Il voto alla ricerca di un leader

Di Mauro Calise Venerdì 08 Giugno 2012 10:29 Stampa

Questa tornata amministrativa ha portato prepotentemente alla ribalta il grande assente della politica italiana: il voto – e i votanti – d’opinione. L’implosione di Berlusconi e l’ascesa del montismo e del grillismo hanno liberato una galassia di energie critiche su entrambi i fronti dello schieramento politico. Offrendo l’opportunità di riappropriarsi della televisione e della rete come canali di partecipazione e di mobilitazione. Ma confermando che, come nelle principali democrazie, il ritorno dell’elettorato d’opinione si coniuga con un rapporto stretto e diretto con un leader.

Almeno alle prossime elezioni, in primavera o – chissà – anche prima, non si dica che non eravamo stati avvisati. Che non c’erano stati tutti i campanelli di allarme e, per qualcuno, le campane a morto. Queste amministrative sono state precise come un vaticinio, e sta solo a chi ha il boccino in mano decidere se dare ascolto alla piega che il paese, ci piaccia o no, sta prendendo. Tanto più che i risultati delle urne sono stati esattamente quelli che molti – me compreso – avevano previsto, mettendolo, in più occasioni, per iscritto.

Insomma, non ci sono state sorprese. E proprio questo rende ancora più visibile il tracciato che si dovrà percorrere nei prossimi mesi. Un tracciato che viene da lontano e ha tre snodi, che portano dritti, e di filata, dalla seconda alla terza Repubblica.

Il primo – un vero spartiacque – riguarda la rovinosa caduta del grande partito personale, geniale invenzione e finale maledizione di Silvio Berlusconi. Ci fosse il tempo per le polemiche si potrebbe, inutilmente, aspettare l’autocritica dei numerosi opinion makers (in buona compagnia di autorevoli e meno autorevoli politici) che fino a poco fa sostenevano che quel partito si era emancipato dal suo padre-padrone e aveva messo salde radici territoriali, con relative autonome – e funzionanti – strutture organizzative. No comment. Ed è superfluo anche discettare sulle cause di una disfatta tanto rapida quanto catastrofi ca. Le variabili concorrenti sono tante, come sempre quando si liquefa un potere che ha egemonizzato l’Italia per quasi un ventennio. Ma al nocciolo la spiegazione più elementare è che ogni partito personale segue il destino fisico, ancora prima che politico, del suo avatar. La durata di Berlusconi è stata strabiliante anche in questo. Ma alla fi ne il re si è ritrovato, irrimediabilmente, nudo.

A questo stesso capitolo appartiene la disfatta della Lega di Umberto Bossi. Lì si era potuto sostenere, con migliori ragioni, che il ruolo indiscutibile del capo, la sua straripante presenza, aveva potuto convivere con una base di militanti nutrita e, all’apparenza, ben organizzata. Però, quando si è arrivati al cosiddetto momento della verità, la ringhiosa macchina da guerra leghista non ha retto alla scoperta che al posto di un leader, al comando, c’era una cricca familista da fare invidia agli idealtipi antisudisti di Banfield. E anche in questo caso – spiace, ma bisogna dirlo – all’origine c’è un disfacimento fisico che solo in questo paese poteva essere tollerato in personalità che ricoprono delicatissimi livelli di responsabilità istituzionale e politica (negli Stati Uniti, per moltissimo meno, si sono fatti da parte uomini pubblici di terza fila).

