Prima le persone: Investire in formazione, innovazione e ricerca

Di Patrizio Bianchi Lunedì 16 Marzo 2015 17:51 Stampa

L’esperienza dimostra che l’unica vera forza in grado di muovere un’economia e garantire lo sviluppo sono le persone. In una società come quella attuale, in cui la globalizzazione e le tecnologie hanno profondamente cambiato le dinamiche socioeconomiche, risulta di capitale importanza innalzare la capacità di ognuno di comprendere la complessità della realtà per poter divenire cittadini consapevoli e lavoratori in grado dicontribuire al generarsi e al consolidarsi di quelle innovazioni sociali ed economiche che costituiscono il motore dello sviluppo. Occorre pertanto tornare a investire in cultura, istruzione e, ora che l’Europa sta per fortuna riscoprendo la centralità della manifattura, anche in formazione tecnico-professionale.

 

 

Una luce in fondo al tunnel

A quasi otto anni dall’inizio di questa crisi infinita sembra vedersi un lumicino in fondo al tunnel labirintico in cui ci siamo cacciati. Un lumicino che promette un pallido 0,5% di crescita, che dopo tante docce fredde ci appare come un segno di svolta. Anche la situazione internazionale sembra segnata da condizioni straordinariamente vantaggiose. Dopo quindici anni l’euro svaluta rispetto al dollaro – del resto, l’economia americana cresce e quella europea ristagna –, il costo del petrolio diminuisce, la BCE, rompendo l’ossessiva religione zero inflation della Bundesbank, insuffla liquidità nel sistema per scongiurare la deflazione. Tuttavia questo non basta. Da una parte la finestra temporale aperta da questi tre fattori è breve ed è pertanto indispensabile concentrare il massimo degli interventi per accelerare la ripresa, stimolare gli investimenti e generare nuovi posti di lavoro. Dall’altra serve una visione di lungo periodo.

Nella mia attività di economista e nelle diverse esperienze istituzionali che ho avuto l’opportunità, e direi anche la fortuna, di vivere ho imparato una semplice lezione. Ho via via maturato la consapevolezza che l’unica vera forza in grado di muovere un’economia e di garantire lo sviluppo sono le persone. Oggi chiamiamo questa ricchezza “capitale umano” e sappiamo che una buona economia, quella anche definita “intelligente, sostenibile e inclusiva”, deve saper coniugare la crescita con la coesione. Così come sappiamo, perché lo abbiamo toccato con mano, quanto sia distruttiva un’economia (l’economia dei soli “servizi” e, in questi, della finanziarizzazione spinta e selvaggia) che ritiene di poter crescere senza produrre e senza creare lavoro, e quanto devastante possa essere un sistema politico che non pone al centro della sua azione l’equità tra tutti i suoi cittadini.

La lingua inglese utilizza tre parole per esprimere il concetto di diritto: rights è il diritto dichiarato, entitlements descrive le possibilità date in una concreta realtà sociale di praticarlo, capabilities corrisponde invece alle effettive capacità del singolo di realizzare e usufruire di quel diritto. La politica, che ha come primo obiettivo la creazione delle condizioni per la ristrutturazione economico-industriale, deve inesorabilmente estendere a tutti i cittadini – non uno di meno – tali capacità.

Globalizzazione, esplosione delle tecnologie di relazione, deregolamentazione dei mercati finanziari hanno profondamente modificato le dinamiche economiche e sociali. Di fronte ai rischi e alle opportunità che ne derivano, il bisogno di educazione e formazione è cresciuto a dismisura, non solo per mettere tutti nelle condizioni di utilizzare al meglio le tecnologie della nostra epoca, ma soprattutto per innalzare la capacità di ognuno di comprenderne la complessità, di partecipare attivamente alla vita delle comunità e di contribuire al generarsi e consolidarsi di quelle innovazioni sociali ed economiche che costituiscono il motore dello sviluppo.

