L'ipocrita retorica della pace in Medio Oriente

Di Henry Siegman Mercoledì 05 Novembre 2014 17:03 Stampa

La rivendicazione del diritto all’autodifesa per giustificare il massacro di civili palestinesi, l’accusa a questi ultimi di crimini di guerra, l’equiparazione di Hamas all’IS sono esempi emblematici dell’ipocrisia che impregna la retorica del primo ministro israeliano Netanyahu, della cui coalizione di governo fanno del resto parte ministri che invocano impunemente il genocidio. È giunto il momento per la comunità internazionale e per la leadership palestinese di dichiarare apertamente che il principale ostacolo al processo di pace sono proprio le confische e le annessioni territoriali israeliane, per smascherare così il doppio gioco di Netanyahu, il quale non ha alcuna intenzione di consentire la costituzione di uno Stato palestinese in Cisgiordania, ma cerca solo di prendere tempo per continuare a espandere gli insediamenti israeliani nei Territori occupati.

 

 

Il massacro di civili palestinesi e la riduzione in macerie – che ricordano la distruzione di Dresda – di ampie aree di Gaza attuati dalle forze armate israeliane hanno messo in evidenza l’ipocrisia con cui Israele tratta con i palestinesi. Il massimo dell’impudenza è rappresentato dalla rivendicazione del diritto all’autodifesa allo scopo di impedire la liberazione delle proprie vittime dall’occupazione. Una forza di occupazione, in base alle leggi internazionali, ha il dovere di fare due cose: porre fine all’occupazione e, fino a quel momento, proteggere la popolazione a lei soggetta. Israele sta palesemente sottraendosi a entrambi questi doveri. Le minacce alla sicurezza dei propri cittadini, cui si richiama per giustificare gli attacchi che provocano regolarmente l’uccisione di palestinesi in maggioranza non combattenti, sono provocate dalla sua occupazione. Un popolo sotto occupazione, al quale gli occupanti dichiarano che la sudditanza durerà per sempre e che non avrà mai il permesso di esercitare il diritto all’autodeterminazione e a vivere da padrone in territori riconosciuti dalla comunità internazionale quale suo legittimo patrimonio, ha tutto il diritto di ricorrere alla resistenza, anche in forma violenta, per conquistarsi la libertà, perché reagisce alla violenza che lo mantiene illecitamente sotto occupazione. È il diritto esercitato dal popolo ebraico quando la sua lotta per avere un proprio Stato era contrastata.

Questa realtà ha alcune chiare implicazioni politiche. Robert Serry, il coordinatore speciale dell’ONU per il processo di pace in Medio Oriente, lo scorso 18 agosto ha dichiarato di fronte al Consiglio di sicurezza: «L’equazione di fondo [nei colloqui del Cairo] deve consistere nel porre fine al blocco di Gaza e nel tenere conto delle legittime preoccupazioni di Israele per la propria sicurezza ». La quale sicurezza, per Israele, comporta prima di tutto la “smilitarizzazione” di Hamas e degli altri gruppi militanti. Sono due obiettivi del tutto inconciliabili, a meno che Israele non sia disposto a offrire ai palestinesi una via certa e attuabile verso la soluzione dei due Stati, in conformità con la road map per la pace in Medio Oriente, da realizzare parallelamente alla smilitarizzazione di Gaza. Se Israele non può o non vuole accettare questo, non esiste alcuna base per la sua richiesta di smilitarizzare Gaza, perché non ha alcun diritto di aspettarsi che i palestinesi accettino lo status quo, la condizione di popolo occupato, come destino irreversibile.

Ovviamente il diritto di Hamas di contrastare la violenza illegale che mantiene l’occupazione è limitato, perché anche i suoi uomini non possono avere come bersaglio dei civili. I razzi di Hamas puntano indiscriminatamente su Israele e non verso obiettivi militari israeliani. Il fatto che solo pochi civili israeliani siano stati uccisi o feriti è dovuto alla buona sorte e non alle cautele di Hamas. Il primo ministro Netanyahu non è nella condizione di poter accusare i palestinesi di crimini di guerra. Il 29 settembre scorso, nel suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, egli ha ribadito che quanto aveva sostenuto di fronte alla stessa Assemblea tre giorni prima il presidente palestinese Mahmoud Abbas, cioè che le devastazioni israeliane a Gaza sono paragonabili a un genocidio, era una pericolosa bugia che costituiva un incitamento all’antisemitismo contro lo Stato ebraico. Ma non ci vuole un grande sforzo di immaginazione per sapere come Netanyahu avrebbe definito un attacco palestinese contro Israele che avesse provocato l’uccisione di 500 bambini ebrei (questo è il numero dei bambini arabi uccisi a Gaza). I due pesi e due misure dell’atteggiamento ipocrita di Netanyahu sono soprattutto evidenti quando ripete insistentemente che il rifiuto di Hamas di riconoscere lo Stato di Israele e l’appello, presente nel suo statuto, alla riconquista non solo dei Territori occupati ma di tutto Israele equipara questa organizzazione (come gli altri gruppi politici e militanti palestinesi che condividono questo obiettivo) all’IS.

