Media e potere: l’anomalia italiana

Di Massimo Giannini Lunedì 24 Gennaio 2011 13:31 Stampa
Media e potere: l’anomalia italiana Illustrazione: Umberto Mischi

L’ingerenza della politica nei confronti dei media è un problema condiviso, in forme diverse, da numerosi paesi nel mondo. In questo contesto, tuttavia, la situazione italiana costituisce un’evidente anomalia dovuta a un persistente conflitto di interessi e alla conseguente trasformazione del sistema radiotelevisivo e della stampa in docili apparati.

Un’opinione pubblica ben informata è la nostra corte suprema. Poiché ad essa ci si può sempre appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l’indifferenza popolare e gli errori del governo. Una stampa onesta è lo strumento efficace di un simile appello».1 In un saggio edito dall’Encyclopedia Americana e scritto agli inizi del Novecento, Joseph Pulitzer riassumeva così «il potere dell’opinione pubblica». A distanza di un secolo, per quanto abbia letto e cercato riflessioni e spunti nuovi intorno al giornalismo e al suo ruolo nelle democrazie moderne, non ho mai trovato niente di più acuto e di più acuminato nel tracciare il solco che delimita i rapporti tra i media e il potere.
Eppure di materia ce n’è davvero molta. Soprattutto in un paese come l’Italia, dove il berlusconismo ha inciso in modo profondo e definitivo sul modo in cui il potere esercita le sue prerogative, e il giornalismo esplica le sue funzioni. Se oggi rischia di esserci un «padrone in redazione» (dal titolo di un fortunato pamphlet di Giorgio Bocca),2 questo padrone è il potere politico, che mai come ora punta a deformare i fatti in “fattoidi” e a trasformare l’opinione pubblica in “pubblico”. Così i primi diventano sempre inverificabili, e la seconda sempre manipolabile. Intendiamoci, non è solo un tema italiano, e non è solo un problema berlusconiano. Evitare che i media disturbino “il manovratore” è sempre stato un imperativo categorico dei governi, a tutte le latitudini e a prescindere dalle abitudini.

Politica, informazione e bavagli

Nei tradizionali sistemi totalitari del secolo scorso funzionava il pugno di ferro dei regimi e la forza bruta degli apparati: giornali di opposizione chiusi nell’Italia di Mussolini e nella Germania di Hitler, solerti ministri della Propaganda come il grottesco Starace e il tedesco Goebbels, cablogrammi minacciosi dalle prefetture e veline addomesticate dall’Agenzia Stefani. Nelle moderne “società aperte” di oggi funzionano altri metodi. Meno brutali, ma a volte persino più insidiosi. Le pressioni subite dalle TV e dai giornali durante la guerra all’Iraq e all’Afghanistan, anche in democrazie mature come quella americana e inglese e ad opera di governi legittimi guidati da uomini di Stato come Bush e Blair, parlano da sole. L’“uso politico” della leva pubblicitaria, praticato da grandi gruppi industrial-finanziari vicini per convinzione e per convenzione ai governi di turno, è un altro “metodo” in forte ascesa.
Non mancano, qua e là, rigurgiti post dittatoriali. Ai primi di gennaio, nella civile Ungheria appena promossa alla presidenza di turno dell’Unione europea, il giornale “Népszabadság” è uscito con una prima pagina tutta bianca e un titolo assai esplicativo: «La libertà di stampa muore». I giornalisti magiari protestano giustamente contro un decreto che sancisce la nascita di un Consiglio dei media, in mano agli uomini del Fidesz (il partito nazional-conservatore di maggioranza), che controlla di fatto la TV, le radio, la principale agenzia di stampa e il primo portale internet del paese, ha il potere di punire ogni media, pubblico e privato, che giudichi colpevole di aver diffuso notizie politicamente sbilanciate e di comminare sanzioni da un minimo di 90.000 euro per giornali di carta e online a un massimo di 750.000 euro per radio e televisioni.
È solo l’ultimo caso. Ma prima di questo se ne potrebbero citare molti altri, magari meno eclatanti ma non meno inquietanti. Senza arrivare alla barbarie putiniana e agli omicidi in stile Politkovskaja. E senza varcare i confini del mondo proibito cinese, dove i redattori del “Beijing Chenbao” hanno subito la censura di Stato e pagano con aggressioni selvagge le eventuali “violazioni”. Fenomeni più sottili di tentata “circonvenzione mediatica” si producono ovunque, nel liberale e tollerante Occidente. E ad essi fa da contraltare un movimento, uguale e contrario, di autostrumentalizzazione politica da parte degli stessi media. Anche qui, gli esempi non mancano. Persino negli Stati Uniti, la patria del libero giornalismo, dove un padre costituente come Thomas Jefferson poteva dire «preferisco un libero giornalismo senza governo piuttosto che un governo senza libero giornalismo», e dove il Primo emendamento della Costituzione stabilisce una volta per sempre che «il Parlamento non potrà promulgare leggi che restringono la libertà di stampa». Ciononostante, nel corso della campagna elettorale per le ultime elezioni americane, e anche dopo la vittoria di Barack Obama per la corsa alla Casa Bianca, le TV “nemiche” dei democrats – al servizio (o al soldo) delle grandi lobby culturali e finanziarie del Tea Party – hanno cannoneggiato senza pietà e senza verità contro il «presidente nero», con una scientifica «character assassination» che tende a dare per acquisita una notizia del tutto inventata: e cioè che Obama sia musulmano.