Comprendere significa prendere insieme, abbracciare con la mente un’idea, afferrarla con l’intelletto, analizzarla nelle sue diverse dimensioni e, di volta in volta, saperne cogliere le modificazioni. Innalzare la capacità di comprendere la complessità significa dare alle persone gli strumenti e le competenze per valutare e definire criticamente il proprio ruolo e le proprie attese nel nuovo contesto aperto, per convivere e interagire in società pluraliste e, all’interno di queste, diventare cittadini consapevoli, lavoratori capaci, innovatori nelle imprese e nelle istituzioni. Se questi sono gli obiettivi, l’educazione deve essere concepita come un processo perennemente incompiuto, che apra le menti, le eserciti alla creatività, alla complessità e all’esplorazione critica, che garantisca nuove prospettive al merito, che premi capacità e talenti. Un processo inclusivo, perché accessibile a tutti, che permetta di aumentare in modo significativo il numero delle persone e delle imprese in grado di operare e competere a livello globale e che spinga l’intero sistema a essere più intelligente e innovativo.

 

Il modello di crescita senza istruzione

Fino alla fine del Novecento il meccanismo di sviluppo italiano – come hanno dimostrato Giuseppe Bertola e Paolo Sestito1 – poteva essere definito di crescita “senza istruzione”. Sia nella fase di inizio secolo sia in quella successiva alla seconda guerra mondiale e ancora per tutti gli anni Settanta, proprio il basso livello medio di istruzione ha costituito un vantaggio comparato. Le imprese, spesso di piccola dimensione ed essenzialmente di prima generazione, potevano contare su efficaci circuiti di formazione, non formalizzati ma ben radicati in contesti locali e, nella seconda metà del secolo, su una formazione tecnico-professionale che ha costituito un elemento cruciale dello sviluppo industriale italiano. Per decenni gli istituti tecnici e professionali hanno preparato figure con forti competenze tecniche specifiche, sostenute da capacità manuali e da una forte etica e cultura del lavoro, che hanno contribuito non poco alla forte accelerazione industriale dei primi anni Sessanta, così come alla grande dinamica imprenditoriale degli anni Ottanta.

Nel passato, una diversa e sia pur scarsa valorizzazione del capitale umano non ha impedito, anzi secondo alcuni ha favorito, la crescita industriale del paese.2 Tale dinamica è cessata nei primi anni Novanta, quando la forte immissione di tecnologie, il rapido aumento della dimensione geografica dei mercati e una riorganizzazione su base globale dei cicli produttivi hanno compromesso quella continuità di innovazioni incrementali che aveva caratterizzato un periodo significativo della nostra crescita industriale. È esattamente in questa fase che la mancanza di investimenti in istruzione e formazione diventa, invece, un limite significativo per lo sviluppo. La capacità di competere necessita oggi, infatti, di strumenti per comprendere la realtà circostante, di una comunità che investa per darsi un futuro. In queste dinamiche la scuola svolge un ruolo centrale. Ma la “scuola” non è più sufficiente. Dobbiamo parlare di quell’essenziale infrastruttura sociale che è data dal sistema educativo e formativo nel suo insieme, che accompagna le persone dall’infanzia fino alla giovinezza e, da lì in avanti, deve garantire loro l’opportunità di continuare ad apprendere. Un sistema unitario negli obiettivi e integrato nelle sue componenti, dalla scuola dell’obbligo al dottorato di ricerca.

 

Un laboratorio per una nuova politica industriale

In Emilia-Romagna il risultato di questo approccio è stato la costruzione, avviata nel 2010, di un’infrastruttura educativa – ER Educazione e Ricerca Emilia-Romagna – fondata su specializzazione e complementarietà, sull’integrazione dei soggetti formativi e sulla collaborazione con le imprese, capace di mettere in sinergia opportunità e risorse. Non una somma di interventi, ma un sistema strutturato di opportunità che risponde a due obiettivi prioritari: garantire a tutti i cittadini la possibilità di acquisire conoscenze e competenze ampie e innovative per crescere, esprimendo al meglio intelligenza, creatività e talento, e generare condizioni di più stretta relazione tra offerta formativa, fabbisogni di crescita e qualificazione delle persone e delle imprese, competitività del territorio e diritti dei singoli.

