Solidarietà per la Grecia

Di Ronny Mazzocchi Lunedì 09 Luglio 2012 16:27 Stampa

La drammatica situazione greca, dovuta in parte all’irresponsabilità della sua classe politica ma imputabile anche alle deficienze della costruzione europea così come portata avanti finora, diventa ogni giorno più grave e rischia di sfociare nell’abbandono dell’euro da parte di Atene. Per salvare la Grecia e, di conseguenza, l’intero progetto europeo, bisognerebbe non solo porre fine all’umiliazione politica ed economica di un intero popolo per recuperare gli storici valori europei della fratellanza e della solidarietà, ma, finalmente e definitivamente, rigettare quella forma di “populismo liberista” fondato sullo stereotipo che vede il cittadino medio dell’Europa meridionale come pigro e irresponsabile a fronte di quelli dei paesi del Nord, seri e laboriosi.


«La tragedia ha un occhio per tutti» scriveva il celebre poeta inglese Geoffrey Hill. Una verità che oggi, in Grecia, non potrebbe essere più evidente. I devastanti effetti sulla popolazione di due anni di politiche di austerity ci ricordano che la storia non è un’ascesa inarrestabile verso il progresso e che le civiltà possono anche tornare rapidamente indietro verso i secoli bui.

Da Atene ogni giorno ci arrivano notizie sempre più sconvolgenti: quelle che un tempo erano le orgogliose famiglie della classe media, lontane anni luce dall’indigenza e, anzi, fiere di un benessere faticosamente conquistato, oggi fanno la fila per un tozzo di pane al supermercato. Negli ospedali ci sono malati in agonia perché il governo non ha più i soldi per pagare i farmaci contro il cancro. Il prezzo della benzina è raddoppiato, un terzo delle imprese commerciali è fallito e un altro terzo non è più in grado di pagare gli stipendi ai propri dipendenti. Le pensioni vengono tagliate, le condizioni di vita precipitano, la disoccupazione – soprattutto quella giovanile – cresce inesorabilmente, e il tasso di suicidi, che fino a poco tempo fa era il più basso dell’intera Unione europea, oggi è diventato il più alto. Ogni giorno che passa osserviamo una intera nazione subire una devastante umiliazione politica ed economica, senza che si presenti una soluzione concretamente praticabile che rispetti gli storici valori europei della fratellanza e della solidarietà fra popoli. Al contrario, l’Europa si presenta sempre più spaccata in due: da un lato, le società con i valori “giusti” – ovvero quelle del Nord – e, dall’altro, quelle con i valori “sbagliati” – ovvero quelle del Sud.

Da molto tempo ormai si è costruito uno stereotipo che vede il cittadino medio dell’Europa meridionale come pigro e irresponsabile, così come lo sarebbero anche – e soprattutto – i governi dell’Italia, della Spagna, del Portogallo e, ovviamente, della Grecia. Questi inguaribili vizi nazionali sarebbero alla base della crisi che ha travolto l’intera costruzione europea. In questo modo, quando si cerca di spiegare le origini delle difficoltà della zona euro, l’immagine del cittadino dell’Europa meridionale sdraiato al sole è diventata una sorta di automatismo cerebrale per le popolazioni del centro e Nord Europa. Ci eravamo illusi che l’arroganza di trattare un popolo intero come se fosse composto soltanto da truffatori e scansafatiche fosse sparita insieme al nazionalismo e, invece, oggi assistiamo al ritorno di questa mentalità, sostenuta addirittura da prove presentate come ragionevoli. Poco importa che i più recenti database dell’OCSE abbiano mostrato che i cittadini greci lavorano in media più ore all’anno di altri europei,1 compresi i tedeschi, o che l’Organizzazione internazionale del lavoro abbia smentito la vulgata che vuole il settore pubblico greco troppo sviluppato.2 La supposta razionalità dei meccanismi finanziari – ormai difficile da difendere anche per il più convinto liberista – ha purtroppo lasciato il posto all’atavica tendenza a trasformare il particolare in generale.