Freedom House e il caso italiano

Insomma, verrebbe da dire: paese che vai, legge bavaglio che trovi. Ma fatta questa doverosa e rituale premessa, che inquadra il problema nel contesto globale e non più solo locale, resta il fatto che l’Italia, anche in questo campo, rappresenta la madre di tutte le anomalie. Libertà di stampa, diritto di espressione e di cronaca, pluralismo attivo e passivo dell’informazione, dovere di informare e diritto ad essere informati. Non c’è un solo “spazio”, tra questo universo che incrocia la potestas di chi governa e l’auctoritas di chi fa informazione, che non sia gravemente contaminato, vulnerato, condizionato. Potremmo dire che lo certificano le statistiche. Non considero una Bibbia del settore Freedom House, che ogni anno pubblica la classifica mondiale della libertà di stampa e ogni anno suscita reazioni più o meno sdegnate. Ma è un fatto che questa istituzione (fondata a Washington nel 1941 da Eleanor Roosevelt e finanziata per l’80% dall’Amministrazione americana) anche nel 2010 relega il Belpaese nel girone infernale. Forse fa sorridere per eccesso il nostro 72° posto nel mondo, insieme a Benin, Hong Kong e India e subito dopo Belize, Mali e Tonga. Ma sicuramente fa piangere per difetto il nostro penultimo posto in Europa, solo un gradino più su della Turchia.
Non è un’esagerazione. E capisco che la cosa possa disturbare i soliti benpensanti, così numerosi anche a sinistra. Ma il “fattore B” pesa in modo decisivo, quanto meno nella visione degli osservatori internazionali. E il conflitto di interessi resta un macigno mai rimosso (anche se il solo evocarlo suscita la nervosa insofferenza di tanti “illuminati”). Se così non fosse Freedom House non scriverebbe nel suo rapporto che grazie alla legge Gasparri il presidente del Consiglio italiano «ha potuto mantenere il controllo sul mercato dei media privati, in gran parte grazie alla proprietà del gruppo Mediaset» e ora «controlla indirettamente fino al 90% dei media televisivi del paese». Non aggiungerebbe che «le tensioni tra la stampa e il primo ministro hanno vissuto un’escalation nel 2009, quando Berlusconi ha ripetutamente cercato di interferire con gli sforzi dei giornalisti di raccontare i conflitti tra la sua vita pubblica
e privata», al punto che il premier è stato «il primo capo di governo a intraprendere azioni legali contro i media italiani ed europei». E non concluderebbe denunciando la volontà manifesta, attraverso il disegno di legge sulle intercettazioni, di «limitare la capacità dei giornalisti di fornire informazioni vitali all’opinione pubblica».
Questa è la situazione italiana. O per lo meno questa è l’immagine che, della situazione italiana, si sono fatti all’estero. Ma se è così – ed è a tutti gli effetti così – una riflessione sulla fisiologia dei rapporti tra media e potere, qui e ora, non può prescindere – e, insisto, non deve prescindere – da una riflessione sulla patologia berlusconiana.


