Declino della rappresentanza e disintermediazione degli interessi

Di Stefano Zan Mercoledì 03 Settembre 2014 09:59 Stampa

Sebbene abbiano radici profonde, i segnali del declino delle forze sociali si manifestano oggi in tutta la loro chiarezza. Da un lato, alcuni dei provvedimenti più significativi dell’attuale governo rivelano la volontà di rapportarsi direttamente con i cittadini e di rendere la disintermediazione degli interessi una prassi comportamentale consolidata. Dall’altro, le associazioni di rappresentanza paiono frastornate e incapaci di leggere il nuovo contesto in cui si trovano a operare. Incapaci, soprattutto, di dotarsi di una maggiore chiarezza identitaria e di valorizzare il loro prezioso ruolo di strutture di servizio a sostegno dell’attività imprenditoriale e dei lavoratori.

Per trattare il tema del declino della rappresentanza degli interessi, la cosiddetta “crisi dei corpi intermedi”, e per valutare le prospettive che la disintermediazione degli interessi pone conviene affrontare tre questioni: i segnali del declino; le cause del declino; il (nuovo) ruolo delle forze sociali.

 

I segnali del declino

I segnali del declino delle forze sociali, in particolare nella loro funzione di lobbies, affondano le radici in tempi ormai lontani, ma possiamo dire che, con l’attuale governo, hanno trovato una evidenziazione diretta, chiara e indiscutibile. Infatti, il governo in carica ha dimostrato di poter fare quello che vuole non solo senza ascoltare le proposte/richieste delle diverse rappresentanze, ma contando altresì sul fatto che le stesse lobbies, oltre ad avere perso influenza sulle politiche pubbliche, sono di fatto incapaci anche di protestare contro i provvedimenti che danneggiano i propri rappresentati.1 Gli esempi sono molteplici: gli 80 euro in busta paga, pari a quasi due rinnovi contrattuali, peraltro nemmeno richiesti dal sindacato; i 36 mesi per i contratti a termine senza causale, che gli imprenditori mai si sarebbero sognati di chiedere e rispetto ai quali il sindacato ha elevato flebili proteste; il dimezzamento del contributo camerale, non richiesto da nessuno e che stravolge l’intero sistema a oggi gestito dalle associazioni imprenditoriali, senza che queste abbiano minimamente protestato. Non solo non c’è dichiaratamente concertazione (ma nemmeno consultazione preventiva), ma c’è anzi la volontà esplicita del governo di rapportarsi direttamente con i cittadini nella convinzione che lo stesso governo conosca meglio di chiunque altro tanto gli interessi delle singole categorie quanto quelli generali del paese e che le forze sociali, lungi dall’essere i reali rappresentanti degli interessi diffusi, siano piuttosto espressione di quella palude che, in metafora, richiama l’impossibilità del paese a cambiare realmente.

Il ritualismo esasperato delle rivendicazioni tradizionali di tutte le forze sociali, sempre incapaci di misurarsi con vincoli e compatibilità (vedi il patto tra i produttori siglato a Genova tra Confindustria e sindacato, che implicava un impegno di diversi miliardi da parte del governo), entra in rotta di collisione con l’urgenza delle scelte che il governo è chiamato a fare da un lato e con la necessità che le stesse scelte siano compatibili con i vincoli europei di mediolungo termine dall’altro. Emerge, quindi, una sorta di irrilevanza strategica delle forze sociali, incapaci di offrire una visione del futuro coerente e congruente con vincoli e risorse. La richiesta continua di essere quantomeno ascoltati si scontra con la convinzione che il confronto sia inutile e che rappresenti una sostanziale perdita di tempo, nonché con la consapevolezza che comunque questa evidente “distanza” dalle forze sociali non innesca alcuna protesta forte da parte delle stesse. Del resto, i risultati delle elezioni e la composizione dei voti per il Partito Democratico sembrano confermare che i cittadini (anche quelli iscritti ai sindacati e alle associazioni imprenditoriali) apprezzano questo nuovo modo di fare politica.