Costruire e mantenere una visione integrata dei diversi percorsi formativi non è facile, così come è complesso promuovere un dialogo costante tra soggetti educativi diversi, fondato su autonomia e radicamento nei territori ma al tempo stesso proiettato verso esperienze esterne e internazionali. Tuttavia, è ciò che occorre fare – e che in Emilia-Romagna abbiamo costruito in questi quattro anni – per assegnare all’educazione e alla formazione il ruolo di vero motore delle dinamiche sociali.

Anche il modo in cui si fanno le cose conta. In Emilia-Romagna abbiamo coinvolto tutti. ER Educazione e Ricerca è il risultato di un impegno forte e condiviso. La costruzione dell’infrastruttura educativa si è sviluppata nel confronto con le istituzioni del territorio, si è misurata e continua progressivamente a misurarsi sugli esiti del dialogo con le parti sociali, ha visto l’approvazione da parte della giunta regionale di 725 atti amministrativi e di due leggi regionali e si fonda su una capacità di integrazione tra le 550 autonomie educative, gli oltre 200 enti di formazione accreditati dalla Regione, le quattro università regionali, i centri di ricerca e l’intero sistema economico-produttivo.

Lo stretto rapporto tra conoscenza e mercato del lavoro è lo snodo con cui si deve confrontare una società che sulla capacità di rendere accessibili nuove competenze e nuove opportunità di impiego voglia garantire una forte coesione sociale e promuovere una crescita equa e sostenibile. Fattibilità e successo di una politica di questa natura si fondano sul coinvolgimento di istituzioni, parti sociali, autonomie formative e sistema economico-produttivo, sulla condivisione dei presupposti e degli obiettivi e sull’assunzione condivisa delle responsabilità. Una condivisione da costruire anche su un dialogo continuo con le singole imprese quali luoghi in cui le competenze si producono e si innovano.

Due sono gli esiti di questo percorso in Emilia-Romagna. Da una parte, una più forte connessione tra sistema produttivo, ricerca e formazione, indispensabile per favorire i processi di creazione di nuove competenze e accompagnarli a processi di trasferimento e diffusione delle stesse: a questi obiettivi ha risposto in particolare Spinner 2013, il programma regionale per lo sviluppo di idee e progetti innovativi che ha finanziato, attraverso dottorati di ricerca, borse di ricerca e incentivi, e accompagnato, attraverso consulenze e tutoraggio, la realizzazione di progetti di ricerca industriale, trasferimento tecnologico, innovazione organizzativa, avvio di nuove e innovative attività imprenditoriali e riqualificazione di alte competenze. Dall’altra, l’integrazione tra soggetti formativi e mercato del lavoro non sui singoli segmenti ma sull’intera filiera formativa per accrescere e innovare le competenze professionali, tecniche e scientifiche e umanistiche ai diversi livelli, anche grazie alla formazione di nuovi profili professionali capaci di presidiare competenze operative, critiche e relazionali. Il sistema di Istruzione e Formazione Professionale (IeFP) e la Rete politecnica sono i due segmenti dell’infrastruttura educativa regionale che più hanno risposto a tali bisogni.

Il primo permette di conseguire, in un percorso ordinamentale di tre anni, una qualifica professionale. Coniugando continuità con un forte tasso di innovazione, ha garantito un’offerta formativa coerente con le esigenze del sistema economico-produttivo, integrativa ai percorsi quinquennali professionali e alternativa a quelli tecnici e liceali per prevenire e ridurre la dispersione scolastica e restituire a questo segmento educativo una funzione strategica nella crescita economica. La scelta operata – sostenuta da una legge – di un sistema integrato fondato sulla progettazione congiunta di scuole ed enti di formazione professionale è irrinunciabile per la Regione Emilia-Romagna.

