Interessi e valori: l'Occidente di fronte all'islamismo politico

Di Vittorio Emanuele Parsi Martedì 03 Settembre 2013 14:40 Stampa

La destituzione del presidente egiziano Morsi mette ancora una volta in crisi il tentativo, compiuto a più riprese dai governi occidentali, di sdoganare l’islamismo politico moderato e di avallare la tesi della plausibilità delle relazioni tra islamismo e democrazia. Tentativo condotto non sulla base di una riflessione di carattere teorico, ma dettato essenzialmente dalla necessità di trovare praticabili exit strategies politiche all’interventismo occidentale in Medio Oriente riacutizzatosi dopo la fi ne della guerra fredda.


EXIT STRATEGIES

Il pronunciamento militare con cui il 2 luglio scorso è stato destituito il presidente egiziano Mohamed Morsi ha riproposto alle democrazie occidentali, sia pure in forma diversa e almeno per ora meno drammatica, lo stesso dilemma di fronte al quale esse si trovarono in occasione del colpo di Stato attuato dall’esercito algerino tra il primo e il secondo turno delle elezioni politiche nel dicembre 1991. La decisione di impedire il completamento della tornata elettorale, che il Fronte Islamico di Salvezza Nazionale (FIS) avrebbe molto probabilmente stravinto, venne tacitamente appoggiata dai governi occidentali, nella convinzione che un successo islamista (sia pure ottenuto tramite elezioni sostanzialmente libere e corrette) avrebbe significato la deriva dell’Algeria “laica e socialista” verso un destino oscuro e oscurantista e, soprattutto, avrebbe messo a repentaglio gli imponenti e vitali contratti di fornitura di idrocarburi stipulati con il regime. Ne seguì una guerra civile lunga e spietata, una “guerra sporca” condotta ricorrendo, da una parte e dall’altra, alla più efferata barbarie e all’impiego sistematico del terrore.

Lo stesso riflesso condizionato lo abbiamo visto all’opera nel caso delle prime elezioni tenute sotto monitoraggio internazionale nella Striscia di Gaza nel gennaio 2006: la vittoria di Hamas – originariamente una costola palestinese della Fratellanza Musulmana egiziana – venne formalmente riconosciuta dall’Occidente, ma le sue conseguenze politiche furono “sospese”, fintantoché il movimento palestinese non avesse cancellato dal suo Statuto l’obiettivo della liberazione dell’intera Palestina dall’occupazione israeliana e la prassi della lotta armata. È appena il caso di rammentare che la condizione della rinuncia alla lotta armata non venne, invece, imposta come prerequisito all’IRA in occasione dei contatti con le autorità britanniche che portarono agli storici Accordi di Pasqua (nella primavera del 1998), i quali posero fi ne alla pluridecennale violenza endemica nell’Ulster.

Se nel caso di Gaza la querelle arabo-israeliana fu dirimente nel determinare l’atteggiamento occidentale, va però sottolineato che il dibattito che ne seguì reintrodusse la questione dell’incompatibilità tra islamismo politico e corretto funzionamento della democrazia. In realtà, appena poche settimane prima, nel dicembre 2005, la posizione occidentale aveva subito un’evidente modifica nel vicino Iraq, quando le principali formazioni politiche uscite vittoriose dalle prime elezioni successive all’invasione americana del 2003 erano tutte connotate in termini settari (sciiti, sunniti, curdi) e, tranne i curdi, non facevano mistero di perseguire una linea orientata a forme più o meno “moderate” di islamismo politico. In fondo, tanto in Iraq quanto, soprattutto, in Afghanistan proprio gli Stati Uniti si erano dovuti rassegnare per primi all’idea che l’esito del loro intervento esterno sui sistemi politici di quei paesi – e l’introduzione di competizioni elettorali comunque meno farsesche di quelle che le avevano precedute – avesse preparato la strada al successo degli islamisti, oltretutto già implicitamente riconosciuto con il mantenimento o con la collocazione della shari‘a tra le fonti del diritto nei nuovi impianti costituzionali. Quel che qui mi preme immediatamente sottolineare, quindi, è che il mutato atteggiamento occidentale verso l’islamismo politico e la sua compatibilità con le istituzioni e le prassi democratiche non è dipeso principalmente da una riflessione di carattere “teorico”, ma dalla necessità: soprattutto dalla necessità e urgenza di trovare exit strategies politi-che all’interventismo occidentale in Medio Oriente riacutizzatosi dopo la fine della guerra fredda, quando il sistema regionale mediorientale, non più compresso dalla dinamica bipolare sovietico-americana, iniziò letteralmente a implodere. È in nome della nostra utilità e dei nostri interessi – e non in nome dei nostri valori – che abbiamo prima contestato ogni plausibilità della relazione tra Islam e democrazia e poi mutato radicalmente opinione.