La videocrazia radiotelevisiva

Per addentrarci in questa patologia, suddividerei l’analisi su due versanti distinti. Il primo riguarda l’universo mediatico radiotelevisivo. E qui, davvero, solo un cieco può non vedere la micidiale e innaturale forza di fuoco che, attraverso la proprietà del gruppo Mediaset e il contestuale controllo della RAI, si concentra nelle mani di un leader politico che è allo stesso tempo un tycoon economico. Nessuno stupore: questa formula, per quanto incestuosa e perversa, è da sempre il cuore del successo berlusconiano e del problema italiano.

“Videocrazia”, “telepopulismo”: le definizioni più efficaci per descrivere la dimensione nella quale siamo precipitati le rubo direttamente a Pierre-André Taguieff.3 Nella miscela esplosiva di autoritarismo plebiscitario e conformismo populista messa in atto dal Cavaliere fin dalla sua discesa in campo del 1994 4 si condensa la metamorfosi tuttora in corso della nostra democrazia. In quasi un ventennio Berlusconi è riuscito a far coincidere la sua parabola personale con la biografia della nazione. Per riuscire in questa titanica operazione (che è prima di tutto politica, e poi anche mediatica) il controllo dei mezzi di informazione è stato ed è fondamentale. Perché è attraverso quel controllo che sono passati e passano i messaggi di quella che mi appare una vera e propria “neolingua”. Ed è attraverso questa “neolingua”, veicolata con format comunicativi collaudati, che il potere riesce a influenzare la corte suprema di cui parla Pulitzer; cioè l’opinione pubblica. Un’opinione pubblica che, in questo schema, non deve essere ben informata, ma semmai disinformata. O, nella migliore delle ipotesi, non informata.
Ragioniamoci, a mente fredda e senza demonizzazione. Ma non è forse questa la mission non dirò dei telegiornali Mediaset (è un’ovvietà), ma di tutto l’apparato delle news del servizio pubblico radiotelevisivo? E non è forse questa la ragione che ha giustificato i vari editti berlusconiani, da quello bulgaro a quello albanese, contro i pochi talk show della RAI che sfuggono allo schema, e i pochi direttori di giornali che non si sono indottrinati? Cosa fa Augusto Minzolini, quando il TG1 non dà affatto la notizia dello scandalo di Ruby Rubacuori o dà la notizia che Dell’Utri è stato «assolto» al processo per mafia? Cosa fa Alessio Vinci, quando a “Matrix”, in pieno “buio politico” della maggioranza di centrodestra, presenta Berlusconi in studio come «l’ospite venuto a portare luce»? È la costruzione di un universo parallelo, di cui ha bisogno il premier per nascondere le difficoltà, e di cui hanno bisogno certi giornalisti per conservare la poltrona.
La neolingua orwelliana introdotta dal Cavaliere nel discorso pubblico ha cambiato per sempre i contenuti e i contenitori della comunicazione. È un linguaggio che procede per slogan ossessivi (e dunque per esclusioni sempre meno inclusive e sempre più monologiche) e per moduli assertivi (e dunque per standard sempre più indiscutibili e sempre meno verificabili). Intendiamoci, anche qui: il fenomeno non è solo berlusconiano, ma è comune anche ad altri leader stranieri che hanno fatto del cesarismo carismatico