Il secondo, la Rete politecnica, e in particolare i percorsi biennali ordinamentali realizzati dagli istituti tecnici superiori – formazione terziaria non universitaria ispirata alle Hochschule tedesche, alla cui costruzione abbiamo lavorato intensamente in questi anni – è finalizzato a formare profili di responsabili di produzione o di nuovi imprenditori, così come, in molte città italiane, le scuole professionali hanno fatto nell’immediato dopoguerra, svolgendo un ruolo centrale e non solo di natura formativa nel processo di ricostruzione del paese.

 

Il tempo stringe

Una scelta decisiva – che arriva dopo anni in cui il paese ha disinvestito sulla formazione tecnica e professionale in un percorso a tratti miope e purtroppo coerente con l’idea che l’Italia stesse procedendo senza sosta e senza ripensamenti verso una marcata “deindustrializzazione”– finalizzata ad adeguare le competenze “di produzione” agendo su figure professionali le cui capacità hanno natura di interconnessione fra le diverse fasi produttive e le cui competenze – operative, critiche e relazionali – sono rilevanti per l’innovazione dei cicli produttivi. Competenze di sintesi – alla cui formazione concorrono infatti istituti scolastici, enti di formazione, università, istituzioni locali e imprese riuniti in forma di fondazioni private – strategiche per comprendere le profonde modificazioni strutturali del sistema produttivo italiano e ritrovare le radici della crescita.

Tutti speriamo che la Buona scuola sia il primo segno di un cambiamento effettivo di registro. Fino a ora, infatti, il paese non ha investito abbastanza, né in educazione, né in organizzazione produttiva, né in ricerca, e non ha coltivato la capacità di trasformare le competenze. Come risultato, ha compromesso un’idea di sviluppo che si riteneva forte proprio perché consolidata sui territori. Territori oggi in crisi perché costituiti da imprese che sono riuscite a crescere e da altre che non ce l’hanno fatta. È per questo che occorre far interagire meglio capacità di competizione globale e ripensamento dei nostri territori. Muoversi in tale direzione significa impostare una strategia di crescita coerente con Europa 2020, secondo cui «gli investimenti in ricerca e sviluppo, innovazione, istruzione e tecnologie efficienti sotto il profilo delle risorse comporteranno vantaggi per i settori tradizionali, per le zone rurali e per le economie di servizi altamente specialistici, rafforzando la coesione economica, sociale e territoriale». Ma bisogna già pensare oltre il vicino 2020.

Investire sul sapere, sul talento e sulla creatività è condizione necessaria affinché le idee innovative si trasformino in nuovi prodotti e servizi, immettano valori intangibili nelle produzioni esistenti e permettano di individuare ambiti per nuove produzioni e nuovi lavori, costruendo oggi educazione e formazione del nuovo secolo. Che questa sia la strada da percorrere appare ormai evidente. L’infrastruttura educativa ha la capacità di dare continuità a ciò che è stato discontinuo e che in futuro non potrà più essere tale. Tuttavia, perché l’infrastruttura possa garantire una crescita equa, fondata sui diritti delle persone di comprendere e partecipare, è necessario rafforzare la visione sistemica delle politiche e assicurare una programmazione integrata dei fondi europei, nazionali e regionali capace di incidere sulla struttura dell’economia, sulla produttività, sul capitale umano e sociale, per tornare a crescere.

 

La dimensione territoriale del rinascimento della manifattura

Dopo la cosiddetta “deindustrializzazione” che ha minato le economie occidentali, svuotandole delle produzioni manifatturiere per puntare su un’economia dei servizi – una rivoluzione che ha messo in discussione l’associazione tra la crescita di un territorio e la sua capacità di dotarsi di conoscenze e strutture produttive –, dopo la ristrutturazione a livello globale delle reti di produzione, avvenuta con l’entrata sui mercati dei paesi definiti “emergenti” e, infine, dopo un’iperfinanziarizzazione delle economie occidentali, che ha generato l’illusione di un mercato in cui la ricchezza è risultato di una speculazione, in piena crisi l’Europa riscopre la centralità della manifattura e, soprattutto, delle conoscenze a questa strettamente connesse. Un “rinascimento della manifattura” che finalmente torna a credere nella ricchezza del lavoro e che ci pone di fronte a diverse domande, una delle quali prioritaria: quali azioni possono mettere in atto le istituzioni per favorire questo rinascimento, per attrarre attività produttive e quindi sostenere processi di sviluppo locale in un contesto globale?