Quanto all’irresponsabilità della classe politica, che la Grecia non abbia mai brillato per trasparenza e disciplina di bilancio è cosa nota. Tutti sanno che, dopo il rocambolesco ingresso nell’Unione monetaria, ottenuto grazie a pesanti manipolazioni dei dati statistici sulle finanze pubbliche, dall’inizio del decennio scorso in poi nessuno dei governi in carica ha mai rispettato i limiti imposti al deficit pubblico dal Patto di stabilità. Ma la rapida espansione del credito privato e dei consumi e il conseguente emergere di un grave squilibrio di bilancia dei pagamenti – ormai identificato da quasi tutti gli economisti come una delle cause scatenanti  dell’attuale situazione3 – sono elementi difficilmente imputabili alla sola classe politica greca. Il fatto che questi problemi macroeconomici siano comuni a quasi tutti i paesi della periferia europea, compresi quelli che per oltre un decennio sono stati additati dalle stesse istituzioni comunitarie come esempio di diligenza e di buona gestione dell’economia, lascia infatti pensare che l’attuale situazione di crisi non sia dovuta all’irresponsabilità dei singoli governi nazionali, ma derivi piuttosto dalle deficienze di una costruzione europea che, sin dall’inizio, ha subìto pesanti critiche, rimaste purtroppo quasi sempre inascoltate.4

L’Europa si è finora scaricata la coscienza ribadendo fino alla noia che l’UE e il Fondo monetario internazionale hanno prestato complessivamente ad Atene 240 miliardi di euro, cui vanno aggiunti almeno 50 miliardi di titoli pubblici acquistati sul mercato secondario dalla BCE. Ma come dimenticare l’insipienza con cui è stata gestita, dall’origine fino alle vicende degli ultimi mesi, la crisi greca? Presa per tempo, tutta la questione si sarebbe risolta in pochi giorni e senza strascichi. Il debito totale greco pesava sul PIL europeo per un misero 3% e la somma inizialmente necessaria per mettere in sicurezza la Grecia sarebbe stata di soli 40 miliardi di euro, un ventesimo di quanto è costato agli Stati Uniti il piano Paulson per il salvataggio degli istituti finanziari privati e molto meno di quanto è stato stanziato dai governi europei per singole operazioni come Fortis, Deutsche Bank, Royal Bank of Scotland.5 Invece, per mesi si è preferito temporeggiare, osservando il corso degli eventi, in una lunga e imbarazzante sequela di dichiarazioni e marce indietro, dimenticandosi che, fra le varie opzioni sul campo, quella di non fare nulla era sicuramente la peggiore. E, quando finalmente si è deciso di intervenire, si è imposta ad Atene una cura da cavallo che, invece di guarire il paziente, ha aggravato la malattia fino a renderla apparentemente incurabile.

Oggi che sul piatto restano i risultati disastrosi di due anni di austerity, non sono pochi quelli che invitano la Grecia a finirla con questa inutile autoflagellazione e le suggeriscono di abbandonare la moneta unica. Ma, comunque la si veda, si tratta di una scelta scellerata, sia per i greci che per gli altri popoli che vivono nei paesi dell’eurozona. Le condizioni di vita dei greci peggiorerebbero ulteriormente rispetto alle drammatiche situazioni attuali e i partiti estremisti – già piuttosto forti nelle ultime due tornate elettorali – consoliderebbero ancor di più le loro posizioni. Anche se formalmente la Grecia farebbe ancora parte dell’UE, il ritorno alla dracma comprometterebbe tutte le politiche su cui si basa l’appartenenza al mercato unico. Il rischio di un effetto domino, con la Spagna, il Portogallo e l’Italia nel mirino della speculazione, sarebbe un autentico incubo, capace di trascinare nel baratro l’intero continente.

Non bisogna inoltre sottovalutare le conseguenze che una fuoriuscita di Atene dall’euro avrebbe sul piano geopolitico: proprio nel momento in cui l’UE sta cercando di attirare nella sua sfera di influenza i Balcani e si prepara, dopo un lunghissimo e tormentato periodo di turbolenze, all’adesione della Croazia, l’uscita della Grecia dall’eurozona potrebbe aprire un nuovo fronte di instabilità in una regione già notoriamente difficile da gestire. Con la Turchia che sta separando sempre più i propri destini da quello dell’Unione europea e con gli Stati Uniti che, complice la crisi, stanno perdendo molta della loro influenza sull’area mediterranea, l’allontanamento di Atene dall’Europa non solo trasformerebbe questo paese in un epicentro di scontri di interesse fra vecchie potenze – inglesi, tedeschi, francesi e americani –, ma spalancherebbe anche la porta a Russia e Cina, che da tempo sono interessate a ricostruire le loro antiche zone di influenza e sono alla ricerca di nuove reti economiche e politiche.

