Storie d’Italia, patrimonio d’Italia

Di Mimmo Gangemi Martedì 19 Luglio 2011 11:11 Stampa
Storie d’Italia, patrimonio d’Italia Foto: Claudio Vandi

«Terra ingrata. Non ci cresce la gramigna. Il Padreterno l’ha mandata di corpo, quella pietraia» sprezzava mio nonno, che tutto rapportava alle rigogliose campagne dell’Aspromonte tirrenico. | di Mimmo Gangemi per la rubrica "Rivisitare l’Italia nei suoi 150 anni".


«Terra ingrata. Non ci cresce la gramigna. Il Padreterno l’ha mandata di corpo, quella pietraia» sprezzava mio nonno, che tutto rapportava alle rigogliose campagne dell’Aspromonte tirrenico. Si riferiva al Carso, dove aveva combattuto, e vinto, avendo riportato indietro la vita. Da lì percorreva ricordi che ne facevano affiorare altri a catena: i commilitoni, le trincee, i campi di battaglia seminati a sangue e dove il terreno partoriva cavalli di Frisia, rotoli di filo spinato, granate e bombarde, e i posti visti, Aquileia, il fiume Isonzo delle dodici battaglie, il Piave, Trento, Gorizia. «Noi l’abbiamo completata, la patria» chiudeva, battendosi sul petto come nel mea culpa. Poi gli occhi gli scendevano sulle mani. E lì si colmava l’animo di due orgogli: il primo, quasi che l’Italia l’avesse plasmata lui dalla creta, da solo, il secondo, per la vista dei calli induriti da un lavoro in un fondo di proprietà e non sotto gli ordini carognosi di un padrone innestato sul selvatico, come toccava ai più.

L’altra guerra, la seconda mondiale, non entrava nei discorsi. Né mio padre né i miei zii, che se l’erano sparata tutta, ne parlavano mai, era troppo fresca e ancora gravava addosso molto più di quanto gravi un qualunque ricordo infelice. Affiorava soltanto la battaglia tra italiani e canadesi avvenuta allo Zillastro, a ridosso del Crocefisso ferito di piombo nel costato e che decenni dopo raccolse le lacrime di mamma Casella. Affiorava perché si trattò di un tragico destino, con morti inutili, l’8 settembre del ‘43 ad armistizio avvenuto, e già noto al comandante nemico.

Erano racconti delle sere d’inverno, al caldo dei carboni ardenti sottomessi alla cenere per allungarne la durata. Mi popolano ancora la mente, nitide e presenti, certe istantanee di un attimo, ingiallite dal tempo. Mio nonno è l’uomo in primo piano, la faccia imbrunita dal sole e solcata da mille grinze che il sorriso affonda, due denti d’oro che gli luccicano le parole, la testa che gli cede al sonno e che lui impenna di scatto in su, assieme a una russata. Sta seduto attorno alla ruota con il braciere. Tiene i piedi, con le calzette rustiche ricavate dalla pasta del giunco filata, sul bordo del rame accaldato. Ha in mano il misurino – un bicchiere poco più grande di quelli per il rosolio – contenente la giusta quantità di vino da calarsi d’un fiato. Appare vecchio – da potersi ingoiare da un momento all’altro l’ultimo respiro, senza più restituirlo – ai miei occhi di bimbo che si arrabatta con le aste sul quaderno di prima elementare, a scuola sotto lo sguardo minaccioso del maestro, e la verga sui dorsi delle mani al minimo indizio di una mancanza, a casa sotto quello straripante d’orgoglio della nonna, che si ostina a riconoscere un brillante futuro d’istruzione, «giudice, tu, o professorone dei malati», per la perizia con cui inchiostro il pennino e traccio intere pagine di quelle linee. Non è davvero vecchio, il nonno – sono troppo piccolo io, è l’inganno delle proporzioni. O almeno non lo è tanto da non essere ancora lui a decidere nella sua stanchezza il tempo che pure i figli la avvertano e cedano il lavoro nei campi, a decidere a cosa seminare le terrazze dell’orto o se lasciarle riposare per una stagione, se è il momento di impalare i fagioli, se gli ulivi occorrono di una potatura.

Fuori imperversa la levantina, acqua e vento assieme, da diluvio universale, e da pianti dentro le case degli infimi gironi del borgo, per paura che la natura dispettosa trascini via le olive e porti una fame da dover saziare con le radici e la borragine. Sotto le folate del levante la pioggia sciama di qua e di là, gli ulivi si piegano con un fruscio sofferente, rami se ne sciancano con rumore di mitraglia. I legni delle finestre a ogni scossone lamentano contorti gemiti. E lasciano che gelidi spifferi s’insinuino a far nebbia dei fiati. Dal cataratto – la botola in legno che nasconde la ripida scala attraverso cui si scende al piano sottostante – arriva fin su lo scalpitio dei muli innervositi dal maltempo, e un fetore di stalla che guasta appena l’odore del cucinato, i soliti fagioli lasciati consumare a fuoco lento sulla cucina a legna e a cui abbiamo tanta abitudine da non farsi meraviglia se dovesse germogliarci una piantina nello stomaco.

