizzante di Roma nei venticinque secoli passati. Una contemporaneità che si è sempre nutrita del passato, e ne ha trovato ispirazione per via di imitazione o di reazione.

Quel circolo virtuoso, però, si è interrotto da decenni, addirittura da secoli, ed è stato sostituito dalla pratica della reiterazione di modelli presi in prestito da altre realtà o da altre epoche. Un’eccezione fu certamente l’esperienza dell’Estate romana di Renato Nicolini: il più grande «progetto politico di politica culturale» mai pensato per la Roma moderna che, come ha sottolineato Walter Tocci, solo in quegli anni divenne Capitale (a prescindere dalle precedenti e successive determinazioni normative) attraverso l’elaborazione di codici culturali che si mostrarono poi validi per l’intero paese, tenendo insieme le avanguardie e la tradizione e il sentire profondo (la pancia, si direbbe oggi) dell’Italia. Furono anche gli anni della pianificazione urbana, del Progetto Fori, della creazione del parco dell’Appia, degli ultimi grandi progetti per l’edilizia popolare e convenzionata. Si trattò, dopo secoli, del primo tentativo di ripensare e rimettere in connessione la “città intera”: il centro e la periferia, i cittadini e le istituzioni, la cultura “alta” e quella “bassa”, idee e progetti con i bisogni dei cittadini. Solo in pochi casi quelle idee e quei progetti divennero realtà: ma comunque, che siano stati realizzati oppure no, se ne continua a discutere, nel bene o nel male, ancora oggi.

Piuttosto che ripensare la pianificazione secondo le esigenze di tempi molto mutati rispetto agli anni Ottanta, oggi si tenta di rinverdire quei fasti. Pier Luigi Sacco, a proposito della crisi identitaria dell’Italia, ha usato la metafora di «un mondo intrappolato, che non si sa sganciare dai suoi vecchi riferimenti per rintracciarne e proporne di nuovi». Si tratta, cioè, per usare sempre le parole di Sacco, di un paese (di cui, ribadisco, Roma è simbolo) che vive in un presente perpetuo di matrice postmoderna. Perché, anche la riproposizione della visione di Nicolini e di Petroselli, filtrata dal riflusso degli anni Ottanta, giunge fino a noi nella sua versione semplificata e banalizzata. Ci giunge, cioè, deprivata degli elementi di analisi delle complessità che furono determinanti per il successo di quella visione alla fine degli anni Settanta. Ed è proprio dall’analisi che si sarebbe dovuto ripartire, piuttosto che accontentarsi di una sintesi non più attuale.

L’assenza dell’elaborazione profonda dei mutamenti avvenuti negli ultimi decenni impedisce oggi di comprendere che la cultura deve essere considerata anche nella sua dimensione creativa e produttiva. La rete, i social network, la possibilità diffusa di accesso agli strumenti tecnologici e il radicale cambiamento dei sistemi di produzione anche culturali, hanno talmente trasformato la struttura sociale che oggi nessuno (o quasi) accede alla cultura volendosi sentire solo spettatore. Tutto questo avrebbe dovuto condurre ad alcune riflessioni. Da un lato, i governi della città non sono stati in grado di spostarsi da un modello di offerta culturale ormai obsoleta: ci si incaponisce a focalizzare l’intervento finanziario su poche grandi istituzioni pubbliche o para pubbliche e si trascura l’enorme perimetro della creazione diffusa, per prenderne atto, con meraviglia (ma rifiutando ogni interazione) solo quando vengono occupati spazi di produzione culturale pubblici o privati. D’altro canto, nulla si fa per stimolare e sostenere uno dei grandi motori dell’economia occidentale: la produzione culturale e creativa che a Roma vivacchia nella semiclandestinità. Eppure, Roma potrebbe ancora contare su un enorme vantaggio competitivo rispetto a molte altre città dell’occidente. Tutti i modelli economici che definiscono il settore culturale e creativo hanno un elemento in comune: la centralità del patrimonio culturale materiale e immateriale che è il catalizzatore dei processi di produzione del settore. Si tratta di una relazione indissolubile tra beni culturali, creatività, prodotto culturale e impresa manifatturiera (che potrebbe essere declinata, nel nostro caso, nella tradizione dell’artigianato artistico).

D’altra parte, già in tempi non sospetti, era molto chiaro il nesso tra la ricchezza di Roma e il suo patrimonio culturale e identitario. Era il 1802, infatti, quando Carlo Fea, nella relazione al Chirografo di Pio VII Chiaramonti, sottolineava come le antichità e le belle arti fossero una formidabile attrazione “turistica”, attraessero la classe intellettuale europea, ma fossero soprattutto il motore della creazione di un’economia, «un ramo di commercio, e d’industria più d’ogni altro utile al Pubblico, ed allo Stato, perché interamente attivo, e di semplice produzione, come quello che tutto è dovuto alla mano, ed all’ingegno dell’Uomo». Il papa aveva un progetto di politiche culturali e produttive per Roma. Non sempre si può dire altrettanto di chi ha governato e disquisito della città in tempi più recenti.