 

LE CONSEGUENZE DEL MAGGIOR COINVOLGIMENTO AMERICANO IN MEDIO ORIENTE

Nel 2002, intanto, si era verificato un altro fatto nuovo che avrebbe influenzato lo slittamento delle posizioni occidentali sulla questione, ovvero la vittoria di Recep Tayyip Erdogan e del suo AKP alle elezioni politiche turche, una vittoria che sarebbe stata confermata e amplificata nelle tornate del 2007 e del 2011. Il caso dell’AKP sembrava consentire l’osservazione di un esperimento inedito: non solo l’impatto della vittoria di un partito islamista “moderato” su un sistema istituzionale laico e complessivamente liberale, fortemente integrato nella principale istituzione occidentale per la sicurezza (la NATO) e aspirante alla piena membership dell’Unione europea, ma anche il completamento dell’instaurazione democratica in Turchia, grazie alla sottomissione delle forze armate al pieno controllo politico delle autorità civili proprio a opera di un partito islamista. Le perfomance economiche della Turchia di Erdogan, la vibrante vitalità della società turca, che nella prima fase del potere dell’AKP beneficiò della fine della pluridecennale tutela dell’esercito, l’abile retorica del premier e la sua capacità di circondarsi di collaboratori assai persuasivi, e l’oggettivo perfezionamento della democrazia hanno in questi anni contribuito in maniera decisiva a far ritenere che la presenza al potere di un partito islamista “moderato” di per sé non implicasse una minaccia per la democrazia, né il venir meno dell’allineamento politicomilitare del paese rispetto all’Occidente o un atteggiamento pregiudizialmente ostile allo Stato di Israele. Significativamente, ma è un argomento che questioni di spazio non mi consentono qui di trattare in maniera più estesa, saranno proprio le posizioni assunte dalla Turchia sulla questione della cosiddetta “Freedom Flotilla” – la spedizione di simpatizzanti e attivisti filopalestinesi che voleva rompere simbolicamente il blocco ille-gale nei confronti di Gaza, dirottata sanguinosamente dalle forze speciali israeliane il 31 maggio 2010 – ben più che le posizioni turche riguardo all’invasione dell’Iraq o al nucleare iraniano a segnare il raffreddamento delle relazioni tra Ankara e le capitali occidentali.

È, però, l’accresciuto e più diretto coinvolgimento americano nelle vicende mediorientali a determinare il cambiamento netto dell’atteggiamento occidentale verso l’islamismo politico. Il tentativo di “tagliare l’erba sotto i piedi” al qaedismo e ai suoi emuli da un lato, la necessità di immaginare una transizione post autoritaria ordinata nei paesi arabi alleati degli Stati Uniti dall’altro, unita alla pressione che Washington deve sperimentare proprio a causa del suo protagonismo mediorientale, spingono le Amministrazioni americane a intraprendere una serie di azioni. Contemporaneamente, fanno sì che torni a crescere l’influenza saudita e qatariana al Dipartimento di Stato, “accreditando” così maggiore attenzione gli interlocutori politici sostenuti da questi due regimi. La capacità dimostrata da Riyad di trasformare il Consiglio di cooperazione del Golfo in un efficace strumento di egemonia politico-militare in chiave antiiraniana svolge un ruolo probabilmente decisivo a favore dei sauditi. Per il piccolo e ricco emirato, il peso del suo fondo sovrano e, soprattutto, la possibilità di giocare la carta strategica del suo network di comunicazione – Al Jazeera – risultano determinanti nell’ottenere la considerazione di Washington, che proprio nella “non ostilità” da parte della televisione dell’emirato vede un elemento cruciale per indirizzare le spinte al cambiamento manifestate da tutte le società arabe dopo il 2006.

