Israele, il conflitto siriano e il mosaico mediorientale

Di Maria Grazia Enardu Martedì 03 Settembre 2013 14:41 Stampa

Le primavere arabe e le recenti elezioni presidenziali iraniane hanno profondamente alterato il panorama dei regimi mediorientali, mettendo in moto un lungo e complesso processo di cambiamento che, pur non coinvolgendo direttamente Israele, avrà effetti sullo Stato ebraico e sul Processo di pace. Vecchi amici di Israele sono stati spazzati via dalle manifestazioni di piazza, vecchi – ma affidabili – nemici rischiano la medesima sorte, ma dopo un drammatico bagno di sangue, mentre cambia anche l’approccio di Stati Uniti e Unione europea al conflitto israelo-palestinese, facendo venire meno alcune certezze del governo israeliano e riducendo la libertà di manovra di Netanyahu.


L’ASSETTO REGIONALE

La crisi siriana non è stata la prima a ristrutturare il mondo arabo e gli assetti di vecchi regimi, anzi è stata l’ultima, dopo Tunisia ed Egitto, Libia e Yemen, a introdurre nel mondo arabo e in Medio Oriente nuove dinamiche che Israele deve capire bene. Non è nemmeno la più preoccupante, anche se il disfacimento della Siria costituirebbe per Israele una situazione da allarme rosso.

Fino alla primavera 2013, il paese mediorientale che più inquietava il governo Netanyahu, che ne aveva fatto oggetto di forti dichiarazioni, era l’Iran in versione Ahmadinejad. L’elezione di Hassan Rouhani ha cambiato molto, se non tutto. Il nuovo presidente iraniano è un religioso ma lontano per cultura e temperamento da Ahmadinejad. Eleggendolo, il popolo iraniano, pur subendo mille costrizioni, ha dato un forte segnale: vuole lavoro, sviluppo e un po’ di libertà. Il nucleare è stato davvero l’ultimo dei pensieri degli elettori, e quindi non può più essere tema di primo piano nemmeno per Netanyahu, che infatti ha molto abbassato i toni, sia riguardo alla possibilità – mai archiviata – di un attacco israeliano sia al modo di risolvere la questione, che per gli occidentali richiede un insieme di pressioni, sanzioni, proposte. Ma l’Iran rimane comunque questione centrale a causa delle sue alleanze arabe: l’Iraq, la Siria di Assad, componenti del Libano come Hezbollah. Netanyahu non intende abbandonare il tema Iran, così legato al suo profilo politico e usato soprattutto per evitare altri argomenti o per coprirsi in politica interna. Semmai gli mancheranno le dichiarazioni negazioniste di Ahmadinejad, così rombanti e quindi utili.

La crisi, divenuta poi guerra, siriana, è ormai al suo terzo anno e appare chiaro che non si concluderà presto e che causerà ancora vittime e distruzioni, con pesanti conseguenze, interne al paese, regionali, globali. Si tratta di una guerra che coinvolge poco Israele, soprattutto se si guarda agli effetti che invece essa produce negli altri paesi confinanti, ma che tocca questioni centrali per la sua stessa esistenza. Israele non ha una valanga di profughi disperati, non ha traffico di uomini e armi in varie direzioni o gruppi e prospettive da sostenere. Ha un generico ma sentito rimpianto del regime degli Assad, nemici veri ma a modo loro prudenti, gli unici vicini che non hanno concluso trattati di pace con Israele, né sulla Siria e nemmeno sul vicino Libano, pesantemente condizionato. La linea di armistizio tra i due paesi però è sicura, salvo sempre possibili incidenti e provocazioni, da parte del governo o dei ribelli.