Il secondo snodo riguarda il seguito – il riempimento, come si usa dire in politica – di queste due rovinose cadute. Da sinistra – potevano esserci dubbi? – si sono subito levate alte grida di giubilo, decretando la fine tout court del famigerato partito personale (e, per converso, la prodigiosa rinascita del vecchio archetipo collegiale). Ma, purtroppo, le cose non andranno così. Il vuoto nel centrodestra sarà riempito, e anche più rapidamente del previsto, da qualche nuova formazione politica. Più o meno riciclata e riuscita; ci vorrà un po’ di tempo per capirlo. L’unico punto fermo sarà il carattere spiccatamente leaderistico, quale che sia l’organizzazione alle sue spalle. Anzi, più solida sarà l’infrastruttura, maggiori sforzi si faranno per renderla poco invadente sul palcoscenico mediatico. Proprio come successe all’esordio travolgente di Forza Italia, con tutti i riflettori puntati sugli sproloqui in TV del Cavaliere, mentre la rete territoriale – e gerarchica – di Publitalia era impegnatissima a sfruttare il proprio forziere di contatti e risorse umane nel mondo liquido – di liquidità – della raccolta pubblicitaria.

Quando (quando?) si riuscirà finalmente a sfatare, nella cultura di sinistra, il tabù della personalizzazione, si potrà anche superare l’immagine in bianco e nero che ne circola: una rappresentazione del fenomeno tagliata con la peggiore accetta dell’ideologia. Da un lato il demone del capo, dall’altra il mito dell’azione collettiva. Ma l’esperienza di questi vent’anni, in Italia e fuori dall’Italia, ha mostrato che la personalizzazione si coniuga sempre con l’organizzazione. Anzi, proprio questa variabile segna la sua durata e capacità di espansione.

La scena della seconda Repubblica è stata intasata dall’ascesa e dal rapido declino di partitini personali rimasti vittime della incapacità di impiantare una rete di supporto adeguata: la lista Dini, quella di D’Antoni, il mai nato partito del Sud all’ombra di Micciché e/o Lombardo, la coriacea ma localistica parabola dell’UDEUR di Mastella, compresi i forse più nobili, ma anche più clamorosi, capitomboli nel nome del presidente della Camera (quello di oggi, e forse anche quello di ieri). La stessa sorte sarebbe toccata al più longevo dei partitini ad personam, quello del magistrato Di Pietro, se non fosse stato salvato – o è meglio dire resuscitato – dall’abbraccio con cui il PD gli evitò di finire fuori delle aule parlamentari.

Dunque, il successo del nuovo fantasma che già si aggira per il centrodestra dipenderà dalla capacità di mixare sapientemente leader e organizzazione, e di farlo bypassando la zattera alla deriva del PDL (e cercando al tempo stesso di raccoglierne quanti più naufraghi possibile). Non è un’impresa da poco, ma i cantieri sono stati aperti (e altri, probabilmente, sono all’opera sottotraccia).

Per questo stesso snodo – un tempo si sarebbe detto di forma-partito – passa il futuro del Movimento 5 Stelle. Grillo ha spremuto probabilmente il massimo dalla propria straordinaria abilità nel fondere le piazze reali – dove continua a fare il pieno – e quella virtuale della rete, di cui si è dimostrato un espertissimo navigatore (e manipolatore). Una fusione tanto più riuscita perché le piazze municipali in cui si è votato alle amministrative gli hanno fatto da volano e megafono. Ora si arriva alla solita domanda: come si tiene insieme tutto questo? Come si fa il salto di scala? Fintanto che si è trattato di sindaci e di aspiranti assessori la spinta dal basso ha funzionato, inserendosi peraltro in un solco già collaudato da precedenti stagioni. Ma quando toccherà selezionare le liste per il Parlamento diventerà molto più problematico tenere insieme centomila teste, tutte convinte, in ottima fede, di disporre del migliore curriculum per servire al meglio la nazione. Non sarà un passaggio indolore, ed è possibile che le tensioni già affiorate tra Grillo e alcuni suoi portabandiera – che ci hanno messo la propria faccia e adesso vogliono tenersela – facciano implodere i grillini molto prima del previsto. Una ragione di più per seguire con la massima attenzione possibile l’evoluzione di un fenomeno che, comunque vada a finire per il comico genovese, segna una svolta importantissima nel panorama elettorale italiano.