la cifra del loro potere. Questa rivoluzione (o involuzione?) politica e semantica generale l’hanno descritta con grande efficacia Massimo Recalcati e Rocco Ronchi:5 è il «linguaggio della macchina» che si impone su quello vivente diventando attraverso la super-semplificazione, un «modello di efficienza» e un «esempio per il pensiero». E in questo consiste la «perversione tecnicamente totalitaria della lingua», che diventa trasformazione del linguaggio e della sua capacità polisemica «in un codice neutro, sempre identico a se stesso».
Ma è un dato di fatto che la quasi totalità del sistema radiotelevisivo, pubblico e privato, è al servizio di questa subdola «perversione tecnicamente totalitaria della lingua». Premurosamente supportato da un apparato mediatico docile e disponibile, fatto di servili telegiornali di scarso approfondimento e di subliminali programmi di basso intrattenimento, Berlusconi ha trasformato in un inutile e fastidioso «rumore bianco» (secondo la definizione di Don De Lillo) tutto ciò che fa da contorno ai suoi messaggi di fondo. Il rituale dibattito e la stucchevole polemica che accompagnano ogni esternazione  berlusconiana sono invece l’insensato sottofondo. Frullati dal solerte direttore di turno nel pastone, nel “panino” o nella nota politica, producono nel cittadino-teleutente un’impressione di caos, di fastidio e comunque di straniamento, dove l’unica cosa che conta è spazzare via il significato letterale dei fatti e dei problemi e accumulare un senso generale dell’inutile e dell’indistinto.
In questo format ognuno è chiamato a recitare una parte. Anche i giornalisti. E non solo quelli televisivi. Fateci caso: anche nei talk show più odiati e temuti dal presidente del Consiglio, gli ospiti sono selezionati secondo il ridicolo misurino di una par condicio permanente (e ormai non più cogente solo nei periodi di campagna elettorale). E in questa gabbia finiscono anche i giornalisti della carta stampata, a loro volta scelti e invitati secondo uno schema politico-culturale fisso, che poi diventa uno schema anche fisico-spaziale altrettanto fisso: in studio, da una parte politici e giornalisti di centrodestra, dall’altra parte politici e giornalisti di centrosinistra. E via così: la corrida può cominciare. Le regole sono queste. E meglio è se i giornalisti ospiti, dell’uno e dell’altro campo, sono faziosi. A bilanciarli c’è spesso un’altra figura emergente, il “terzista”, che non prende mai posizione o le prende tutte, secondo convenienza. Così muore il giornalismo indipendente, che dovrebbe incarnare solo se stesso, senza etichette e senza casacche. E invece è obbligato a un improprio “gioco di ruolo”, più che a una naturale testimonianza pro veritate, in nome e per conto della pubblica opinione che guarda da casa. E che a quel punto ha solo due chance: o spegne la televisione, confusa, disgustata e rafforzata nella sua pulsione antipolitica, che è da sempre e naturaliter un riflesso di destra, oppure consolida la sua militanza acritica. In quella che un tempo Norberto Bobbio chiamava «democrazia dell’applauso». In quello che oggi Davide Tarizzo chiama, più brutalmente, «impero dell’assenso».