Gli Assad hanno inoltre garantito un controllo deciso delle fazioni palestinesi, assai attive ma minoritarie, presenti sul loro territorio: le ospitavano, le finanziavano e pretendevano obbedienza, Hamas compresa. Hanno armi di distruzioni di massa, ma solo l’avventura nucleare preoccupa davvero Israele, che nel settembre 2007 distrusse l’impianto di Al Kibar, nel Nord-Est della Siria.1 Le armi non convenzionali siriane preoccupano ora poiché dalle mani di Assad potrebbero passare ad altre, meno riconoscibili.

Inoltre, Israele negli ultimi mesi ha attaccato la Siria almeno quattro volte,2 per distruggere missili di provenienza iraniana diretti a Hezbollah o ad altri gruppi che Israele considera nemici propri. Ma ha anche distrutto un carico di missili terra-mare russi Yakhont nel porto di Latakia. Per Israele quei missili minacciano soprattutto la sua marina, e questo è inammissibile. La costa mediterranea del Libano potrebbe infatti divenire una roccaforte alawita, dell’etnia degli Assad, e quindi base di Hezbollah, che da mesi ha compiuto la scelta di aiutare attivamente, con propri uomini, il regime siriano.

Israele sa che, comunque finisca, se si terrà – e in una qualche forma si terrà – una conferenza che riunisca un gruppo di paesi con poteri o influenza tali da definire il futuro status della Siria, Gerusalemme semplicemente non ci sarà. Oggi, il mancato trattato di pace con Damasco, a cui pensavano sia Rabin sia Olmert, e l’inevitabile mancanza di un trattato con il Libano sono motivo di sollievo. Nessun Assad avrebbe firmato un accordo che non comportasse la restituzione quasi totale del Golan, e nel caos presente e futuro della Siria di questo non si parlerà per molto, anzi moltissimo tempo. Il Golan non ha una popolazione indigena in grado di esprimere una qualsiasi forma di protesta: gli abitanti sono pochi e sono drusi, tradizionalmente staccati dalle dinamiche generali della popolazione palestinese, in gran parte sunnita. La guerra civile siriana rimanda sine die ogni possibilità, anche teorica, di negoziato, perché, questa volta, non c’è davvero un partner.

Quando si parla di Siria è inevitabile fare qualche riferimento anche al Libano, non solo per i tradizionali legami di dipendenza, ma soprattutto per il ruolo che, da qualche mese, Hezbollah ha assunto nel conflitto. La decisione di scendere in campo in difesa del regime di Assad può essere la mossa di cui Hassan Nasrallah, politico abile e spregiudicato, non ha ben calcolato tutte le conseguenze di lungo periodo. O forse, pur avendole calcolate, è disposto a rischiare molto, se non tutto, per un obiettivo dai contorni incerti. Perché il regime di Assad non può resistere ancora a lungo, soprattutto se si considera l’infiltrazione di armi in grado di contrastare gli elicotteri forniti dai russi – che peraltro hanno, e con precise dichiarazioni, abbandonato la scena. Il regime si regge, inoltre, su una base di ufficiali fedeli, di identità alawita,3 e qualora perdesse il controllo di vaste aree del paese potrebbe sopravvivere in una roccaforte sulla costa montagnosa del Mediterraneo dove gli alawiti sono più numerosi, soprattutto in seguito ai trasferimenti interni causati dai combattimenti. Hezbollah ha tradizionalmente un ruolo preminente nel Sud e nel Nord- Est del Libano, e la frammentazione della Siria può rendere difficile la sua logistica: il passaggio di uomini e mezzi, in Siria e dall’Iran, può essere controllato o ostacolato da altri soggetti, compreso l’esercito libanese. L’attivo ruolo di Hezbollah è per Israele motivo di forte allarme, anche per il timore, più volte dichiarato, che gli arsenali di armi di distruzione di massa finiscano in mani diverse. Ma un forte impegno di Hezbollah in Siria ne riduce la capacità di costituire un pericolo immediato per Israele, impegna risorse e, soprattutto, crea una scia di risentimenti in Libano che per Israele può addirittura essere positiva. L’aiuto ad Assad, logico da molti punti di vista, indebolisce infatti Hezbollah sul fronte interno, quello libanese, politico più ancora che militare. Conferma, più dello stretto necessario, l’accusa di essere uno strumento di Teheran.4 Inoltre, il ruolo che Hezbollah ha coltivato per anni nei confronti di Israele – ovvero l’essere uno degli elementi di minaccia di un temuto “doppio fronte” che colpisca assieme ad Hamas – si riduce; Hezbollah non può rischiare un proprio doppio fronte, da una parte in Siria e dall’altra contro Israele. La Siria quindi, direttamente o indirettamente, riduce il pericolo costituito da Hezbollah e Hamas,5 e le preoccupazioni relative al Golan, dove Israele sta rafforzando le sue difese, devono essere considerate come prevenzione contro mosse di gruppi, ribelli anti-Assad o altri, che vogliano trascinare Israele in iniziative volte a complicare la partita siriana.