ISLAMISMO POLITICO E JIHADISMO: DALL’EGITTO ALLA SIRIA

Ed è proprio l’Egitto il primo campo di sperimentazione della nuova politica americana nei confronti del mondo arabo. Il discorso del presidente Obama all’Università del Cairo, il 4 giugno 2009, e la sottolineatura della necessità di un “nuovo inizio” tra America e Islam, segue quello tenuto agli studenti di Istanbul il 7 aprile 2009. Al di là delle parole ispirate, l’Amministrazione Obama intensifica i contatti con gli esponenti della Fratellanza egiziana (anche negli Stati Uniti), mentre continua a intessere la propria relazione privilegiata con i militari. Si tratta di una politica del doppio binario che risulterà di fondamentale importanza quando, a partire dal dicembre 2010, in Tunisia prenderà avvio il fenomeno delle primavere arabe. Questi eventi colgono di sorpresa, nella loro rapida evoluzione più che nella genesi originaria, l’Amministrazione americana e le cancellerie occidentali e inizialmente sembrano alimentare l’ipotesi della compatibilità tra islamismo politico e instaurazione democratica: al punto di illudere molti osservatori (compreso lo stesso Tayyp Erdogan) che un’evoluzione “alla turca” sia una soluzione auspicabile e possibile. Un auspicio che la sanguinosa repressione delle manifestazioni pacifiche in piazza ad Ankara e Istanbul, tra maggio e giugno 2013, rivelerà prematuro, facendo semmai intravedere la prospettiva inquietante che possa essere Erdogan a seguire una deriva autoritaria simile a quella di Morsi.

Il processo che porta, tra il 25 gennaio e l’11 febbraio 2011, al crollo del regime di Hosni Mubarak, alla leadership provvisoria del feldmaresciallo Tantawi e, il 30 giugno 2012, all’insediamento del primo presidente espresso dai Fratelli Musulmani sembra – sia pur non senza incertezze – dare inizialmente ragione alla nuova strategia americana. Il presidente Morsi mantiene, infatti, la relazione privilegiata con gli Stati Uniti, rafforza i contatti con sauditi e qatariani e ribadisce la fedeltà del suo governo agli accordi di pace di Camp David. E questo è quanto basta all’Amministrazione Obama, che si mostra rassicurata dal rapporto apparentemente corretto (se non proprio cordiale) tra l’esercito e il presidente. Gli scontri tra infiltrati qaedisti provenienti dal Sinai e la polizia di confine egiziana e gli attentati agli oleodotti diretti in Giordania e verso Israele, se da un lato testimoniano di un calo preoccupante della sicurezza del paese, dall’altro sembrano confermare che l’islamismo politico rappresenta il nemico naturale del jihadismo e, pertanto, un perfetto alleato nella lotta al qaedismo e ai suoi imitatori: una tesi, questa, che le monarchie conservatrici del Golfo hanno evidentemente tutto l’interesse a sostenere.

