Il pensiero femminista delle teologhe italiane

Di Marinella Perroni Martedì 26 Aprile 2011 16:20 Stampa
Il pensiero femminista delle teologhe italiane Illustrazione: Lorenzo Petrantoni

Il Coordinamento teologhe italiane è espressione della maturità di un pensiero, intesa come possibilità e necessità di ingresso a pieno titolo della ricerca teologica delle donne nel dibattito italiano e di confronto con il vasto panorama culturale del nostro paese. Tale evoluzione ha favorito una risemantizzazione dei diversi ambiti del pensiero teologico a partire dall’assunzione critica della categoria di genere.

«Non si dia mai la parola alle signore benché rispettabili e pie. Se alcuna volta i vescovi crederanno opportuno di permettere un’adunanza di sole signore, queste parleranno sotto la presidenza e la sorveglianza di gravi persone ecclesiastiche». Queste parole con cui il cardinale Rafael Merry del Val (1865-1930), nei primi decenni del Novecento, riteneva forse di perpetrare il monito paolino sul silenzio delle donne nell’assemblea liturgica marcano la distanza. Inserite nella circolare con la quale veniva sciolta l’Opera dei congressi, il cui filone democratico cristiano rendeva visibile la domanda esplicita di organizzazione femminile (1904), la dicono lunga sulla estraneità della Chiesa cattolica ufficiale alle istanze veicolate dai movimenti femministi. Ancora nel 1963, quando, durante la seconda sessione del Concilio ecumenico Vaticano II, il cardinale belga Léon-Joseph Suenens si è pubblicamente domandato: «Ma dov’è qui l’altra metà del genere umano?», soltanto pochi dei vescovi presenti erano forse in grado di intuire la portata storica di quella questione. A partire dalla terza sessione conciliare, però, un piccolo drappello di donne cattoliche, sia pure solo in qualità di osservatrici, è stato chiamato a partecipare ai dibattiti assembleari e, nel corso dell’ultima sessione, ha preso parte attiva ai lavori di alcune commissioni.

Molto le donne cattoliche devono a quel Concilio, anche se in realtà i padri conciliari non hanno prestato precisa attenzione a quanto già da molti decenni scuoteva il mondo e le chiese. L’“eterogenesi dei fini”, d’altra parte, prima che una teoria filosofica è la sorte di molti fatti storici, individuali e collettivi. L’intersezione tra evento conciliare, con tutto quello che ha comportato la sua preparazione e che sta comportando la sua ricezione, e movimenti femministi; l’intersezione tra rinnovamento dell’ecclesiologia e istanze delle donne, tra riconoscimento della soggettualità laicale e nuove pratiche femminili, tra le quali va annoverato a pieno titolo l’esercizio del magistero teologico: questa complessa e lungimirante rete di intersezioni si è rivelata quello che, nel discorso di apertura del Concilio (11 ottobre 1962), Giovanni XXIII auspicava ma, nello stesso tempo, proponeva come linea programmatica: «È appena l’aurora». L’accesso delle donne allo studio e all’insegnamento accademico della teologia e il loro inserimento a pieno titolo nella vita ecclesiale è stata una delle profonde trasformazioni avviate da quell’assise conciliare.

Il Coordinamento teologhe italiane (CTI),[1] che nasce nel 2003, non segna pertanto un inizio, ma ha l’ambizione di registrare la maturità di un pensiero, intesa nel senso della possibilità e necessità di ingresso a pieno titolo delle donne nel dibattito teologico italiano. A tale scopo, il CTI è entrato a far parte del Coordinamento delle associazioni teologiche italiane con le quali condivide, oltre all’appartenenza ecclesiale, anche l’istanza di aprire la riflessione teologica a un confronto con il vasto panorama culturale del nostro paese. D’altro canto, oltre che interdisciplinare, il CTI è altresì associazione ecumenica, non soltanto perché accoglie al suo interno a pieno titolo teologhe appartenenti a confessioni diverse da quella cattolica, ma anche per l’incessante ricerca di una modalità stessa del teologare che sappia muoversi sempre “al crocicchio delle strade”,[2] all’incrocio cioè di diversi contesti. La riflessione delle donne ha sempre considerato i luoghi dell’esperienza e delle pratiche, siano essi le chiese, le istituzioni accademiche o i movimenti, come luoghi teologici. Né si può tralasciare il fatto che, mentre nelle chiese di area protestante lo studio e l’insegnamento della teologia è connesso anche con l’esercizio del ministero pastorale, nella Chiesa cattolica il movimentismo non è stato solo un importante contesto preconciliare di presenza femminile, ma continua a essere un ambito privilegiato di riflessione teologica delle donne. Oltre che, in misura minima, le facoltà di teologia e i diversi dipartimenti delle università statali, nonché gli istituti superiori di scienze religiose, la pratica dell’insegnamento della religione nelle scuole o il movimento catechistico sono i contesti nei quali è possibile uno sbocco professionale per donne che hanno conseguito titoli teologici. Non va infatti sottovalutato il peso della sproporzione di mezzi e risorse a disposizione delle teologhe (femministe) italiane e delle loro colleghe europee.