Non mi riferisco solo alla conta dei voti, al momento affidata soprattutto ai sondaggi che danno cifre da capogiro (ma invitando alla massima cautela data l’estrema volatilità di questa fase di statu nascenti). Più ancora della quantità dei consensi che si stanno mobilitando intorno a Grillo colpisce la loro qualità, il tipo di motivazione e di canale da cui sono animati e veicolati. Colmando un ritardo che dura da moltissimi anni, questa tornata amministrativa ha portato prepotentemente alla ribalta il grande assente della politica italiana: il voto – e i votanti – d’opinione. Sì, lo so, per la cultura progressista, gli elettori sono mossi soltanto dalle idee: buone o cattive, di destra o di sinistra. E l’unico modo per strappare consensi all’avversario consiste nell’opera di conversione e di proselitismo a furia di argomentazioni e programmi. Ma, come sa da sempre chi studia il fenomeno delle motivazioni di voto, la realtà non funziona così. Il peso delle opinioni cresce o diminuisce a seconda del contesto culturale, del sistema politico, del tipo di partiti in campo. E, in Italia, per una serie di ragioni ampiamente documentate, l’elettorato di opinione è sempre stato minoritario.

Durante tutta la prima Repubblica erano due i tipi di voto che tenevano le opinioni sotto scacco. Il voto d’appartenenza, un legame di tipo ideologico e subculturale col partito con cui la propria famiglia, comunità, religione si era da sempre identificata. Ed era questo tipo di voto ad aver fatto la forza e la stabilità di comunisti e democristiani per molti decenni di fila. Poi c’era il voto di scambio, diffuso nel Mezzogiorno ma non solo, alimentato da reti clientelari e rendite vetero o neo-notabiliari, boss di paese o sigle sindacali. Nella morsa tra appartenenza e scambio, l’opinione faceva fatica a conquistarsi il ruolo egemonico che riveste in molti altri paesi. Quando crollò la prima Repubblica sembrò che fosse finalmente arrivato il momento per entrare anche noi nel club delle democrazie mature, distinte da un format bipartitico e da una pubblica opinione informata che sceglie la più convincente tra le due alternative sul tappeto. Invece, scese in campo Berlusconi, e al posto dell’agognato trionfo delle opinioni illuminate arrivò lo tsunami populista. Un voto che resuscitò la vecchia logica di appartenenza ai partiti, ma ancorandola al richiamo ancestrale di un leader specchio dei desideri più egoistici e inconfessabili, e, al tempo stesso, coagulo degli odi più viscerali e non negoziabili. Per vent’anni, il berlusconismo non è stato soltanto il glutine di un blocco di centrodestra che ha dilapidato le casse del paese. Oltre che un modus vivendi è stato anche un modo di pensare. Una gabbia mentale che ha chiuso destra e sinistra nella stessa trappola di un appoggio indiscriminato o di una lotta senza quartiere. Restringendo ancora di più lo spazio di un elettorato d’opinione cui è rimasta l’unica opzione di essere contro o a favore di un capo.

L’implosione – o, forse, è meglio dire l’esplosione – di Berlusconi ha liberato una galassia di energie critiche su entrambi i fronti dello schieramento politico. L’aria nuova si è percepita subito con Monti, un leader che riusciva finalmente a non comunicare con la pancia ma con la testa, e a dispetto del fatto che sfilasse quattrini e anni di riposo dalle tasche dei suoi ascoltatori. Non sappiamo ancora quanto durerà il montismo e se davvero riuscirà a compiere l’impresa di risanare i conti pubblici. Ma una grande trasformazione è già avvenuta: gli italiani, di destra come di sinistra sono rimasti per ore incollati ai teleschermi, seguendo tabelle e grafi ci che non promettevano miracoli ma esigevano sacrifici. Un approccio che, da decenni, è il mainstream delle democrazie occidentali e che fa perno sulla televisione come mezzo di informazione, ma che da noi era rimasto esautorato dal palinsesto dei talk-show in cui l’unico modello consentito era quello della corrida e dello scontro; per non parlare dei telegiornali, trasformati in veline di partito come non era mai accaduto nemmeno negli anni bui della prima Repubblica. Invece che per un colore politico – che molti, da troppe parti, vorrebbero cucirgli addosso – il montismo si è caratterizzato per avere riattivato uno spazio bipartisan di comunicazione. Sfruttando al meglio i due canali dei media tradizionali, dei quali innanzitutto si nutre ogni elettorato di opinione: la stampa e la televisione.