La disintermediazione degli interessi, che comporta inevitabilmente la marginalizzazione dei corpi intermedi, oggi non è più un’ipotesi, una teoria, una prospettiva, ma è una prassi comportamentale particolarmente significativa perché nei fatti ha già distribuito benefici tangibili a diverse categorie sociali (80 euro, 36 mesi), così come ha ridotto i privilegi di altre categorie (magistrati, dirigenti pubblici, sindacato del pubblico impiego). Soluzioni, queste (benefici e contenimento dei privilegi), che anni e anni di confronto e negoziazione tra le parti sociali e i governi non avevano saputo produrre. Velocità e risultati sono due elementi dell’attuale situazione politica che hanno spiazzato e ancora spiazzano, anche dal punto di vista cognitivo, le forze sociali, che sembrano del tutto disorientate rispetto a un modo di operare che è decisamente lontano dalla loro cultura organizzativa.

 

Cause endogene ed esogene

Le ragioni di questa situazione possono essere ascritte tanto a cause endogene quanto a cause esogene. Sul piano interno le associazioni di rappresentanza sono “istituzioni vecchie” che affondano le loro radici nell’immediato dopoguerra e che nel corso di questi decenni sono cambiate ben poco, mantenendo le caratteristiche storiche della frammentazione connessa da un lato ai vecchi legami con i tradizionali partiti di riferimento e dall’altro a una concezione novecentesca dell’economia che distingue ancora nettamente tra industria, commercio, artigianato, agricoltura. Da questo punto di vista, quindi, le associazioni sono in larga misura arcaiche e antistoriche, non avendo saputo, a differenza di molte altre istituzioni del paese, adeguarsi alle profonde trasformazioni tanto del sistema economico quanto di quello politico e istituzionale.

Ma le stesse associazioni sono ormai diventate una sorta di melting pot indistinto a bassa chiarezza identitaria. La Confindustria pretende di rappresentare le imprese pubbliche, le municipalizzate, le grandi imprese in regime di concessione, le “multinazionali tascabili”, le piccole e medie imprese di tutti i settori, quasi fosse scontata la convergenza di interessi tra imprese di natura e con logiche economiche così diverse. Le numerose associazioni dell’artigianato e del commercio rimangono strutturalmente distinte, quando invece rappresentano gli stessi interessi delle piccole e medie imprese. Nello stesso tempo, una quota significativa di imprese, spesso le più evolute e moderne, non è rappresentata da nessuno (vedi Fiat ma non solo). Il sindacato, d’altro canto, si comporta come se pensionati (largamente maggioritari), dipendenti pubblici e dipendenti privati siano la stessa cosa e abbiano gli stessi interessi, senza contare la sottorappresentanza dei non garantiti. Il ritualismo della rappresentanza, la sua narrazione, agisce come se le vecchie istituzioni (le attuali associazioni) rappresentino davvero il paese e la sua configurazione economica presente, quando è evidente a tutti un deficit di rappresentanza e di chiarezza identitaria. Non solo molti interessi non sono rappresentati, con riferimento sia ai lavoratori che agli imprenditori, ma anche quando sono rappresentati lo sono in maniera così confusa e ambigua da risultare poco credibili agli occhi degli interlocutori esterni. La Confindustria rappresenta il “parastato” o la piccola e media impresa? Il sindacato rappresenta i dipendenti pubblici, quelli privati o i pensionati? In questo quadro è quasi inevitabile che il governo, qualsiasi governo per la verità, punti a un rapporto più diretto con gli interessi reali del paese. Le cause esogene del declino dei corpi intermedi sono ascrivibili ai comportamenti e alle scelte dei governi che si sono succeduti da Berlusconi in poi. Berlusconi, teorizzando un dialogo sociale che non ha mai perseguito realmente, ha puntato a privilegiare il rapporto con la Confindustria (in più di un’occasione ha detto che «il vostro programma è il mio») e a dividere il sindacato. Monti ha dichiarato esplicitamente di considerare le forze sociali quali “coalizioni distributive” che in pura logica olsoniana bloccano qualsiasi riforma nella tutela di privilegi corporativi. Letta non ha avuto il tempo di articolare una precisa posizione, ma certamente non ha definito il rapporto con le forze sociali come un prius. Renzi infine, in maniera molto esplicita e a volte ironica («I tavoli sono cose da mobilieri, mandatemi una mail»), ha collocato anche le forze sociali in quella palude che, a suo avviso, ha bloccato e ancora blocca il nostro paese.