In Egitto, il nuovo governo, ostentatamente non islamico, è sotto la tutela dell’esercito e si avvia verso un lungo anno di elezioni, sia presidenziali sia parlamentari, e un possibile referendum costituzionale. Tempi lunghi, in cui tutte le parti potrebbero confrontarsi più nelle piazze che nelle tribune. L’Egitto ha con Israele il più “lungo” trattato di pace, per “anzianità” (gli Accordi di Camp David risalgono al 1978), per estensione geografica (il confine del Sinai) e per la lista delle illusioni prima e delusioni poi che quella pace comportò. Doveva essere la pace che trascinava le altre paci, perlomeno con i palestinesi, ma ci si fermò al trattato con la Giordania. Oggi l’Egitto fa paura a Israele anche perché, se Il Cairo non controlla il Sinai e i valichi di Gaza, il confine rischia di liquefarsi in mille traffici, anche di uomini.

Il nuovo governo egiziano tenterà di tutto per rilanciare l’economia, già in grosse difficoltà ai tempi di Mubarak e in virtuale tracollo, anche guidato, nell’ultima fase della presidenza Morsi. Gli Stati Uniti sono riusciti a evitare la definizione ufficiale di golpe, mantenendo quindi all’esercito egiziano il livello di aiuti previsto e confermandone ruolo e centralità. Ancora più massiccio, ma da gestire accortamente, è l’intervento di ricchi soggetti come l’Arabia Saudita, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, che hanno garantito in varia forma finanziamenti che al momento ammontano ad almeno 15 miliardi di dollari.

Nella assai complessa dialettica tra Egitto e monarchie tradizionali – per le quali l’Egitto ha sempre avuto il profilo di un paese rivoluzionario o comunque in cerca di una posizione di leadership –, i sovrani della penisola svolgeranno un ruolo rilevante. Al di là del peso specifico – non va dimenticato che l’Egitto è un grosso paese di oltre 80 milioni di abitanti –, è indubbio che l’attivismo di paesi come il Qatar e la rilevanza, anche territoriale, di uno Stato come l’Arabia Saudita, introducono per Israele un nuovo elemento. I sauditi sono i “patroni” ufficiali del piano di pace con i palestinesi approvato dalla Lega araba nel 2002 e riaffermato nel 2007, basato sul ritorno, in via di principio, alla linea ante 1967. E sono i naturali antagonisti dell’Iran, nel Golfo Persico (anzi Arabico, come lo chiamano alcuni) e in tutta la regione.

Un loro maggior ruolo nell’area che va da Suez al Golfo Persico costringe tutti, anche Israele, a riguardare a una a una le pedine del gioco, a riconsiderare vecchi e nuovi fattori, a rivedere vecchie e nuove inimicizie. Un processo che è appena cominciato, che durerà anni e che introduce nuovi elementi di certezza e incertezza nel labirinto del Processo di pace israelo-palestinese. Certezza poiché un maggior ruolo dei sauditi rilancia il loro peso anche su questo tema, peso che è politico ma potrebbe diventare economico, con il finanziamento della ricostruzione palestinese; incertezza poiché in un Medio Oriente a tessere mobili nessun governo israeliano può permettersi di apparire arrendevole su una questione di identità primaria, ovvero lasciare buona parte dei Territori Occupati, accettare il principio dello scambio di terre, rinunciare a Gerusalemme come capitale esclusiva. E trascuriamo qui l’altro nodo: il ritorno, pur simbolico, dei profughi.