Intanto questo è sostanzialmente falso, perché Hamas non auspica un nuovo califfato, come fa l’IS, e non è in guerra contro l’Occidente. È un partito nazionalista e religioso che ha vinto delle elezioni democratiche. È nato negli anni Ottanta del secolo scorso (con l’incoraggiamento di Israele) soprattutto per lottare contro l’occupazione delle terre palestinesi. La critica di Netanyahu è ipocrita, perché il suo stesso governo comprende partiti politici che formalmente aspirano all’annessione di tutta la Palestina e respingono qualunque rivendicazione territoriale da parte palestinese. Le piattaforme politiche di questi partiti rispecchiano perfettamente il rifiuto da parte di Hamas della legittimità della sovranità israeliana su qualunque parte della Palestina. Anzi, proprio nella piattaforma politica del partito di Netanyahu, il Likud, viene negato ufficialmente il diritto palestinese a uno Stato in qualunque parte della Palestina. Il fatto che Hamas non abbia mai modificato il proprio statuto – una critica costante espressa dagli israeliani – non è diverso dalla mancata modifica della propria posizione ostile a uno Stato palestinese da sempre sostenuta dal Likud.

Se nel suo discorso del 2009 all’Università Bar-Ilan Netanyahu si era detto favorevole a una soluzione che prevedesse due Stati, resta il fatto che non l’ha mai proposta al proprio governo per renderla operativa e farla approvare. Se ci fosse stato un minimo dubbio (e non avrebbe mai dovuto esserci) che Netanyahu e il suo governo avessero mai avuto l’intenzione di permettere ai palestinesi di concretizzare il loro diritto a uno Stato proprio e all’autodeterminazione, lo stesso Netanyahu l’ha dissipato l’11 luglio, in occasione di una conferenza stampa in lingua ebraica nel corso della quale ha dichiarato che non avrebbe mai consentito ai palestinesi di esercitare il diritto a una genuina sovranità, proprio l’elemento che definisce l’esistenza di uno Stato. Il direttore di “The Times of Israel” David Horovitz, approvando questa presa di posizione, ha osservato: «Nessuno potrà più in futuro sostenere che [Netanyahu] non ci abbia detto quello che pensa veramente. Ha chiarito in modo esplicito che mai e poi mai potrebbe consentire la presenza di uno Stato palestinese con piena sovranità in Cisgiordania».1

I crimini di guerra commessi dalle forze armate israeliane nel corso della guerra d’indipendenza sono stati documentati da Benny Morris nel suo libro “Vittime”2 e più di recente da Ari Shavit nel libro “La mia terra promessa”.3 Entrambi gli autori sostengono che, siccome non sarebbe esistito uno Stato ebraico senza quei crimini (un’affermazione dubbia e priva di prove), li si deve accettare come un male necessario. È un’argomentazione assolutoria che né i due autori né gli israeliani in generale sono disposti a concedere ai palestinesi, che ancora si battono per l’indipendenza e la sovranità del loro popolo.

