Jihadismo da tastiera o militanza violenta: il fenomeno in Italia

Di Lorenzo Vidino Lunedì 13 Luglio 2015 16:23 Stampa

La scena jihadista italiana ricalca, in scala notevolmente ridotta, dinamiche di radicalizzazione e mobilitazione già presenti in altri paesi. Anche in Italia si sta delineando una nuova generazione di estremisti islamici, non inseriti in organizzazioni strutturate, che tende a operare al di fuori delle moschee e che nella maggior parte dei casi traduce la propria azione in un’attività su internet, mirata soprattutto a pubblicaree diffondere materiale che spazia dal puramente teologico all’operativo. Solo di rado si sono riscontrati casi di aspiranti jihadisti che hanno lasciato il paese per unirsi a un jihad o che pianificavano un attentato. Il fenomeno, tuttavia, sembra essere pericolosamente in crescita.

Negli ultimi mesi l’antiterrorismo italiano ha effettuato due operazioni di alto profilo che dimostrano l’effettiva presenza e la natura variegata di cellule jihadiste sul nostro territorio. Con una, diretta dalla procura di Cagliari, è stata smantellata una rete di militanti pachistani, legata a stretto filo ad al Qaeda, che aveva attivamente partecipato ad azioni terroristiche in Pakistan e che, secondo gli inquirenti, aveva anche pianificato un possibile attacco contro il Vaticano. La cellula ricalca il modello tipico del jihadismo in Italia: immigrati di prima generazione arrivati nel nostro paese, già radicalizzati e inseriti in una sofisticata struttura che fornisce supporto logistico a una formazione operante al di fuori del territorio nazionale. Dinamiche di questo tipo, soprattutto riguardanti network nordafricani, sono visibili in Italia sin dai primi anni Novanta. Ugualmente importante è l’operazione diretta dalla DIGOS di Brescia lo scorso marzo, quando sono stati arrestati due sospetti reclutatori di origine albanese residenti nel torinese e due giovani di origine nordafricana. Il caso, denominato “Balkan Connection”, mostra la nuova faccia del jihadismo in Italia. I due nordafricani, infatti, sono i prototipi del radicalizzato homegrown (autoctono), giovani che, al contrario dei jihadisti “classici”, sono nati o perlomeno cresciuti in Italia e spesso sono ben integrati, ma che a un certo punto adottano il credo jihadista. Entrambi erano attivi sul web e addirittura uno dei due, il cittadino naturalizzato italiano Halili El Mahdi, era divenuto il primo traduttore in lingua italiana dei testi dell’IS, incluso lo scritto “Lo Stato islamico, una realtà che ti vorrebbe comunicare”, che El Mahdi aveva diffuso online. I due cittadini albanesi coinvolti nell’operazione rappresentano invece la nuova faccia del reclutamento in Italia, non legato a moschee ma presente su internet, dove sono stati “adescati” i due nordafricani.

Questa evoluzione del jihadismo italiano ricalca dinamiche presenti già da diversi anni nel resto d’Europa. Oggi, anche l’Italia vede la minaccia jihadista non più come solamente esterna, cioè causata da soggetti che stabiliscono cellule dormienti sul nostro territorio. Mentre questa minaccia, come dimostrano le indagini sarde, non è sopita, è altresì divenuto evidente che esistono problemi di radicalizzazione interna. Come i servizi segreti presagivano già nel 2009, anche in Italia si è cominciata a delineare «una nuova generazione di estremisti islamici, non inseriti in alcuna organizzazione strutturata, per lo più non evidenziatisi in precedenza, i quali hanno intrapreso un percorso di avvicinamento al credo jihadista, sino ad abbracciare l’attivismo militante». «In qualche caso», continuava la Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza, «l’assimilazione all’ideologia radicale è stata favorita dall’incontro con islamisti di un certo spessore nel panorama italiano, durante un periodo di detenzione per reati comuni. Più frequentemente, tuttavia, la formazione dei giovani militanti si giova anche delle nozioni di indottrinamento e addestramento attinte dalla “rete”. Particolare valenza, in questa prospettiva, riveste l’impegno propagandistico di attivisti italofoni e – in alcuni casi – di italiani convertiti all’islamismo radicale che diffondono nella nostra lingua i comunicati della leadership qaidista».1

 