I sauditi stanno inoltre rafforzando l’apparato militare, hanno acquistato missili cinesi che sono puntati sia sul primo avversario, l’Iran, sia sul possibile secondo, Israele. Puntati ovviamente in scenari teorici, ma comunque presenti. La monarchia non possiede armi nucleari, ma sa di poterle comprare in qualunque momento dal Pakistan, di cui sovvenziona parte del programma di armamenti. La famosa bomba islamica che agita i sonni di Israele, insomma, esiste da parecchio tempo, non è iraniana e soprattutto ha un assetto societario.

I paesi della Penisola Arabica, con sforzi coordinati come nel caso dei finanziamenti all’Egitto del dopo-Morsi, possono quindi essere un formidabile soggetto nello scacchiere mediorientale e mondiale, soprattutto in quanto il loro ruolo cresce non solo per scelta propria ma anche per riempire il ritiro programmato degli Stati Uniti, che dall’interventismo dei due Bush sono passati ai tagli di bilancio e alle priorità interne di Obama. È intenzione dell’Iran impedire lo strapotere arabo-sunnita come può, agendo innanzitutto sulla leva Iraq ma anche su tutti i pulsanti a disposizione, in Siria, Libano, Golfo, dovunque. Un gioco enorme e in evoluzione, che semplicemente toglie a un piccolo Stato come Israele molti punti di riferimento noti, anche in negativo. Un paese che ha un ruolo cruciale e silenzioso su molti temi – stabilità, effetti della guerra siriana, palestinesi – è la Giordania, che con Israele ha da sempre, anche prima del 1948, rapporti complessi, segreti, anche tortuosi. La monarchia vuole evitare ogni forma di Primavera araba, che sarebbe inevitabilmente troppo palestinese, e vede Israele alleato in questo obiettivo tacito. Insomma, la Giordania può essere considerata da Israele come un paese amico. Come amica era ed è ancora, anche se molto dialetticamente, la Turchia, che per Israele ha fatto molto, ma che pretende un rispetto anche formale. Ma il piccolo Stato ebraico sottovaluta questi aspetti, anche volutamente, come si evince da alcune vicende6 – e non solo quella della nave Mavi Marmara (2010) –, gestite dall’allora ministro degli Esteri Avigdor Lieberman con ostentata rudezza.

 

LA STRETTA STRADA DI NETANYAHU

Ci vorrà almeno un anno, e pure costruttivo, perché l’Egitto trovi un baricentro e la dinamica siriana si chiarisca, o con l’uscita di scena di Assad o con la più probabile frattura del paese su tre componenti principali: alawiti, sunniti, curdi.

Anno che dovrebbe vedere anche il riavvio dell’esausto Processo di pace, per permettere una seria e costruttiva discussione tra israeliani e palestinesi, e che coincide con la fase di “mani libere” del secondo mandato Obama. Dall’estate 2014 la campagna per il rinnovo quasi totale del Congresso – le elezioni di mid-term – costringerà la Casa Bianca a occuparsi più di sondaggi che di forti iniziative. Infatti non c’è alcun dubbio che, se le parti avessero davvero la ferma volontà di procedere con il dialogo, i problemi sono tali che solo un forte intervento esterno, occidentale e/o arabo e non solo, potrebbe farli superare.