L’anomalia della carta stampata

Dalla TV alla carta stampata. Qui la patologia è meno grave, quanto meno dal punto di vista proprietario. Per fortuna, anche nella democrazia a bassa intensità e a scarsa qualità nella quale viviamo, ci sono molti giornali esterni al perimetro proprietario del premier e di qualunque altro protagonista della politica nazionale. In questo ambito, occorre esser chiari, non esiste un vero e proprio regime. Nessun quotidiano è stato chiuso o posto sotto sequestro dalla forza pubblica. Ogni giornale, la mattina, esce in edicola e può criticare liberamente il governo e chi lo rappresenta. Ma anche qui l’anomalia resta. Anomalia generale: il potere moderno si distingue sempre di più in quello che Bauman chiamerebbe «attacco all’agorà». Cioè la tendenza irrefrenabile, anche questa di matrice tecnicamente totalitaria, a mettere in pericolo l’integrità dello spazio pubblico e del discorso politico, distorcendone o comunque
indebolendone il ruolo, «con l’effetto di ridimensionare l’autonomia della società e dei suoi singoli membri ».6 Ma di nuovo, anomalia particolare.
C’è un nodo finanziario, da sciogliere. In un capitalismo senza capitali come quello italiano, la proprietà dei giornali ruota comunque intorno a pochissimi soggetti. Molti dei quali hanno cointeressenze, anche di ordine politico, manifeste e nefaste. Perché titolari di concessioni pubbliche. Perché azionisti di banche, o banchieri essi stessi, che vivono nell’ombra o nell’orbita del potere politico. Perché beneficiari di sovvenzioni statali, dirette e indirette. Tutto questo limita potenzialmente l’autonomia dei giornali. Non solo nei confronti del governo di turno, ma anche dell’élite economica che li controlla, attraverso il reticolo dei patti di sindacato. Come si fa a scrivere liberamente degli affari e dei malaffari che riguardano un azionista del tuo giornale? Il campo di Agramante di questa contesa, sempre più spesso, è diventata la pubblicità. In un paese che legge poco, i quotidiani vivono soprattutto grazie ai ricavi pubblicitari. Questo è noto. Talmente noto che i grandi inserzionisti possono permettersi il lusso di immaginare forme sottili di ricatto morale o di ritorsione commerciale. Non pubblicare, o salta la campagna che avevamo pianificato. Oppure: hai pubblicato, cancelliamo la campagna che avevamo deliberato.
Ma poi c’è soprattutto un nodo politico da tagliare. Il Berlusconi presidente del Consiglio non si limita più a formulare editti e a lanciare anatemi in terra straniera contro i direttori sgraditi. Invita i cittadini a «non leggere i giornali». Invita gli imprenditori a «non dare la pubblicità» a quei giornali, come “Repubblica”, che criticano l’operato del governo e «danneggiano l’interesse nazionale». Questo è obiettivamente un salto di qualità allarmante, rispetto alle consuete lamentele che ogni leader rivolge alla stampa che non lo ossequia come dovrebbe. Questo è un condizionamento oggettivo, che riguarda da un lato l’opinione pubblica (ancora una volta, all’opposto dell’auspicio di Pulitzer, chiamata a svolgere un ruolo di ricezione passiva del messaggio governativo, e non di partecipazione attiva alla conoscenza dei fatti e alla loro lettura critica). Dall’altro lato dell’establishment industrial-finanziario (per la prima volta chiamato a svolgere un ruolo di boicottaggio pubblicitario nei confronti di quei media che non si limitano al puro assenso, ma hanno la sfrontatezza di esprimere qualche dissenso). Tutto questo, almeno nell’emisfero occidentale, si è visto succedere solo in Italia.
