Il partito nell’era della disintermediazione

Di Lorenzo Guerini Martedì 21 Ottobre 2014 10:53 Stampa
Il partito nell’era della disintermediazione Foto: jacinta lluch valero

Quale forma partito può rispondere alle nuove istanze nell’era della progressiva disintermediazione? Può farlo solo un soggetto che sappia riconoscere la crisi dei partiti in tutta la sua problematicità e ade­guarsi ai mutamenti sociali, senza negarli; che accetti di non essere più l’unica forma di partecipazione politica e che sappia, in ragione di ciò, aprirsi a chiunque voglia contribuire a renderlo strumento ef­ficace per la determinazione della politica nazionale. Non un partito debole, ma un partito che, forte della sua capacità di essere comunità disponibile a diverse e flessibili dimensioni di coinvolgimento, con un progetto condiviso e partecipato, interpretato da una leadership democraticamente legittimata, sappia proporre politiche per il paese, nell’interesse di tutti.


Se ci si avvicina al dibattito intellettuale, ormai pluriennale, che riguarda i corpi intermedi e la loro crisi e si prova ad allargare lo sguardo rispetto a un’analisi settoriale di realtà separate, ci si accorge che la questione è molto ampia e profonda, e molto impegnativa soprattutto per come investe la responsabilità politica nel governo dei mutamenti economici, sociali e culturali.

Non è certo una novità affermare che siamo di fronte a una svolta nelle forme e nei modi che regolano i rapporti tra la vita del singolo e gli ambienti che si trova a frequentare. Non a caso si è fatto strada in tempi recenti un concetto racchiuso nella parola “disintermediazione”, il cui significato, nato in ambito finanziario e bancario, si estende oggi alla quasi totalità della vita personale e associata. Dalle banche al confronto sociale, dal giornalismo allo svago, dal commercio alla musica, dai ser­vizi ai libri, potenzialmente possiamo accedere direttamente a ciò che ci serve, subito, a costi inferiori e senza nemmeno spostarci. Non abbiamo più bisogno, o immaginiamo di non aver più bisogno, di “luoghi” che si assumano (o si arroghino) la responsabilità di “organizzare” il mondo per “guidarci” nella scelta.

Si tratta non solo di questioni pratiche ma di un cambiamento che coinvolge un paradigma culturale e antropologico. Il fatto che ciascuno ritenga di poter organizzare, con sempre maggiore frequenza, grazie a sempre maggiori strumenti e per via di una sempre maggiore velocità, la propria vita in relazione diretta e singolare, senza bisogno di media­tori, con tutto ciò che lo riguarda ha un impatto sulla percezione stessa della propria posizione sociale e del rapporto con l’altro. Consapevole di sintetizzare una questione estremamente complessa e per nulla lineare e senza pretendere di sviluppare oltre un tema che coinvolge competenze e specializzazioni particolari, è però evidente che soprattutto la politica non può da un lato rimanere indifferente e dall’altro non essere interro­gata nel profondo sulle sue responsabilità e sui modi e gli strumenti che la contraddistinguono per governare i processi.

Soprattutto viene posto in questione quel particolarissimo corpo in­termedio che è il partito politico. Non rappresentando semplicemente interessi specifici o settoriali, ma essendo chiamato per statuto costitu­zionale a essere il luogo dove «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente (…) per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», esso è un caso serio che riguarda la qualità della democrazia. Ecco allora che l’emergere, qualche volta in modo interes­sato ma comunque sempre meno sotto traccia, nel dibattito pubblico e nell’opinione corrente della domanda se sia ancora necessario e utile il partito affinché la politica sappia dare risposte efficaci alle sfide contemporanee non può che in­terpellare una classe dirigente consapevole dei suoi compiti.

Si può discutere se il fatto che la politica e i partiti non godano di particolare stima da parte dei cit­tadini sia anche il portato di precisi interessi che vedono nella loro debolezza la possibilità di incre­mentare la propria influenza. Ma non ci si può nascondere una precisa responsabilità dei partiti nel non aver saputo cambiare se stessi adeguan­dosi ai mutamenti sociali. Come è accaduto anche per altre realtà, l’im­pressione, che è divenuta opinione diffusa, è che i partiti si siano trasfor­mati progressivamente in corporazioni più interessate a tutelare se stesse che a interpretare in modo nuovo il proprio ruolo di corpo intermedio tra le istanze dei cittadini e le istituzioni. Non si può non vedere che la domanda rischia di vertere non su quali partiti siano necessari oggi ma sulla necessità stessa dei partiti.

Negli ultimi vent’anni in Italia si sono evidenziati modi diversi e alter­nativi di dare risposta alla crisi dei partiti. C’è chi ha costruito, e lo fa ancora oggi, una soluzione che di fatto ha smantellato il concetto stesso di partito, plasmando, attorno a una leadership proprietaria e persona­le, una forma di aggregazione concretamente non guidata da metodo democratico. Una risposta che, oggi come ieri, dimostra di non essere adeguata a dare soluzione ai problemi e che inevitabilmente si stabilizza su impostazioni populiste e demagogiche, quantomeno del tutto ineffi­caci, se non pericolose.