La scena jihadista italiana

Le cronache degli ultimi mesi hanno raccontato le storie dei pochi (in confronto con gli alti numeri visti in altri paesi europei) italiani (siano essi cittadini o ragazzi cresciuti in Italia e pertanto “sociologicamente italiani”, anche se privi di passaporto) che si sono recati in Siria per unirsi all’IS e ad altri gruppi della galassia jihadista: dal convertito genovese Ibrahim Giuliano Delnevo, morto in Siria mentre combatteva con una milizia islamista, ad Anas El Abboubi, ex rapper della provincia bresciana che prima di recarsi in Siria aveva cercato di creare il gruppo Sharia4Italy, dai lavoranti balcanici Ismar Mesinovic e Munifer Karamalesky, partiti dalle valli del bellunese e morti in Siria, alla convertita partenopeo-brianzola Maria Giulia Sergio. A loro si aggiungono i vari casi di soggetti che pianificavano attentati in Italia (come Mohamed Jarmoune, un ventenne di origini marocchine cresciuto nel bresciano che le autorità sospettavano pianificasse un attacco contro la comunità ebraica di Milano) e le decine di stranieri espulsi dal territorio nazionale negli ultimi mesi. Tali soggetti, prima di recarsi in Siria o porre in essere comportamenti penalmente rilevanti, erano semplici appartenenti a quel mondo informale che può essere definito come la “scena jihadista autoctona italiana”. Si tratta in sostanza di una sottocultura, un piccolo mondo che si è formato spontaneamente negli ultimi anni e al quale si appartiene in via prettamente informale. È però da questa scena che vengono i pochi soggetti che, a un certo punto del loro percorso di radicalizzazione, decidono, per varie e spesso imperscrutabili e imprevedibili ragioni, di fare il passo dal “jihadismo da tastiera” alla militanza violenta. È impossibile fornire numeri esatti su questa scena. Si può ritenere che i soggetti in essa attivamente coinvolti siano qualche centinaio. Allo stesso modo, si può stimare che un numero maggiore di soggetti simpatizzino, con vari livelli d’intensità, con l’ideologia jihadista. Si tratta, in sostanza, di un piccolo gruppo di persone dalle caratteristiche sociologiche (età, sesso, origine etnica, istruzione, condizione sociale) estremamente eterogenee che condivide la fede jihadista. La maggior parte di questi soggetti interagisce su internet con altri dello stesso credo in Italia (si può infatti dire che la maggior parte di essi si conosca tramite vari social network su internet) e all’estero. Vivono soprattutto nel Nord del paese, in grandi città quali Milano, Genova e Bologna ma anche in piccoli paesi di campagna, ma alcuni si trovano al Centro e al Sud.

Va chiarito che la maggior parte di questi soggetti non è coinvolta in alcuna azione violenta e limita la propria militanza a un’attività spesso spasmodica su internet mirata a pubblicare e disseminare materiale che spazia dal puramente teologico all’operativo. Sebbene tali attività possano in determinati casi rappresentare una violazione dell’articolo 270 quinquies del codice penale (Addestramento ad attività con finalità di terrorismo anche internazionale), gli aspiranti jihadisti autoctoni italiani sono in prevalenza proprio questo, “aspiranti” che non compiono alcuna azione violenta. Tuttavia, come hanno dimostrato i casi di Jarmoune, El Abboubi e Delnevo, a volte questo passaggio avviene, spesso con modalità e tempistiche che le nostre autorità faticano a predire.

La nuova scena jihadista italiana possiede alcune caratteristiche importanti. La prima è che i suoi membri tendono a operare al di fuori dell’ambito delle moschee, dove le loro idee non trovano terreno molto fertile. È invece principalmente (anche se non esclusivamente) su internet che questa comunità è attiva. Va come prima cosa detto che il termine “comunità” non deve essere inteso nel senso di gruppo coeso e ben strutturato. Al contrario, è più corretto dire che esistono soggetti residenti in Italia che adottano varianti dell’ideologia jihadista e che, con diversi livelli di frequenza, operano e interagiscono tra loro online.