Se si sfoglia il catalogo delle recenti pubblicazioni della nota casa editrice tedesca LIT Verlag, colpisce l’elevato numero dei lavori di esegesi e teologia biblica a firma di studiose e di docenti delle diverse accademie nordeuropee. Inoltre, ormai già da trent’anni, il seminario di Theologische Genderforschung dell’Università di Münster, primo tra altri in Germania, garantisce corsi, seminari e iniziative di ricerca scientifica di altissimo livello accademico, come dimostrato dalla collana “Theologische Frauenforschung in Europa” che include numerosi volumi che documentano l’ampiezza e la profondità raggiunte ormai dalla ricerca delle teologhe europee.

 

Una riflessione teologica segnata dal pensiero di genere

Le questioni, cruciali per ogni sistema religioso, che il femminismo ha riformulato con tagliente lucidità e che hanno rappresentato lo sfondo sul quale molte teologhe italiane hanno metabolizzato il patrimonio teologico tradizionale e se ne sono fatte interpreti critiche vanno considerate più che un semplice punto di partenza della ricerca intellettuale del CTI: un universo religioso teocentrico, come pretendeva il pensiero premoderno, non è forse un’astrazione mistificante con la quale il potere maschile ha reso inattaccabile la sua centralità? Ma una concezione antropocentrica dell’universo religioso, postulata e tenacemente difesa da tutto il pensiero moderno, non deve essere totalmente rettificata se l’anthropos non è più pensabile solo al maschile? Questioni poste, oltretutto, a partire dalla convinzione che il femminismo, più che a un rinnovamento, mira all’elaborazione di una prospettiva teoretica di insieme totalmente nuova perché non ha postulato, come spesso si crede, un semplice passaggio di mano del potere, ma ha piuttosto costretto a ripensare totalmente l’universo religioso con i suoi simboli e i suoi linguaggi, i suoi contenuti e le sue norme, le sue promesse e i suoi riti.

Poiché però gli stessi termini “femminismo”/“femminista”, largamente utilizzati in contesto nordamericano e nordeuropeo, hanno sempre incontrato una tenace opposizione in ambito italiano, fatto che ha favorito una fluttuazione terminologica del tutto inadeguata se non addirittura insidiosa (femminile, al femminile, “delle donne”), il CTI ha fatto la scelta di utilizzare in modo privilegiato la terminologia “di genere” e in modo critico la relativa categorizzazione. È questa d’altra parte la dizione che, sia pure con legittime diversità e perplessità forse inevitabili, tutti i centri accademici europei hanno finito per privilegiare. Le ricerche di genere sono di fatto entrate ormai organicamente nelle università di tutto il mondo e possono rappresentare un ambito di indagine a partire dal quale aprire un fruttuoso dialogo epistemologico con la teologia accademica tradizionale. Dal punto di vista della concettualizzazione, poi, la storia della teologia insegna che nessun concetto è mai stato assunto senza venir interpretato all’interno di un particolare e spesso nuovo campo semantico – da ousia a hypostasis a physis – ulteriormente soggetto a spostamenti non sempre minimi nelle diverse trasposizioni linguistiche – si pensi ancora a essentia/substantia/natura o al siriaco kjana. Infine, il concetto di gender è funzionale a mostrare che la domanda sull’identità si colloca al crocevia tra “natura” e “cultura” ed è strumento concettuale che consente di estendere l’analisi anche agli “uomini”, uscendo da visioni separatiste non ignote al femminismo.