Dall’altra parte c’è chi invece ha cercato e continua a cercare di assumere la crisi dei partiti in tutta la sua problematicità, non senza resistenze e passi indietro. È il caso del Partito Democratico, contemporaneamente esito di un percorso e inizio di una stagione nuova. Un caso particolare, per molte ragioni, non fosse altro perché è l’unica forza politica che an­cora oggi ha il coraggio di portare nel suo nome la parola “partito”, per di più insieme all’aggettivo qualificativo “democratico”, il che mostra tutta intera la sfida che vuole assumere su di sé, fondando la propria identità a partire dal dettato dell’articolo 49 della Costituzione e da una sua piena applicazione.

Tuttavia la questione, viste le premesse, è radicale. Quale forma partito può oggi essere adeguata alle nuove istanze nell’era della progressiva di­sintermediazione?

Prima di tutto occorre riconoscere che i partiti sono necessari alla demo­crazia ma non più (auto)sufficienti. Essi si sono pensati e hanno agito per lungo tempo come la sola via autentica di partecipazione politica. Non è in discussione l’importanza storica dei partiti di massa nel portare dentro la dinamica democratica settori sociali sempre più ampi. Pro­gressivamente, però, i partiti-chiesa, fondati su una ideologia coagulante e un’adesione militante e per sempre, all’interno di una stratificazione sociale più o meno identificabile, non hanno saputo più adeguarsi a una società che mutava a una velocità e secondo direzioni che non riuscivano più a leggere. È venuto meno il tempo di partiti che si autoconcepivano come il fine della democrazia, a fronte dell’emergere di nuove volontà di partecipazione alla politica anche secondo altri canali. L’impatto che le nuove tecnologie producono sia dal lato dei modi e degli strumenti a disposizione dei singoli sia come conseguenza sulla vita interna ai par­titi ne è esempio evidente. A questi cambiamenti strutturali non si può reagire limitandosi a resistere, pensando di riuscire a gestire la decadenza, come è anche capitato nel Partito Democratico. Così come è sbagliato e lesivo della qualità della democrazia destrutturare il me­todo democratico all’interno della vita dei partiti. Semmai occorre un di più di democrazia.

Se il PD, ad esempio, nasce dalle primarie, non è un caso. È perché coinvolge il “fondatore” del par­tito, il cittadino elettore, nella individuazione di volta in volta della propria proposta programma­tica, incarnata da una leadership legittimata democraticamente, e insie­me si rende disponibile a plasmare la sua forma dischiudendo i propri confini alla partecipazione di chi in modi anche diversi intende contri­buire a renderlo strumento efficace per la determinazione della politica nazionale. Senza mitizzare una modalità molto delicata e ancora fragile, per di più unilateralmente praticata, in questo senso le primarie possono però intendersi come un tentativo di interpretazione democratica della disintermediazione. Naturalmente a patto che il coinvolgimento del cit­tadino elettore dentro la vita del partito non si riduca, come è invece troppe volte accaduto, al giorno delle primarie, quasi fosse una valvola di sfogo, per poi tornare subito a concepire la vita del partito come se nulla fosse accaduto. Invece il vero tema è pensare a un organismo vitale che si ponga al servizio del suo “azionista di riferimento” (il cittadino) facendosi interrogare costantemente.

Non si tratta di cedere alle conseguenze della realtà che muta, significa semmai motivare, visibilmente e concretamente, una risposta affermati­va alla domanda sulla necessità dei partiti per la qualità della democrazia. Significa pensare e costruire, organizzare una forma partito che abbia ben presente chi è il suo interlocutore, e oggi una sua identificazione pre­cisa e definitiva non è più possibile. Una forma che sappia interpretare i mutamenti sociali senza essere determinata da essi, ma senza pretendere di mettersene alla guida sulla base di una ideologia fissata una volta per tutte. Significa avere un’idea di società, fondata su principi e valori con­divisi, che sappia dare una interpretazione intelligente della realtà per poterla trasformare. Non un partito debole, dunque. Al contrario, un partito che, forte della sua capacità di essere comunità tanto larga quanto ben piantata sul territorio, a diverse e flessibili dimensioni di coinvolgi­mento (iscritti, militanti, volontari, elettori), con un progetto condiviso e partecipato, interpretato da una leadership democraticamente legitti­mata, sappia proporre politiche per il paese, nell’interesse di tutti.

Qui si inserisce la questione centrale del rapporto tra la funzione del partito e il governo. Se il partito è strumento al servizio del soggetto cittadino avente come finalità la politica nazionale non può che essere per il governo. Questo non significa abdicare alla funzione di interme­diazione. Al contrario, i partiti, e tra essi in par­ticolare il Partito Democratico, possono essere al centro del processo democratico, la via per ridare forza e dignità alla politica, solo se capaci di farsi invadere dalle domande dei cittadini e di orientare tutta la loro attività per corrispondervi attraverso l’azione di governo. Se sono la via efficace oggi per portare sempre più cittadini dentro la dinamica del governo. È una sfida impegnativa ma necessaria e stimolante se si vuole che il partito torni a essere luogo accogliente per una autentica partecipazione democratica. Se si vuole che la politica torni a es­sere autorevole agli occhi dei cittadini, capace di fornire risposte efficaci, anche perché partecipate, alle emergenze sociali ed economiche. E in grado di continuare a essere la strada maestra, percorsa con i cittadini, per costruire il futuro della comunità nazionale ed europea.

 


Foto: jacinta lluch valero

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