Ed è proprio in occasione della degenerazione delle proteste antigovernative siriane in una vera e propria cruentissima guerra civile che assistiamo al perfetto capovolgimento delle originarie posizioni americane (e, più in generale, occidentali) sull’islamismo politico. A mano a mano che la guerra si radicalizza e si cronicizza, infatti, l’apertura di credito non solo verso i movimenti politici di ispirazione islamista, ma anche nei confronti delle loro milizie si fa sempre maggiore, portando tra la primavera e l’inizio dell’estate del 2013 alla decisione europea e americana di acconsentire al loro rifornimento di armi. Ancora una volta, l’assunzione di una simile postura non è il frutto di considerazioni riguardanti il concreto operare di movimenti e milizie o dell’analisi della loro piattaforma programmatica, ma semplicemente di valutazioni (errate) di carattere “geopolitico”, in cui la prospettiva della rimozione del regime degli Assad (vicino all’Iran, sostenuto dalla Russia e, oltretutto, ostile a una pace separata con Israele) fa premio persino sulla constatazione che la guerra civile siriana sta offrendo un nuovo teatro operativo e una nuova bandiera ideologica proprio a quel qaedismo che si sperava di mettere ai margini grazie all’islamismo politico “moderato”. Come se non bastasse, mentre si decide di armare formazioni perlomeno contigue ai jihadisti sunniti, dopo lunghe esitazioni – e per esplicita ammissione anche a seguito «dell’evidenza del coinvolgimento delle milizie di Hezbollah a fianco dell’esercito di Assad» – il 21 luglio i ministri degli Esteri dell’Unione europea accondiscendono alle pressioni americane e israeliane di inserire “l’ala militare” (sic) del movimento sciita libanese tra i gruppi terroristici, in tal modo contribuendo ad alimentare un’escalation, peraltro già in corso grazie alle azioni sconsiderate di Hezbollah e dei seguaci sunniti di Hariri, che potrebbe accelerare e approfondire il coinvolgimento del Libano nella crisi siriana.

 

IL 18 BRUMAIO DI AL SISSI

Ecco allora che il pronunciamento militare capeggiato dal generale Al Sissi che il 2 luglio ha portato alla rimozione e all’arresto di Morsi rompe questo “incanto” collettivo. Frutto delle pressioni del movimento dei Tamarod (“ribellione”), che rifiutano l’accentramento nelle mani del presidente Morsi di alcune prerogative tipiche del potere giudiziario e che contestano l’aumento della corruzione, la disastrosa e incompetente gestione economica, l’occupazione sistematica da parte della Fratellanza di ogni posizione di potere, centrale o periferica, e la crescente intolleranza nei confronti di quanti non intendono conformarsi al nuovo “puritanesimo ufficiale”, il colpo di Stato di Al Sissi sembra voler indirizzare la rivoluzione, piuttosto che fermarla. È il “18 brumaio” della rivoluzione egiziana, perché, esattamente come quello di Bonaparte nel lontano 1799, l’intervento di Al Sissi non ha alcun intento restaurativo del vecchio ordine, ma semmai è motivato dalla preoccupazione che il nuovo disordine possa mettere a rischio la sopravvivenza stessa del paese, trascinandolo nella spirale delle lotte settarie (pii contro laici): un rischio che evidentemente l’esercito non può tollerare, considerando come la genesi e le sorti della nazione e delle forze armate siano strettamente intrecciate fin dai tempi di Muhammad Ali. In termini più complessivi, si tratta di una nuova manifestazione della prevalenza delle spinte e tensioni endogene sui tentativi di condizionamento esogeno e internazionale, resa più importante dal monito offerto dal tragico spettacolo della Siria, devastata da una guerra civile nella quale il ruolo degli attori esterni (principalmente regionali, ma non solo) si fa ogni giorno più decisivo. Ancora una volta, i governi occidentali si ritrovano così alle prese con un evento imprevisto, che mette in crisi lo sdoganamento dell’islamismo politico “moderato”, deciso esclusivamente per continuare a tutelare i propri interessi (strategici ed energetici), ignorando i valori liberali e democratici che l’Occidente sbandiera sistematicamente a sostegno del liberal international order e fingendo di non sapere che la conquista del potere da parte degli islamisti non può che comportare il sacrificio di qualunque prospettiva di riconoscimento e tutela dei diritti individuali e di genere presso le popolazioni arabe.

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