Nonostante tali differenze, tutti i soggetti che appartengono a questa scena sono interessati alle frange più conservatrici e militanti del salafismo e, chi più chi meno, al jihadismo, e sono collegati tra loro tramite Facebook. Anche se è difficile per chi scrive ricostruire queste dinamiche, sembra che molti di questi soggetti si conoscano anche nel mondo reale. In alcuni casi questa connessione nel mondo reale avviene dopo l’incontro su internet mentre in altri avviene al contrario e i soggetti stabiliscono un legame su internet dopo essersi conosciuti a un evento, in moschea o tramite amici comuni.

Una cinquantina di soggetti costituiscono ciascuno il perno di questa scena, estremamente attivi online (e, in alcuni casi, anche nel mondo reale) e in costante comunicazione con numerosi altri user su internet. I loro profili sociologici sono eterogenei, ma molti sono convertiti italiani tra i venti e i trent’anni (con un discreto numero di quarantenni). Altri hanno origini straniere ma sono nati o hanno trascorso la maggior parte della loro vita in Italia. Va notato che soggetti di origine nordafricana, demograficamente la componente più grande dell’Islam italiano e tradizionalmente le forze trainanti del jihadismo italiano, non sono presenti in gran numero. Sono invece sovrarappresentati soggetti di origine albanese, kosovara e, in maniera minore, bosniaca.

Per questi soggetti il salafismo militante, sia esso nella forma apertamente jihadista o in interpretazioni meno estreme, pare essere il loro interesse principale nella vita. Essi aggiornano costantemente la propria pagina Facebook e spesso gestiscono anche uno o più blog e profili su Twitter. A differenza della maggior parte dei militanti della prima generazione, che erano solo fruitori passivi di propaganda su internet, questa nuova generazione di attivisti autoctoni è spesso anche operosa nella produzione del proprio materiale jihadista. Come si è visto nei casi di Jarmoune, El Abboubi, Delnevo e di molti altri, questi attivisti traducono e postano i propri testi e producono i propri video, in alcuni casi di ottima fattura. Intorno a questo zoccolo duro di attivisti esiste un gruppo più ampio di soggetti il cui impegno – perlomeno giudicando dagli elementi che le loro pagine Facebook offrono – sembra meno intenso. In questa fascia più grande non è raro imbattersi in soggetti che occasionalmente postano un “Mi piace” sotto a un video jihadista o una buona parola per qualche attività o soggetto jihadista ma il cui impegno per la causa sembra fermarsi lì. Qualcuno di loro pare avere un profilo meno “puro” rispetto ai membri dello zoccolo duro: sono musulmani (tuttavia ciò non è sempre chiaro) ma alcuni, se non la maggior parte, dei loro interessi (discoteche, hip hop, frequentazioni con l’altro sesso) non sono quelli comunemente associati all’islamismo militante.

Questa scena virtuale pro-jihad italiana è piuttosto fluida e informale e opera come molte altre comunità online. I suoi “membri” si “danno l’amicizia” tra loro, si “taggano” a vicenda su foto e scrivono sulla pagina dei loro amici. Pubblicizzano vari eventi che avvengono nella loro zona e notizie d’interesse, organizzano incontri nel mondo reale e gruppi di discussione in quello virtuale, interagiscono tra di loro con modalità che variano dall’esprimersi solidarietà a vicenda e condividere importanti eventi della vita privata all’addentrarsi in critiche e vere e proprie liti al vetriolo. Una delle forme più comuni di interazione è scambiare commenti su eventi correnti, siano essi di politica italiana o relativi a vari conflitti riguardanti musulmani nel mondo, aggiungendo link e video. Queste forme di approvazione per gruppi jihadisti possono essere inter- pretate in vari modi. Da un certo punto di vista pare saggio evitare reazioni allarmistiche. Diversi studi hanno dimostrato che è normale dire e fare cose su internet che sono molto più estreme di ciò che si farebbe nella vita reale. Vi sono migliaia di forum per militanti di estrema destra, estrema sinistra, anarchici, ambientalisti estremisti e altre ideologie pieni di minacce di violenza. Lo stesso vale per siti del mondo ultrà o perfino per siti visitati dai fan di cantanti o attori. Tuttavia la maggior parte dei soggetti che invoca tutta questa violenza online non commetterà mai alcun atto violento nel mondo reale. La stragrande maggioranza di “cyberguerrieri” jihadisti è esattamente come gli altri cyber-guerrieri: estremisti virtuali le cui esternazioni non passeranno mai dalla tastiera alla strada. Molti dei soggetti che fanno parte della comunità italiana di simpatizzanti del jihad a un certo punto ne usciranno del tutto, considerandola solo una fase della propria gioventù. Altri manterranno certe posizioni ma non agiranno mai in maniera violenta.