Con Grillo, una marcia in più è arrivata dall’uso del web, dove ha trovato un terreno fertilissimo anche grazie ai ritardi testardamente accumulati dai partiti della sinistra con la loro estraneità al mondo e ai linguaggi della rete. Succube della strategia del Cavaliere, il PD è rimasto prigioniero della vecchia concezione italiana della comunicazione politica affidata esclusivamente al potere della televisione. E non si è accorto che, mentre i talk-show perdevano contenuti e audience, internet offriva un territorio ricchissimo di sperimentazioni, interazioni, progettualità. Dando la possibilità a centinaia di migliaia di cittadini di confrontarsi e mobilitarsi grazie al web, spesso ampliando questa esperienza con incontri nelle piazze reali, in carne e ossa. Oggi è facile riconoscere che questa è stata la principale risorsa del Movimento 5 Stelle, anche grazie a una sapiente regia professionale che ha fatto del web uno strumento di orientamento – e di visibilità – strettamente sintonizzato con la leadership di Beppe Grillo. Incluso l’ordine furbescamente – e centralisticamente – imposto da Grillo ai propri candidati di non andare ad azzuffarsi in televisione. Più difficile, almeno a sinistra, sarà comprendere e accettare che, in entrambi i casi, il ritorno dell’elettorato d’opinione si coniuga con un rapporto stretto e diretto con un leader. Sia il montismo che il grillismo segnano il tramonto – ci auguriamo definitivo – del populismo mediatico. Ma lo fanno non riportando indietro la lancetta delle appartenenze – e delle scelte – alle vecchie identità di partito. E alle logiche, metà oligarchiche e metà collettive, che per un secolo le hanno governate. Il nuovo elettorato d’opinione, che finalmente può diventare anche in Italia l’ago della bilancia politica, si sviluppa solo se riesce a costruire un legame fiduciario con una forte, coerente e autorevole personalità. Non si tratta di fiducia alla cieca, e tanto meno incondizionata. Ma, contrariamente agli stereotipi che vedono nel rapporto con un capo sempre una forma di delega, le moderne democrazie funzionano solo se il mandato popolare è chiaramente imputabile a qualcuno che se ne assume la responsabilità. Questa è stata la forza di Monti e, alle sue spalle, di Napolitano. Questa è stata la scommessa di Grillo. E sarà questa la carta vincente per le prossime elezioni politiche.

C’è finalmente, sul mercato italiano, un elettorato di opinione disposto a scegliere con la propria testa. Molti, per il momento, sembrerebbero orientati per l’astensione. Altri per la protesta, che può essere anche costruttiva. Ma, nella grande maggioranza dei casi, questo elettorato d’opinione si sentirebbe molto più a proprio agio se potesse essere messo in condizione di decidere – come in Francia, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti – chi sarà alla guida del governo, e chi dovrà rendere conto dei successi o fallimenti che ne verranno. Sappiamo che non ci sono oggi i margini per riforme istituzionali che allineino il nostro paese con le altre democrazie anche su questo cruciale snodo istituzionale. Ma sul piano delle strategie di alleanza, e, soprattutto, di comunicazione, è bene prendere atto al più presto che il nuovo voto di opinione è alla ricerca di un leader.

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