Dalla guerra i ricordi passavano alla vita da emigrante. Perché appartenevano a un unico destino, s’erano intrecciati da non riuscire a districarli, per il nonno che s’affrettò a tornare dalla Merica e da Novaiorca, come mai smise di annomarle, appena si diffuse la voce, poi risultata infondata, che chi non lo avesse fatto per accorrere al richiamo della patria non avrebbe più potuto. A Ellis Island, l’isola delle lacrime dirimpetto a Manhattan e alla Statua della Libertà, era giunto agli inizi del secolo scorso, ammassato nella terza classe di un piroscafo negriero che non dimenticò di esserlo stato nemmeno durante quella traversata del mare Oceano – così lo chiamavano i disperati della stiva, con un accattivante rispetto, forse per ammansirlo – ché un carico di schiavi portava, i “non visibilmente negri” del disprezzo mericano. Con gli occhi all’acqua che si lasciavano dietro e a quella linea diritta di un orizzonte su cui si esauriva il cielo, già sconfiggevano le incertezze e sognavano il momento del ritorno, quando, raggiunto l’obiettivo prefissato, avrebbero percorso mare all’incontrario. Centoventi lire gli era costato il viaggio, rivelò tentennando amara la testa. Centoventi lire erano state due stagioni da maledirne il ricordo, a disboscare in montagna e a trascinare i tronchi con una pariglia di buoi. Per lui, quattordici anni nella Mulberry Street di Little Italy, bordante in una lurida stanza dove le pulci si portavano a spasso le coperte e l’aria se la mangiavano i fetori che loro stessi portavano dalla dura fatica. Aveva raggranellato quanto gli era bastato per comprare un fondo ulivetato. E non s’era più dovuto allineare in piazza tra gli sventurati in attesa di una pacca sulla spalla – caritatevole di un cuore peloso – che concedeva la giornata, tredici miseri soldi di cui dover anche mostrare plateale gratitudine ai pochi che possedevano la fame dei più, l’emigrazione, la sopravvivenza.

«L’ho buggerato il destino» diceva, ridendo, alla fine di quei gravosi racconti. Era vero. Gli era riuscito di deviare una rotta già tracciata, un futuro con nulla di diverso da quello delle precedenti generazioni della famiglia – proprietario di sole braccia da offrire al bisogno, come già suo padre, suo nonno e su a salire, fino a Adamo ed Eva. Aveva mutato l’immutabilità, dato uno scossone a un tempo altrove più veloce.

Solo da adulto ho colto che c’era l’Italia, orgoglio di appartenenza, nelle parole di mio nonno mentre si rivedeva all’attacco delle trincee nemiche, con il coraggio spuntato alla bottiglia di grappa nei lunghi sorsi muso contro muso, il 91 innestato di baionetta, il capo chino in avanti a offrire il bersaglio dell’elmetto – momenti terribili che raccontava velandosi di malinconia, ma solo perché migliori erano allora i suoi giorni d’immortale gioventù. C’era l’Italia mentre rinverdiva anni lontani mezzo secolo e un intero oceano, anni segnati dai patimenti e dal disprezzo riservato ai “dago” – la storpiatura di they go, inteso come “loro se ne vanno, se ne devono andare”. C’era l’Italia nella soddisfazione appena scoprì che le rimesse degli emigrati, i sacrifici suoi e degli altri, erano anche serviti a pareggiare il bilancio di dare e avere di moneta estera della nazione.

Non così il suo, di nonno, che entrava nei racconti del “mio” quando l’Italia tradiva, sotto forma di una tassa inaspettata, di un obbligo che scombussolava gli equilibri faticosamente raggiunti, di una novità che stravolgeva la piatta e rassicurante ordinarietà, sotto forma anche di un’annata olearia andata male, perché con qualcuno bisognava pure prendersela per scontare la rabbia – in questi frangenti, più, fuori, impazzava la levantina, più, dentro, impazzava il nonno.

«Eh, legge Pica!» inveiva con gli occhi rivolti al cielo. Tradiva, l’Italia, e però restava patria, ingrata, tiranna, ma patria.

Quel nonno più antico era stato garibaldino. Di quelli raccolti al passaggio. Per una fede dettata dalla promessa che i volontari si sarebbero spartiti le terre dei nobili e dei proprietari rimasti fedeli al re Borbone e altre da espropriare alla Chiesa. Non era stato così: lui, il suo impegno, ce lo aveva messo intero, scannava i resistenti borbonici con gusto di scannarli e strizzava un occhio compiaciuto alla camicia rossa più vicina; quelli, il loro, lo avevano disatteso, deridendolo appena aveva chiesto il pattuito.

Vizio dei Savoia: in seguito capitò pure ai reduci della Grande guerra di non veder mantenuta l’uguale promessa che li restituì alla trincea all’indomani di Caporetto. Al ritorno in Aspromonte, s’era arruolato brigante in una banda composta da soldati del disciolto esercito di Franceschiello e da tranquilli tagliagola senza patria e senz’anima. Due anni aveva imperversato, un ghigno di soddisfatta rivalsa mentre sgozzava l’unico piemontese che gli era capitato a portata di coltello, di nuda rabbia appena era stato catturato. Lo avevano fucilato sul posto, manco il tempo per un segno di Croce. E gli era stata mozzata la testa, poi affissa su un palo e piantata per monito nella piazza del paese. Il resto lo avevano lasciato all’acqua e al vento, per gli animali del bosco.