Due sono le strategie possibili e opposte. Per attrarre singoli impianti di produzione, occorre agire sulle condizioni di competitività statica, cioè sulla riduzione dei costi o dei vincoli di produzione. Per attrarre quelle attività che governano l’intero ciclo, bisogna invece agire sulla creazione di un contesto intelligente e competente, in cui le conoscenze non vengano solo generate e acquisite individualmente, ma anche condivise e trasferite. Ciò richiede un vero e proprio institutional building, in cui la costruzione di un’infrastruttura educativa e di ricerca che agisca da esternalità positiva per la crescita di ogni singola componente di una comunità – siano persone, imprese o istituzioni – e che rafforzi quelle capacità di sistema che sostengono innovazione e sviluppo è elemento imprescindibile. Con due punti di attenzione, il primo relativo alla riforma istituzionale in corso, il secondo – certo profondamente connesso al primo e al ruolo che le Regioni potranno svolgere a seguito del riordino – relativo alla dimensione territoriale delle politiche e agli interventi necessari almeno a quella parte di Nord Italia più integrata con il cuore dell’Europa. Sviluppo economico ed evoluzione istituzionale viaggiano assieme, ma entrambe le prospettive debbono tener conto della geografia reale che oggi si sovrappone violentemente alla geografia politica che abbiamo ereditato dal passato. Bisogna infatti capire se il nuovo centralismo che viene proposto dalla cancellazione delle Province e il sostanziale ridimensionamento delle Regioni sia adeguato alla geografia economica che emerge oggi, dopo venti anni di globalizzazione, quindici di euro e sette di crisi.

 

La nuova geografia reale d’Europa

Se si prendono i dati dei redditi per abitante o si misurano gli indici di innovazione dei territori, appare evidente che negli ultimi quindici anni l’area centrale europea si è progressivamente integrata, mentre le aree periferiche sono diventate sempre più marginali. In altre parole, è cresciuta la disparità interna fra le diverse aree. Del resto, questo è l’evidente risultato di un’area monetaria in cui, grazie ai ridotti costi di transazione, le attività produttive tendono a specializzarsi e quindi a divenire fra loro più complementari, favorendo le aree centrali in cui i costi di trasporto e le affinità strutturali rendono ancor più conveniente il progressivo aggiustamento strutturale.

Il contemporaneo aumento dell’estensione del mercato, generato dalla globalizzazione, ha favorito inoltre una riorganizzazione produttiva rivolta ad aumentare la specializzazione relativa fra produttori tra loro strettamente interrelati. La crisi, d’altra parte, riducendo le catene di subfornitura in un primo tempo estese a sud e a est dell’Europa, ha consolidato ancor più quella lunga striscia di sviluppo che va da Amburgo a Bologna, attorno alla quale si dipanano in cerchi sempre più larghi zone sempre più marginali, a cui possiamo aggiungere le aree delle capitali. A fare le spese di tali disparities è soprattutto l’Italia, che appare essere il paese in cui le differenze interne si accentuano di più. La proposta di ricentralizzare le politiche pubbliche in materia di sostegno allo sviluppo, certamente assecondata dalle diverse performance delle Regioni, nondimeno pone il problema di come si possa immaginare di svolgere dal centro una politica unitaria, se non unica, per un territorio che oggi si presenta così diverso al suo interno. O, meglio, pone il problema di come sia possibile in questa Europa immaginare che il referente unico delle politiche di sviluppo e delle politiche attive del lavoro sia un governo nazionale. Certo le Regioni hanno dato in genere mala prova delle proprie capacità, ma anche qui non bisogna generalizzare. E allora la soluzione non può che essere quella di pensare a un federalismo asimmetrico in cui le diverse Regioni possano esercitare le loro competenze fin dove la loro azione ha dimostrato effettiva capacità di essere sostenibile nel tempo. Le semplificazioni non aiutano le riforme e le riforme, proprio perché necessarie, debbono essere commisurate alle effettive capacità di realizzazione.