Talora alcuni membri della comunità jihadista autoctona italiana passano all’azione, che può consistere in pianificare attacchi in Italia (come nel caso di Jarmoune) o viaggiare all’estero per unirsi a un jihad. Ciò che spinge un soggetto a cominciare un cammino che lo porta alla violenza è una traiettoria personale determinata dalla complessa interazione di fattori psicologici, ideologici e circostanziali che sono specifici di ogni caso. Una simile combinazione influenza anche le decisioni prese da un soggetto una volta che ha deciso di utilizzare la violenza. Viaggerà all’estero per unirsi a gruppi jihadisti? Se sì, dove? O rimarrà nel proprio paese per compiere attacchi lì? E in tal caso, contro quali obiettivi? E lo farà da solo o con l’aiuto di altri soggetti?

Un insieme di vari fattori determina queste dinamiche. Alcuni sono psicologici, condizionati da preferenze personali. Ma spesso un fattore determinante è l’incontro con soggetti che, possedendo le conoscenze “giuste”, mettono l’aspirante jihadista in contatto con gruppi organizzati. Spesso chiamati “reclutatori”, tali soggetti sono forse meglio identificabili come “facilitatori”, soggetti che forniscono l’aggancio giusto, mettendo in contatto domanda e offerta nel mercato del jihadismo. I due cittadini albanesi dell’operazione bresciana Balkan Connection sarebbero esattamente questo, soggetti che mettono in grado due giovani radicalizzati che vogliono mobilitarsi e, nel caso specifico, partire per la Siria, ma che autonomamente non hanno modo di interagire con l’IS o qualsiasi altro gruppo jihadista, di realizzare il proprio obiettivo.

Dinamiche future Come detto in precedenza, la scena jihadista italiana ricalca dinamiche di radicalizzazione e mobilitazione presenti in altri paesi, ma in scala notevolmente ridotta. Le dimensioni della mobilitazione per il conflitto siriano dimostrano chiaramente questa analisi. Mentre le autorità francesi parlano di più di mille cittadini e residenti partiti per unirsi a vari gruppi jihadisti in Siria, quelle inglesi e tedesche di circa 700 ciascuna, e persino quelle di paesi dalle piccole dimensioni come, ad esempio, il Belgio di 400, le autorità italiane stimano in poco più di 50 il numero dei foreign fighters nostrani presenti in territorio siriano.

Tuttavia il fenomeno pare in crescita e ha conseguenze preoccupanti. Alcune sono di natura operativa. Nuclei autoctoni o, ancor più, lone actors sono spesso di difficile identificazione in quanto non operanti in seno a una struttura le cui comunicazioni e attività possono essere più facilmente monitorate dalle autorità. Il sopracitato articolo 270 quinquies del codice penale fornisce un ottimo strumento che è stato utilizzato più volte per arrestare jihadisti autoctoni attivi su internet ben prima che avessero posto in essere azioni concrete mirate al compimento di attacchi. Tuttavia l’applicazione dell’articolo in sede giudiziaria è stata spesso problematica. Il fenomeno pone dei limiti anche al frequente uso dell’espulsione, uno dei mezzi preferiti delle autorità antiterrorismo italiane. A causa della rigorosa legislazione italiana in materia è possibile che alcuni jihadisti autoctoni, nonostante siano nati in Italia, non abbiano la cittadinanza italiana e siano perciò passibili di espulsione. Ma altri, a partire dai convertiti, sono cittadini italiani a pieno diritto e perciò non soggetti a tale sanzione.

La seconda conseguenza dell’arrivo del fenomeno in Italia è a livello sociopolitico ed è probabilmente ancora più preoccupante. Replicando una dinamica vista in diverse occasioni in vari paesi europei, l’eventualità che un musulmano cresciuto in Italia possa compiere un attacco in Italia avrebbe ripercussioni enormi sul dibattito nazionale che su questioni come l’immigrazione e la presenza dei musulmani in Italia è già estremamente teso e altamente politicizzato.


[1] Presidenza del Consiglio dei ministri, Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza, 2009, p. 19, disponibile su www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/wp-content/uploads/2010/02/relazione-2009.pdf