Un’evoluzione di questo tipo, al di là delle conseguenze per la stabilità regionale, rappresenterebbe un pesante smacco per il prestigio europeo. L’Europa, che ancora oggi si considera un modello di riferimento e un fattore di pacificazione per le sue periferie, si vedrebbe costretta a confessare la propria incapacità di europeizzare uno Stato che da oltre trent’anni è membro dell’Unione e che per di più è considerato la “culla della democrazia” occidentale. Se l’abbandono dell’euro da parte di Atene non è quindi auspicabile, è altrettanto chiaro che la strada fin qui seguita non può costituire una via d’uscita praticabile nel prossimo futuro. Attuare una ulteriore svalutazione interna comprimendo prezzi e salari rischierebbe di produrre più effetti nefasti che benefici, abbattendo la già debole dinamica della domanda interna e avvitando l’intera economia in una spirale recessiva sempre più profonda. Nonostante l’assurdità di queste ricette diventi di giorno in giorno più palese, le critiche faticano ancora a emergere come alternativa. Qualunque forma di opposizione alle politiche di austerità, anche la più moderata e costruttiva, viene classificata come “populismo”. Eppure, osservando l’ostinazione con cui si contrappongono le masse virtuose a una minoranza sciatta e incapace, sono proprio le ricette neoliberiste ad apparire sempre più chiaramente populistiche. Come interpretare altrimenti i continui tentativi di istigare l’odio nei confronti delle élite statali elleniche e dei “privilegiati” del sistema assistenziale e sociale mediterraneo, ai quali viene contrapposta la grande massa dei contribuenti tedeschi, austeri e laboriosi? Questa curiosa forma di “populismo liberista” identifica e demonizza i cittadini di alcuni paesi membri, convogliando contro di loro lo sdegno delle masse dei paesi ricchi, per evitare che esse si pongano la questione della legittimità popolare delle sue dure e sempre più inefficaci politiche economiche.

Solitamente, qualunque persona priva di mezzi e in grave difficoltà suscita la compassione degli altri. Il populismo liberista è invece riuscito nel compito apparentemente impossibile di eliminare questo sentimento, facendo emergere un combinato di rabbia e rivolta che travalica la naturale contrapposizione fra poveri e ricchi per strumentalizzare le più profonde inclinazioni umane e piegarle alle esigenze dettate dalle regole del mercato.

È chiaro che non può essere questa l’Europa del XXI secolo, capace di uscire dalle secche di una crisi che rischia di distruggere tutte le istituzioni faticosamente costruite nella seconda metà del Novecento. La Grecia avrebbe bisogno di una rinnovata solidarietà europea in grado di proporre un programma di sviluppo anziché un’infinita alternanza di fondi di salvataggio e di politiche di rigore. Solo in questo modo per Atene si aprirebbe la possibilità – fra dieci o quindici anni – di muoversi autonomamente e riconquistare il proprio ruolo all’interno dell’Unione. Ma è chiaro che il problema preliminare da risolvere sarà quello di capire come “vendere” un messaggio sofisticato e difficile come quello che le forze progressiste stanno mettendo in campo a un popolo europeo che – tranne alcune onorevoli eccezioni – sembra, purtroppo, ancora troppo disposto a “comprare” bidoni sia dal populismo nazionalista che da quello neoliberista

 


 

[1] Si veda in particolare qui.

[2] International Labour Organization, Crisis: Causes, Prospects and Alternatives, in “International Journal of Labour Research”, 1/2011.

[3] R. Cabral, The PIGS’ External Debt Problem, 8 maggio 2010, disponibile qui.

[4] P. De Grauwe, Economics of Monetary Integration, Oxford University Press, Oxford 1992.

[5] Come ha certifi cato la Commissione europea, la Germania ha accantonato risorse di pronto intervento a sostegno del sistema bancario che ammontano al 24,3% del PIL, di cui a giugno del 2010 più della metà erano già state utilizzate.

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