Solo in Italia è stato possibile – non solo dal punto di vista di certa politica e di certi media, ma anche dal punto di vista di certa intellighenzia fintamente liberale – derubricare le inchieste giornalistiche sugli scandali sessuali del premier come gossip. Non vedendone le gravi e lampanti implicazioni non solo sul piano della sicurezza nazionale, ma anche su quello, persino più rilevante, dei doveri di accountability e di trasparenza che sempre dovrebbero contraddistinguere il profilo e l’immagine di un uomo pubblico. Solo in Italia è stato possibile che un presidente del Consiglio abbia denunciato un giornale (nel caso specifico di nuovo “Repubblica”) perché gli ha rivolto dieci domande su questa sua pericolosa sexual addiction, innescata peraltro da una lettera di pubblica denuncia scritta da sua moglie. Solo in Italia è stato possibile che questa iniziativa senza precedenti del capo del governo, anziché innescare una reazione unanime da parte della libera stampa, sia caduta nel vuoto dell’indifferenza e del cinismo, mentre su tutti gli altri media del mondo veniva trattata con ben altro risalto politico-culturale e con ben altra indignazione etico-professionale. Mentre il Cavaliere tuonava infuriato «che diritto ha un giornale di farmi certe domande», da oltremanica e da oltreoceano i direttori dell’“Economist” e del “New York Times” gli rispondevano pacati «tutto il diritto del mondo».
Altrove funziona così. La stampa ha questa ambizione condivisa. La stessa che proprio il grande James Reston spiegava alle giovani reclute del “New York Times”: «Quando leggerete la paura negli occhi di un pezzo grosso che vi incontra fuori dalla sua porta, saprete di aver fatto bene il vostro mestiere di reporter». Dalle nostre parti la paura sembra persino esagerata. Ma almeno il rispetto, nella controparte politica, sarebbe necessario. Invece non solo manca anche quello, ma nell’aria aleggiano addirittura soluzioni “ungheresi”. Il disegno di legge sulle intercettazioni resta una macchia indelebile, ma insieme anche una prova inconfutabile, di quale debba essere la funzione dei giornali secondo il potere oggi dominante. Altro che watchdog: non cani da guardia, ma cani da salotto. Non è un caso se la pagina bianca del giornale magiaro di poche settimane fa sia stata una replica della pagina bianca di “Repubblica” della scorsa primavera, contro una legge bavaglio che limita il giornalista nel dovere di informare e priva il cittadino del diritto di essere informato. Quel tentativo di imbavagliare la libera stampa è stato solo momentaneamente accantonato. Ma resta nell’agenda della politica. E dunque esige tuttora una grande attenzione e un’alta vigilanza, da parte di chi fa il nostro mestiere.
Ma c’è di più. Un’anomalia nell’anomalia, come dimostrano le vicende dell’ex direttore di “Avvenire” Dino Boffo e del presidente della Camera Gianfranco Fini, il “gioco di ruolo” previsto dal potere contempla ora anche l’uso politico dei giornali per l’assassinio mediatico degli avversari. È quella che abbiamo battezzato come la «macchina del fango». Anche in questo caso, esiste uno schema codificato da Manuel Castells nel suo “Comunicazione e potere”.7 C’è un “killer politico”, che raccoglie il fango contro il nemico. Ci sono sondaggisti e intermediari, che «grazie a sofisticate tecniche possono determinare quale parte di quel fango nella mente degli elettori può arrecare maggior danno politico ». Ci sono organi di informazione addomesticati, ai quali quel fango viene dirottato, e i quali lo confezionano e lo rendono pubblico, attraverso un vero e proprio omicidio semantico di cui spesso, quando tutto è finito e a prescindere dalla verità dei fatti, la vittima esce con «un serio colpo da cui non riesce più a riprendersi». Guardate alla parte in commedia che in questi mesi hanno recitato quotidiani come “Il Giornale” e “Libero”, o settimanali come “Chi” e “Panorama”. E poi giudicate se non siamo dentro fino al collo al teorema di Castells.