Tra tutti i paesi democratici del mondo Israele è probabilmente l’unico che consente a un membro di un partito che fa parte della coalizione di governo di sostenere pubblicamente il genocidio, come ha fatto Ayelet Shaked, membro dell’Habayit Hayehudi (la Casa ebraica), senza per questo essere espulsa dal suo partito o dal Parlamento israeliano. Il vicepresidente della Knesset Moshe Feiglin, che è un membro del Likud, lo stesso partito di Netanyahu, predica la pulizia etnica della popolazione palestinese e conserva comunque le proprie cariche nel governo e nel partito. Si ha difficoltà a ritenere che Israele appartenga ancora alla cultura politica democratica occidentale. La pretesa di Netanyahu di essere sinceramente impegnato nella soluzione dei due Stati è stata smascherata dall’arbitrarietà e ostinazione con le quali conduce le trattative con Mahmoud Abbas. Negli ultimi mesi di continui tira e molla, Netanyahu ha trattato Abbas come un serio interlocutore, a condizione che questi fosse disposto a impegnarsi in un processo di pace che avesse l’unico scopo di offrire al suo governo una copertura alla continua espansione degli insediamenti israeliani, il cui obiettivo, a sua volta, è di impedire la soluzione dei due Stati. Quando l’inganno è diventato troppo evidente anche per interlocutori compiacenti come Abbas e i suoi collaboratori, che avevano fornito forze di sicurezza palestinesi per facilitare la continuazione dell’occupazione da parte di Israele, questi hanno formato un governo unitario con Hamas. Abbas è stato immediatamente accusato da Netanyahu di non essere più un interlocutore affidabile e di avere preferito il terrorismo alle azioni di pace. Ora che Israele si trova davanti a un’ondata crescente di indignazione in tutto il mondo (che però non è ancora arrivata al culmine), una volta venuta alla luce la reale portata delle uccisioni e delle devastazioni compiute dalle forze israeliane a Gaza, Netanyahu ricorre nuovamente all’espediente di definire Abbas un interlocutore del quale ci si può fidare, per sfruttarlo come guardiano del carcere nel quale sono sepolte, vive o morte, le vittime dell’ultima “potatura”.

Alcuni osservatori ritengono che il prosieguo dei negoziati per una tregua a Gaza potrebbe condurre a colloqui di pace che portino a un accordo sui due Stati. Un’apertura per un accordo del genere è l’ultima cosa che ha in mente Netanyahu, che ha dedicato tutta la sua vita politica a impedirlo e probabilmente crede di avere raggiunto tale obiettivo con questa ultima guerra a Gaza.

La sua visione del futuro non è molto diversa da quella di Naftali Bennett, il capo del partito ultranazionalista religioso Habayit Hayehudi. Costui conta sulla frustrazione dei palestinesi e della comunità internazionale, che ormai disperano di poter mettere in atto la soluzione dei due Stati, per permettere a Israele di procedere con misure unilaterali volte a creare delle enclave palestinesi scollegate tra loro e ad annettere a Israele gran parte della Cisgiordania. Secondo Bennet, tale soluzione permetterebbe a Israele di sottrarsi alla vergogna dell’apartheid, concedendo “piena cittadinanza” nominale ai pochi palestinesi rimasti nelle aree annesse a Israele.

Nel suo incontro con il presidente Obama alla Casa Bianca del 1° ottobre scorso Netanyahu ha sollevato quella che il “New York Times” in un resoconto dei colloqui ha definito “l’allettante prospettiva” di una nuova alleanza araba che comprenda Israele e che potrebbe resuscitare i moribondi colloqui di pace con i palestinesi. In realtà, non c’è nulla di “allettante” nell’idea di Netanyahu; “grottesco” sarebbe l’aggettivo più giusto. È del tutto coerente con gli infiniti inganni di Netanyahu, destinati ad assicurargli una copertura e il tempo necessario per completare la sottomissione dei palestinesi, la privazione dei loro diritti e la spoliazione delle loro terre.

Ciò che sconforta è la sorprendente mancanza di reazioni adeguate da parte dei leader mondiali a questi inganni e alla sua ultima idea “allettante”. Nessuno di loro gli ha detto che, dato che Abbas e l’OLP non hanno confiscato nemmeno un centimetro quadrato di territorio israeliano a est della linea pre-1967, il principale ostacolo a un accordo di pace è rappresentato dalle confische illegali di Israele e dall’annessione di territori palestinesi a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Un’inversione della linea politica distruttiva di Israele può venire solo dal governo israeliano e non da una coalizione di paesi arabi. I leader occidentali devono trovare il coraggio di dirgli finalmente in modo chiaro e poco diplomatico che la sua ultima mossa è in realtà un inganno e che questo non sarà più tollerato.4


[1] D. Horovitz, Netanyahu Finally Speaks His Mind, in “The Times of Israel”, 13 luglio 2014, disponibile su www.timesofisrael.com/netanyahu-finally-speaks-his-mind/

[2] B. Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Rizzoli, Milano 2001.

[3] A. Shavit, La mia terra promessa. Israele: la storia e le contraddizioni di un paese in guerra per la sopravvivenza, Sperling & Kupfer, Milano 2014.

[4] Questo articolo riprende e amplia H. Siegman, Gaza and the Palestinian Struggle for Statehood, NOREF Expert Analysis, agosto 2014.

 

 

 

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