 

Obiettivi di politica industriale

Tornando al secondo punto di attenzione, e a una difesa delle politiche territoriali commisurate alle specifiche esigenze di ristrutturazione economico-industriale del Nord Italia, gli interventi di politica industriale necessari divengono: a) aumentare il numero di players in grado di giocare ruoli di leadership sul mercato globale nei loro specifici segmenti di mercato, rafforzandone la capacità di agire direttamente nelle fasi di sourcing e distribuzione; b) aumentare il livello complessivo di qualità e sicurezza nell’intero ciclo di subfornitura in grado di garantire che l’intera filiera operi con lo stesso livello di innovazione e qualità; c) garantire il mantenimento di processi di innovazione di sistema, anche attraverso alleanze nelle fasi di ricerca e sviluppo che coinvolgano tutti i soggetti presenti nella filiera; d) attrarre sul territorio le fasi a maggiore contenuto di innovazione e controllo dell’intero ciclo produttivo, anche incentivando operatori internazionali a impiantare nel nostro territorio le fasi strategiche dei rispettivi cicli produttivi.

La necessità di ampliare e sostenere un sempre più deciso inserimento delle nostre imprese nelle reti globali, con ruoli di leadership, è legata principalmente alla capacità di disporre di competenze, conoscenze, informazioni – chiamiamole “capabilities di sistema” – che poggiano largamente sulla formazione del nostro capitale umano. Certamente vi sono fattori statici, da cui non si può sfuggire, che incidono sulla competitività a parità di organizzazione produttiva, ma vi sono anche fattori dinamici che condizionano la capacità di far evolvere la stessa organizzazione produttiva. E qui torniamo alla centralità del capitale umano e ai nuovi approcci che considerano la politica industriale come un’azione convergente di diversi ambiti di politica pubblica, in cui ad azioni propriamente di accelerazione dell’innovazione debbono aggiungersi interventi per favorire l’innalzamento dei livelli di istruzione delle persone e per garantire una più qualificata interazione fra attività di produzione e di mercato e attività educative e formative.3 Tale approccio implica una forte integrazione delle politiche e un deciso recupero del territorio, in cui educazione, formazione, ricerca e sistema economico-produttivo si incrociano, realizzando convenienze di localizzazione proprio per quelle fasi in cui l’elemento qualificante è sempre più l’apporto di competenze, capacità realizzativa e visione critica, o – come scriveva Adam Smith – di “skills, dexterity and judgements”.

Torno all’Emilia-Romagna per fare qualche esempio di come un’infrastruttura educativa capace di integrarsi con il sistema economico-produttivo del territorio e intercettare i bisogni delle imprese possa diventare un vero strumento per la crescita di un luogo che vuole ritrovare nelle proprie competenze la leva per un nuovo sviluppo.

 