Come tornare alla normalità

Questo, mi sembra, è lo sconfortante panorama italiano. Già intuisco le obiezioni: siamo alla solita ossessione antiberlusconiana. Magari fosse così. Intanto non accetto l’idea che, per evitare i patenti guasti dell’antiberlusconismo, si finisca per concelebrare in silente quiescenza i presunti fasti del berlusconismo. E poi temo che certe derive, nei rapporti tra media e potere, siano purtroppo destinate a restare anche dopo Berlusconi.
Come se ne esce? Ci sono due risposte possibili. La prima, per una parte limitata del ragionamento, è di tipo giuridico. Una legge sul conflitto di interessi resta irrinunciabile. I tentativi fatti finora fanno sorridere, e da questo punto di vista la stessa sinistra ha molto di cui farsi rimproverare. Ma sarà sempre e comunque difficile immaginare soluzioni efficaci su questo piano: blind trust, fondi ciechi e quant’altro, sono formule che possono reggere in paesi di consolidata tradizione liberale, come gli Stati Uniti. Da noi è più difficile. Per questo resto convinto che piuttosto che limitare l’esercizio del diritto a fare impresa da parte di chiunque, sarebbe più proficuo prendere il toro per l’altro corno, e cioè impedire il diritto di fare politica in assenza di requisiti rigorosi e inderogabili. Una seria riforma della legge sulle ineleggibilità, da questo punto di vista, sarebbe più facile da varare per il Parlamento, e forse anche più facile da capire per il cittadino.
La seconda risposta è di tipo deontologico. E qui contano davvero la qualità e la serietà del nostro mestiere, che nessuna scuola ti può insegnare e nessuna legge ti può inoculare. Non voglio tornare a Pulitzer, che in una lezione alla Columbia University del 1904 diceva «solo il perseguimento dei più alti ideali, la più coscienziosa determinazione del bene, la più scrupolosa conoscenza dei problemi da trattare e un sincero senso di responsabilità morale riusciranno a salvare il giornalismo dall’asservimento ». Qui c’è un afflato morale oggi impensabile, purtroppo. Ma potrei tornare ad Alton Park, giudice della Corte d’Appello di New York, che negli stessi anni si limitava a dire che «un giornalismo onesto e indipendente è la forza più possente che la civiltà moderna abbia sviluppato». Credo sia maledettamente vero. Serve un surplus di coscienza morale, nel mondo liquido e complesso in cui la modernità ci precipita. Non bastano più i due soli ingredienti di cui parlava un grande inviato di guerra come Edward Behr: «Per fare buon giornalismo servono uno stomaco di ferro e un paio di scarpe comode». Serve anche una nuova attenzione alla verità, e dunque al bene comune. E credo per questo che, al di là della retorica sulla “schiena dritta”, non ci sia altra strada che fare al meglio il proprio mestiere. Anche pagandone le conseguenze, se e quando serve.
Internet aiuta. La rivoluzione della rete ha cambiato i modi e i tempi di fruizione della notizia. Il ciclone WikiLeaks ha fatto cadere un’altra membrana nel rapporto tra media e potere, e ha avvicinato la verità alla responsabilità, anche in un campo come la politica, dove le due sfere erano e sono da sempre lontane, per non dire antitetiche. Ma anche il sisma del web, e anche il terremoto creato da Julian Assange, hanno dimostrato e dimostrano che tutto ciò che è online è materia inerte, che non prende vita senza l’intelligenza del giornalismo. C’è dunque di che essere ottimisti, nonostante tutto. Con una consapevolezza, la stessa che è stata, a suo tempo, dello stesso Pulitzer: «La nostra repubblica e la nostra stampa progrediranno o cadranno insieme. Una stampa capace, disinteressata, animata da spirito civico, con un’intelligenza allenata a distinguere ciò che è giusto e ad avere il coraggio di realizzarlo, può preservare quella pubblica virtù senza la quale il governo del popolo non è che impostura e dileggio. Una stampa cinica, mercenaria, demagogica e corrotta a lungo andare renderà il popolo tanto ignobile quanto lo è essa stessa. Il potere di plasmare il futuro della repubblica è nelle mani dei giornalisti delle future generazioni». Ricordate il capolavoro cinematografico di George Clooney sulla battaglia dei giornalisti nella notte del maccartismo? Buona notte, e buona fortuna.

smallhr

[1] J. Pulitzer, Sul giornalismo, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
[2] G. Bocca, Il padrone in redazione, Sperling & Kupfer, Milano 1989.
[3] P.-A. Taguieff, L’illusion populiste, Flammarion, Parigi 2007.
[4] Come ho cercato di spiegare in M. Giannini, Lo statista, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008.
[5] Si veda M. Recalcati (a cura di), Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
[6] Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000.
[7] M. Castells, Comunicazione e potere, Università Bocconi Editore, Milano 2009.