Stessa sorte toccò l’anno seguente al brigante Tato, un capo, lui. Nei delitti più efferati sempre si vociferava il suo nome. Ebbe parte anche nel fattaccio in Aspromonte. Quel giorno il vento passava con uno stridio metallico sulle cime dei pini, talmente alti che le punte perforavano il cielo, e talmente grossi che, per cingerne il tronco, non bastavano le braccia a catena di tre ragazzi – oggi Giasone, l’unico ad aver scalato il più imponente, assicura che da lassù si colgono con un unico colpo d’occhio il mare Ionio e il mare Tirreno e che l’orizzonte va oltre l’ostacolo della Sicilia e delle isole Eolie; però Giasone è solito spararle grosse, più il tempo che è imbalsamato di vino da non trovare la via di casa. I vecchi dicono che lì non manca mai il vento, il sussurro del vento, l’unico a conoscere la verità di quel 29 agosto 1862. I vecchi dicono che dentro le sue folate si riescono a distinguere gli echi della battaglia, e il ghigno sgangherato di Tato, tronfio della vendetta. Perché il vento, quel vento, tra i suoi sbuffi sussurra che non spetta al tenente bersagliere Luigi Ferrari il “merito” di aver ferito Garibaldi, ma a Tato. Sussurra che questi, nascosto con i suoi uomini nel bosco, sparò su quell’uomo, su cui nessuno osava una pallottola, troppo pieno di sé, troppo spavaldo, troppo sprezzante del pericolo. E da punire al posto dei piemontesi che, due anni prima, non avevano mantenuto la promessa della terra ai volontari come lui. Da punire per non aver tenuto a freno, in quei giorni, alcune camicie rosse colpevoli di una razzia di bestie, ancora sopportabile, e di un tentativo di violenza su delle donne, da non poter perdonare, in un paese vicino.

È da centocinquant’anni che questo ci soffia il vento: fantasticherie o verità, o un miscuglio di entrambe, di cui erano colme le case, e gli stretti vicoli dove gli asini, con i cofani caracollanti e carichi di una miseria da celare sotto le felci, dovevano darsi il passo. Sono salito incuriosito fin lassù. E ho teso le orecchie: nulla, se non la strisciante e irriverente risata del vento.

Sono storie d’Italia conservate in un sano mondo contadino, impregnate dell’odore della terra appena rivoltata dall’aratro, di muschio, delle erbe di primavera, del lezzo della morga dei frantoi. Ce le siamo passate in quell’estremo lembo a sud che le diede il nome – Italia era chiamato il territorio abitato dai Bruzi, dalla linea ideale tra le pance dei golfi di Sant’Eufemia e di Squillace fin dove il continente tondeggia e si consegna alle acque tormentate da Scilla e Cariddi. Sono storie d’Italia patrimonio di tutti: del mio trisavolo e di Tato, distanti i centocinquant’anni dell’unità e che avrebbero voluto rimanere con Garibaldi e non sotto i piemontesi, di mio nonno, di mastro Ciccio, uno dei ragazzi del ’99, cui riuscì di respirare l’aria di tre secoli, dei tanti uomini con il nome graffiato su un monumento, di noi che percorriamo strade rese più agevoli dai sacrifici lontani, dal sudore e dal sangue.

Patrimonio anche di chi oggi la rinnega, sproloquia di secessione, disprezza l’inno di Mameli, rifiuta Roma, rifiuta il giuramento di fedeltà alla Costituzione. Patrimonio anche di chi vorrebbe un’altra bandiera, e offende così la memoria, rende vani i tanti morti occorsi alla patria per racchiudersi nei confini che le assegnarono la natura e la storia.

Mi sono addormentato a fatica, disturbato da questi pensieri. E hanno invaso i miei sogni due teste mozzate. Entrambe infisse in un palo piantato in terra, nella piazza del paesino dove sono nato. Colano ancora sangue, ciocche di capelli ne sono imbrattate. Gli occhi immobili e spalancati sul mondo, i visi illividiti, e spaventevoli come nei macabri dettagli che infilava il nonno nel racconto. So che si tratta di Tato e del mio antenato. Ma non ho certezza su chi sia l’uno e chi l’altro. All’improvviso, le teste prendono vita: oscillano lente su e giù, allargano amaro un sorriso, infuriano lo sguardo. Mi avvedo del nonno, sta là, in piedi accanto alle due teste, fa per dire qualcosa – in bocca gli si scorgono brillare i due denti d’oro che sul letto di morte nessuno ha trovato il coraggio di togliergli –, se ne pente, si trattiene pensieroso, il labbro di sotto addosso a quello di sopra. Eh sì, tutt’e tre dissentono al pari di me.

 

 


Foto di Claudio Vandi
Acquista la rivista

Abbonati alla rivista