Costruire non solo buone pratiche, ma anche punti di riferimento

Nei primi mesi del 2013 il gruppo Louis Vuitton ha scelto di costruire a Ferrara un nuovo impianto di produzione di calzature artigianali di lusso. Il ritorno in Italia di un’impresa multinazionale, dopo anni di tendenza opposta, è stato condizionato non dall’opportunità di accedere ai classici incentivi, ma dalla disponibilità della Regione a valorizzare l’esperienza di calzolai altamente qualificati che avevano lavorato in imprese locali, da tempo fallite, finanziando percorsi formativi per trasmettere le competenze artigianali a giovani in vista di un’assunzione nel nuovo stabilimento. Strategica è stata dunque la presenza di competenze qualificate e la sinergia con le istituzioni locali per creare una scuola di alto artigianato, nucleo della nuova impresa del gruppo e di nuova e qualificata occupazione. Le competenze e la loro trasmissione sono diventate in questo caso, e in maniera esplicita, strumento di politica industriale per un territorio che vuole tornare a essere punto di riferimento per una produzione manifatturiera di qualità. Un’azienda che diviene scuola, ma anche una scuola aziendale che entra a far parte a pieno titolo dell’infrastruttura educativa regionale. Un esempio importante ma non unico. Una situazione simile si è configurata, attraverso la creazione di uno dei primi poli tecnico-professionali sperimentati in Italia, in un settore innovativo e con un’impresa leader come la Dallara di Parma, che realizza simulazioni matematiche per l’intero comparto delle auto da corsa. Sono diversi i percorsi finanziati in collaborazione con imprese intenzionate ad assumere per fornire ai candidati competenze “su misura”, promuovendone l’inserimento o il reinserimento lavorativo. Con VM, impresa del ferrarese, attualmente di proprietà di Chrysler-Fiat e di General Motors, che produce motori diesel, dopo il terremoto del 20-29 maggio 2012 sono stati realizzati percorsi rivolti a persone disoccupate, in mobilità e in Cassa integrazione. Oltre cento sono state le nuove assunzioni.

Un ultimo esempio è il progetto DESI (Dual Education System Italy). Quarantotto posti, per altrettanti studenti under 25 in possesso di una qualifica professionale, per un biennio di specializzazione tecnica a scuola e in azienda. Con un assegno mensile di 600 euro. È una novità asso luta a livello nazionale, frutto dell’intesa siglata con l’Ufficio scolastico regionale, Ducati Motor Holding Spa e Automobili Lamborghini Spa attraverso un accordo di rete che ha coinvolto gli istituti bolognesi Belluzzi- Fioravanti e Aldini Valeriani e il sostegno economico di 2.300.000 euro della Fondazione Volkswagen. Il progetto di formazione professionale è strutturato su un sistema duale, sia in aula che nelle aziende, e permette di conseguire il diploma di tecnico meccatronico per il settore moto o per il settore auto oppure di operatore di macchine a controllo numerico. Interventi di questa natura sono in gran parte finanziati con il contributo del Fondo sociale europeo, che in Emilia-Romagna ha dimostrato di non essere solo un ammortizzatore sociale, ma un vero strumento per la crescita di una Regione che vuole ritrovare nelle proprie competenze manifatturiere la leva per un nuovo sviluppo.

 

La testa e le mani

Una politica che si pone come obiettivo la crescita deve dunque essere concepita come un insieme di strumenti per riposizionare un territorio nella nuova estensione del mercato globale, avendo piena consapevolezza che, se in quel territorio si vuole radicare la “testa” di un ciclo produttivo, bisogna creare condizioni di lungo periodo. La “testa”, e le “mani” che ad essa corrispondono, devono crescere nel tempo, sviluppando la capacità di comprendere – nel senso letterale del termine, cioè “tenere insieme” – tutte le parti di cui si compone un ciclo, sempre più articolato e decisamente più complesso, radicato in un territorio e centrato sulle persone.

 


 

[1] G. Bertola, P. Sestito, A Comparative Perspective on Italy’s Human Capital Accumulation,in “Quaderni di Storia Economica”, 6/2011, disponibile su www.bancaditalia.it/pubblicazioni/quaderni-storia/2011-0006/Qse_06.pdf?language_id=1.

[2] Si veda G. Toniolo, L’Italia e l’economia mondiale, 1861-2011, Presentazione della ricerca,Banca d’Italia, Roma, 12 ottobre 2011.

[3] P. Bianchi, S. Labory, Industrial Policy after the Crisis. Seizing the Future, Elgar, Cheltenham-Northampton (MA) 2011.