Il sorpasso cinese: size matters

Di Romeo Orlandi Lunedì 19 Maggio 2014 14:55 Stampa
Il sorpasso cinese: size matters Foto: chaitanya surya

Nel corso del 2014 il PIL della Cina supererà quello statunitense, capofila di una serie di paesi, dall’India alla Nigeria, che non possono più essere definiti emergenti. Ma se il PIL cinese sarà il più alto del mondo, questo non significherà né che la Repubblica popolare sarà anche il paese con la ricchezza pro capite maggiore né che il benessere economico porterà necessariamente più democrazia.


Il sorpasso del PIL cinese su quello statunitense ha un significato soprattutto simbolico. Interrompe, infatti, una supremazia che durava dal 1872, se la grandezza viene conteggiata correttamente – come in questo caso, secondo la Banca mondiale – a parità di potere d’acquisto (PPP, purchasing-power parity). Contabilmente è una non-notizia. Se il PIL è una misura quantitativa, è atteso che il paese che immette più fattori nella produzione vanti il PIL più alto. La forza lavoro è uno dei fattori più importanti e dunque lo Stato che impiega più braccia e cervelli dovrebbe automaticamente registrare il valore più alto. Laddove il PIL coincida con la ricchezza (e l’identità è giustamente posta in discussione), quel paese è il “più robusto economicamente”, anche se non necessariamente il più ricco. Questa semplice rilevazione era stata elaborata da Paul Krugman più di venti anni fa. Il premio Nobel sosteneva che dal successo asiatico, dall’esperienza degli stati “sviluppisti” non si ricava l’esistenza di un modello alternativo. Le “tigri” e poi la Cina avevano semplicemente allargato l’occupazione, trasferendo la popolazione verso i settori a maggiore valore aggiunto, imponendo disciplina e modelli quantitativi. In Cina, una forza lavoro di 800 milioni di persone ha uno stratosferico potenziale produttivo. Se non colpisce dunque la generale supremazia della Cina, cinque suoi aspetti vanno analizzati puntualmente.

Se esistevano le condizioni, perché la Cina solo ora conquista il primato del PIL mondiale? Solo la complessità può aiutare a trovare una risposta. Intervengono ovviamente fattori politici e militari, la cultura dell’isolamento e la Grande Muraglia, la gabbia nazionalista e la chiusura verso l’esterno. La spiegazione contabile è più semplice: solo da pochi decenni la Cina ha raggiunto livelli sufficienti di produttività e competitività. Sono comparse le ciminiere in luogo dei campi, i trattori invece degli aratri trainati dai buoi. I contadini diventano operai, i tecnici ingegneri. Si produce di più e meglio, ecco perché il PIL cresce. Il paese non è più povero. I nuovi conteggi hanno decretato il sorpasso nel 2014, ma la differenza di pochi anni è irrilevante. Conta molto di più la secolare subalternità.

In realtà, le lancette della storia stanno tornando indietro, verso un tempo scandito dalle dimensioni. La Cina fino al 1840 è stata la più grande nazione al mondo, con l’economia più forte. Era “l’ordine naturale delle cose” impresso da una civiltà contadina. Sono state le accelerazioni della rivoluzione industriale, il progresso della tecnica e la conquista europea dell’Asia a far giustizia del suo conservatorismo reazionario. Solo da pochi anni il paese ha compreso che l’economia non è una scienza né “triste” né “borghese”. Il PIL ne ha beneficiato.

Il ripristino della normalità è stato veloce. La Cina ha raddoppiato il proprio PIL (sempre in PPP) in soli dodici anni, prima della fine dello scorso millennio. Ne sono stati necessari 164 al Regno Unito dalla rivoluzione industriale; 65 alla Germania e 53 gli Stati Uniti negli anni della loro crescita nel XIX secolo. Se il successo si misura dall’andamento del PIL, il paese asiatico è la star più luminosa del firmamento globalizzato.

La Cina non è sola. Altri paesi popolosi stanno scalando la classifica: India, Brasile, Indonesia, Messico, Nigeria, Turchia. Non sono più né emergenti, né in transizione, almeno per quel che riguarda il valore del PIL. Aiutati dalla tecnologia, dagli investimenti delle multinazionali, stanno sconfiggendo l’arretratezza. La loro crescita è più di un’avvisaglia di un cambiamento epocale: i paesi più forti economicamente non saranno i più ricchi (pro capite). Solo fino a pochi anni fa l’identificazione era immediata: le economie più grandi – Stati Uniti, Europa, Giappone – erano anche le più prospere. Il livello di vita era migliore, la produttività più alta, le statistiche inequivocabili. Ora si registra la divaricazione: la ricchezza individuale è ancora concentrata, ma il PIL nazionale cresce nel Sud del mondo. Size matters.

Sembra che la più grande forza economica non abbia bisogno di democrazia. La Cina offre una doppia smentita. Nega che il PIL possa crescere solo con le libertà individuali (come il liberismo insegna senza avere dubbi); respinge con i fatti l’auspicio che l’ascesa economica conduca verso il parlamentarismo. In realtà la Cina funziona – almeno nella produzione di ricchezza materiale – pur senza riforma del sistema politico.

Non è un modello, non vuole esserlo e probabilmente è meglio che non lo sia. Tuttavia cresce e contemporaneamente sparge inquietudine.

 

 


Foto: chaitanya surya

 

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