Il ritardo di Roma, d’altra parte, è sempre più evidente se messo a confronto con altre grandi capitali che, seppure partite da una posizione a volte più sfavorevole (che non vantano, cioè, “mirabolanti” percentuali di beni culturali mondiali), hanno saputo investire sul capitale umano e sono state anche capaci di attrarre talenti e intelligenze (spesso proprio dall’Italia) dando vita a un’economia sostenibile, pulita, fertile, innovativa, potenzialmente inesauribile: l’esatto opposto del petrolio.

Roma, invece, ha continuato a coltivare l’illusione che il modello delle “vacanze romane” potesse essere riprodotto all’infinito, che l’offerta culturale potesse essere monodirezionale: dalle istituzioni, preferibilmente pubbliche, agli utenti considerati esclusivamente consumatori. Questo è anche il modello romano delle politiche per il turismo: i turisti sono esclusivamente clienti e la cultura è trattata alla stregua di un pasto collettivo da consumare velocemente, senza troppe complicazioni e senza dover scegliere le pietanze: a menù fisso.

Il risultato di questa politica al ribasso della qualità è la diminuzione della permanenza media dei turisti a Roma, la diminuzione della loro spesa, la standardizzazione dei percorsi di visita, la congestione di alcuni siti di grande carisma (Fontana di Trevi, Piazza di Spagna, Colosseo, San Pietro e poco di più) cui corrisponde la marginalizzazione di moltissimi altri luoghi della città storica o dei suoi immediati dintorni (Centrale di Montemartini, Crypta Balbi, Museo di Palazzo Altemps, Villa Adriana, Ostia Antica). Causa ed effetto di questo decadimento è anche il crollo generalizzato della qualità dell’offerta enogastronomica, spesso ridotta a pasti semi industriali consumati in ristoranti e bar che vedono nei turisti la loro unica clientela; ma anche della qualità e originalità dei souvenir, produzioni standardizzate nella maggior parte dei casi di provenienza cinese in nulla legate o riconducibili all’identità di Roma, ma connesse alla sua immagine stereotipata. Per tacere della quasi totale scomparsa delle produzioni originali di artigianato artistico, limitate alle creazioni destinate a una clientela molto facoltosa. Se non si appartiene a una élite (intellettuale o economica) Roma offre ormai solo chincaglierie e pasti precotti.

A questo corrisponde la drammatica caduta della qualità del lavoro culturale e legato al turismo: a un turismo massificato (che offre a ciascuno la medesima esperienza) corrisponde una domanda di lavoro sempre meno qualificato, e sempre più mal pagato e precario. In altre parole Roma, piuttosto che accogliere e attrarre talenti, sembra volerli espellere.

Nel corso dei due decenni appena trascorsi i diversi livelli di governo che agiscono sulla capitale si sono indubbiamente preoccupati di ampliare l’offerta di spazi e di eventi dedicati alla cultura: le case delle arti, i nuovi musei, l’Auditorium di Roma, la Festa del Cinema sono solo alcuni degli esempi possibili. Questo non è avvenuto, però, all’interno di un progetto organico. Roma non è diventata un organismo culturale, ma piuttosto un condominio di inquilini rissosi e scontenti, concentrati solo sui propri esclusivi bisogni. Ciascuno tira dalla sua la coperta troppo corta dei finanziamenti. Servirebbe un bravo amministratore, equidistante dagli interessi particolari, e capace di generare la sintesi indispensabile a una buona gestione del bene comune.

Era chiaro già diversi anni fa che l’occupazione da parte pubblica di attività che dovrebbero essere riservate all’imprenditoria culturale privata avrebbe condotto, in un’epoca di vacche magre come quella attuale, alla desertificazione del panorama culturale e creativo della città sia sul piano qualitativo che sul piano della pluralità dell’offerta. Gli imprenditori del settore a Roma, viziati dall’eccessiva (e talvolta pelosa) prodigalità pubblica, o soffocati dalla sua invadenza, hanno finito per soccombere alla crisi.

Scrissi sulla Rivista Italianieuropei già nel 2006: «L’intervento pubblico, infatti, rischia di soffocare lo sviluppo di filiere produttive in grado di affrontare il mercato e le variabili disponibilità del pubblico alla spesa. Il sostegno finanziario comunale ad un ristretto numero di associazioni – in alcuni casi anche meritevoli per la qualità degli eventi organizzati – e la massiccia opera di produzione di eventi spettacolari di grande richiamo da parte del comune stesso (i grandi concerti gratuiti primi fra tutti) pone in una condizione di pesante svantaggio tutte quelle realtà che non riescono a procacciarsi una quota dei contributi pubblici».

Quelle realtà e quelle esperienze, in molti casi hanno dovuto arrendersi alla riduzione dei finanziamenti pubblici e alla contrazione della spesa da parte del pubblico, in altri hanno resistito faticosamente a produrre. Ma molte altre esperienze e realtà nell’ultimo quinquennio, non sono mai nate.

Forse il problema oggi non è qualificare Roma attraverso la creazione di nuovi ulteriori musei, quanto piuttosto di migliorare la qualità di ciò che già possiede, aggiornarlo, migliorare le condizioni di chi ci lavora e di chi li fruisce. Credo cioè che la sfida per Roma è nel saper immaginare, pianificare e realizzare l’uscita dalla crisi attraverso la cultura, la creatività, l’occupazione e la produzione sostenibile. Una sfida indubbiamente più difficile , ambiziosa e lungimirante che non inaugurare un nuovo museo.

 


Foto: Luigi Guarino

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