Al di là delle posizioni individuali, mi pare si possa dire che la posizione degli ultimi governi sia riconducibile ad alcune convinzioni di base. I vincoli europei sono condizioni di contesto che le forze sociali, con il loro rivendicazionismo, sembrano ignorare. La pretesa di rappresentare gli interessi di tutti i lavoratori e di tutti gli imprenditori è palesemente infondata. Le forze sociali sembrano ignorare che la variabile tempo (velocità delle decisioni) nel contesto della globalizzazione è tutt’altro che secondaria e non può essere (più) sottomessa al ritualismo dei confronti tradizionali. Nessuno, nemmeno le associazioni di rappresentanza, può più assumere quel ruolo di veto player che ha bloccato il paese negli ultimi decenni. Anche il sistema della rappresentanza deve affrontare quella “rivoluzione istituzionale” (nel senso proprio del neo-istituzionalismo) avviata da Renzi che consiste nel rinnovamento delle persone e dei gruppi dirigenti, nella razionalizzazione/semplificazione dell’architettura organizzativa, nella modificazione di prassi comportamentali ormai obsolete.

 

Le prospettive

A fronte di questa situazione, le associazioni di rappresentanza sembrano frastornate e incapaci di reagire in coerenza con i mutamenti del contesto in cui si trovano a operare. L’impressione, per chi ha modo di frequentarle sistematicamente, è che si trovino in una fase di rottura delle tradizionali mappe cognitive e che non riescano ancora a ricostruire nuovi nessi causali nella creazione di senso della loro azione. Un problema cognitivo e culturale prima ancora che politico. D’altra parte, però, le prospettive prevedono inevitabilmente una rivoluzione culturale che, abbandonando i vecchi schemi comportamentali e relazionali, sia in grado di valorizzare i punti di forza che ancora indiscutibilmente hanno.

Per quanto il sistema della rappresentanza sia un melting pot arcaico e antistorico, è pur vero che milioni d’individui si riconoscono in queste associazioni e le sostengono con i loro contributi personali. Una maggiore chiarezza identitaria, fatta di fusioni e ricomposizioni delle attuali associazioni, potrebbe attirare un numero ancora più consistente di iscritti, il che, in una società sempre più liquida e individualizzata, mi pare comunque un aspetto assolutamente positivo. Tutte le associazioni di rappresentanza, in misura maggiore o minore, non sono solo lobbies e negoziazione, ma anche importanti strutture di servizio, una sorta di terziario associativo che supporta l’attività imprenditoriale di centinaia di migliaia di imprese, nonché gli adempimenti di milioni di lavoratori. Attraverso la negoziazione le forze sociali hanno “inventato” istituti quali la bilateralità, la previdenza integrativa, il sostegno al reddito ecc., che costituiscono una sorta di welfare associativo che già oggi affianca un sistema pubblico sempre più in difficoltà e che con opportuni provvedimenti potrebbe essere potenziato nell’interesse complessivo del paese. CAF e patronati rappresentano forme di esternalizzazione di funzioni pubbliche che le ricerche più recenti confermano essere assolutamente competitive rispetto a una gestione diretta dello Stato.

Non sono pochi, dunque, i punti di forza che i corpi intermedi possono vantare e accampare come ragioni fondamentali della loro legittimità e legittimazione. Quello che sembra mancare sono la prospettiva politica, la visione strategica e la capacità di innovazione che, uscendo dagli schemi tradizionali, consentirebbero all’intero sistema di rappresentanza di affermare il suo (nuovo) ruolo in una società sempre più complessa e globalizzata.

 


[1] S. Zan, Le lobby hanno perso la “voice”?, in “mentepolitica.it”, 28 giugno 2014, disponibile su www.mentepolitica.it/articolo/le-lobby-hanno-perso-la-voice/108

 

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