Benché non tutte le studiose siano d’accordo su questa operazione, temendo una nuova derubricazione del femminile e delle donne, per molte si tratta invece della possibilità di cogliere identità e processi nella correlazione e nel divenire e anche di rendere ragione di un mondo, compreso un “mondo accademico”, abitato insieme da donne e da uomini. Utilizzare la categoria di genere è asserire che non si possono studiare le donne senza studiare contemporaneamente gli uomini e viceversa; si evidenzia così un aspetto sociale, culturale e relazionale tra due gruppi di attori sociali, sempre posti l’uno di fronte all’altro, mai l’uno senza l’altro. L’antropologia e la sociologia che ne derivano includono quindi lo studio delle relazioni di potere e di subordinazione tra uomini e donne, dal momento che de facto la storia ci consegna relazioni asimmetriche e gerarchizzate. Per questo la categoria di “genere” ha una forte componente pratico/trasformativa che è connessa strutturalmente con l’indagine femminista perché coglie l’orientamento politico-trasformativo possibile sul piano dei rapporti diretti e delle strutture.

Né, d’altra parte, in questa assunzione critica e provvisoria (non per difetto di impostazione, ma per convinzione epistemologica) si vuole rinunciare a quella che è una acquisizione del pensiero femminista (e certo non solo di quello) estremamente affine alla prospettiva cristiana: l’importanza della corporeità e dunque la resistenza del “corpo” rispetto a un annullamento del sex nel gender, accanto, tuttavia, a una comprensione non reificata del corpo stesso. Infatti il corpo è il luogo in cui la datità biologica si articola con un dato simbolico che non è ancora immediatamente la propria elaborazione, che non è ancora proprio e totale della coscienza, ma dipende, ad esempio, dal rapporto con la madre, da come si viene educati/e e vestiti/e, e tutto ciò esige una riappropriazione che non è ovviamente meccanica. Si profila dunque opportuna la presa di distanza da concezioni statiche di gender, ma anche da altrettanto statiche immagini di “corpo” per privilegiare piuttosto l’assunzione di un paradigma dinamico e l’indagine sull’identità come luogo di incrocio di molteplici differenze in divenire.

La preferenza accordata alle categorie di genere non implica, comunque, una preclusione “di principio” nei confronti dell’utilizzo dello strumentario concettuale della differenza: se per molti versi se ne intravede infatti il rischio – connesso a un essenzialismo, troppo spesso presente nella ricezione confessionale del concetto, e recentemente avvertito come problema da discutere dalle stesse filosofe della differenza anche proprio in relazione, sembra di poter dire, al confronto con le letture ecclesiastiche e teologiche della categoria – diverse teologhe lo utilizzano a partire dall’esigenza di un ordine simbolico originato nell’esperienza tra donne e non dipendente da una costruzione androcentrica della realtà. In questa prospettiva, perciò, la differenza non sarebbe assolutamente paragonabile a qualcosa di simile al biologismo o all’essenzialismo che inferiscono “una natura speciale delle donne”, ma sarebbe categoria non più imbrigliata nel confronto con l’ordine simbolico maschile del patriarcato, originata piuttosto nella asimmetria, intesa nel senso di mai assoluta reciprocità, e avente come punto di riferimento le relazioni fra donne.

La parzialità di cui il CTI, in quanto luogo di elaborazione del sapere teologico, mantiene consapevolezza resiste, così, a pensieri unici e massificanti e fornisce nuove possibilità per teologie consapevoli del proprio impianto strutturalmente storico ed ermeneutico. Ciò significa contribuire sia alla rivisitazione di temi teologici tradizionali, come la consapevolezza del limite di ogni enunciato rispetto alla res cui mira, sia alla transizione verso pluri-versità cui questo tempo non meno opportuno di altri ci invita. L’esperienza dei molteplici “margini” di cui le donne parlano, inoltre, è insieme occasione per ridiscutere l’idea stessa di “centro” e invito a una prassi di giustizia e trasformazione, irrinunciabile per ogni forma di teologia cristiana.



[1] Il Coordinamento teologhe italiane riunisce teologhe delle diverse tradizioni cristiane che hanno conseguito un dottorato o una licenza in scienze teologiche e docenti delle facoltà di teologia, delle scuole di teologia dei seminari, delle congregazioni religiose e degli istituti superiori di scienze religiose. Si propone di valorizzare e promuovere gli studi di genere in ambito teologico, biblico, patristico, storico, in prospettiva ecumenica.

[2] E. Green, Al crocicchio delle strade. Teologia femminista all’inizio del XXI secolo, in R. Gibellini (a cura di), Prospettive teologiche per il XXI secolo, Queriniana, Brescia 2003.

Acquista la rivista

Abbonati alla rivista