In questa finestra di opportunità a lungo attesa, gli americani si affannano, soprattutto con le ben sei visite – finora – del segretario di Stato John Kerry in Medio Oriente e in particolare a Gerusalemme e a Ramallah. Ma questo è anche il periodo che il terzo governo Netanyahu intende superare il più morbidamente possibile, per sfuggire alle pressioni statunitensi e consolidare gli obiettivi interni mentre tutto cambia, nel paese, nella regione, nel mondo.

Converrà a Netanyahu fingere di provarci al massimo, pur sapendo che il paese è spaccato: la sinistra e il centro, che magari vorrebbero la pace, non fanno parte del suo governo, e quelli che ci sono inorridiscono all’idea di cedere la terra di Israele, anche quando si tratta di insediamenti lontani dalla cosiddetta “Linea verde”. Per legittimare il suo sforzo, Netanyahu ha già proposto un referendum per approvare spartizione e ritiro. E un veloce sondaggio di fine luglio allinea numeri apparentemente positivi:7 il 55% degli israeliani voterebbe sì a un referendum che proponesse un consistente ritiro e quindi la creazione di uno Stato palestinese – non importa in che termini, ai fini del sondaggio.

Ma il nuovo governo Netanyahu (del marzo 2013), più a destra del precedente, sia pure con l’inserimento di un partito centrista come C’è un Futuro, ha una intrinseca debolezza che induce al pessimismo. Non esistono, e da tempo, sulla scena politica di Israele persone che possano essere definite alternative a Netanyahu, e nemmeno coalizioni di tipo diverso. Il suo governo ha come apparente perno il partito che si è presentato unito alle elezioni, un listone composto dal Likud e da Israele Nostra Casa, guidato dall’assai discusso ex ministro degli Esteri Lieberman. Il listone ha avuto molti meno seggi della somma precedente, il che ha indebolito il Likud, che ha peraltro visto crescere la quota e il ruolo dei coloni nei ranghi del partito. Questo ha accresciuto le correnti, notoriamente anarchiche, del partito, e indebolito la base di Netanyahu, soprattutto quando, a inizio luglio, sono stati eletti per guidare il partito e il suo turbolento Comitato centrale – che diede ad Ariel Sharon dispiaceri tali da portarlo alla fondazione di Kadima – noti falchi come Israel Katz, ministro dei Trasporti e ora anche segretario del Likud, e Danny Danon, viceministro alla Difesa e presidente del Comitato centrale.8

Netanyahu è primo ministro ma tiene l’interim degli Esteri, ufficialmente perché vuole tenere il posto libero fino alla conclusione del processo per truffa di Lieberman. Questo doppio ruolo ha un aspetto positivo: egli ha una indubbia conoscenza della scena internazionale, e americana in particolare, dai tempi in cui era giovane diplomatico all’ONU, come anche una visibilità internazionale notevole, seconda solo a quella del presidente Peres. Ma gli manca la cinghia di trasmissione tra politica estera e interna, può solo usare l’oratoria. Qualunque impegno possa prendere, con Kerry più che con il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen, assai difficilmente sarà tradotto in politica dei fatti. E dovrebbero essere fatti di immensa portata, con il disegno di una linea accettabile e il trasloco di decine di migliaia di persone, dando pure per fermi i blocchi di insediamenti intorno a Gerusalemme, la quale andrebbe ovviamente divisa.

Gli si oppone infatti non solo il suo governo, composto in maggioranza da elementi di destra ed estrema destra, ma il suo stesso partito; e certe decisioni non possono essere prese con il solo appoggio della scarsa e molto critica opposizione. Netanyahu è quindi condannato a galleggiare, nella speranza che nessuna onda lo butti giù e che tutto appaia assolutamente normale. Una debolezza intrinseca che gli americani conoscono bene, ma che non possono né sottolineare né rimediare. Il riavvio del Processo di pace poggia quindi su una debolezza interna assai grave: Netanyahu non ha nel paese un ruolo di vero leader. Per questo ha invocato un referendum, ma rischia di non arrivarci nemmeno; e forse non lo vuole. Un serio negoziato inoltre porrebbe in grave pericolo la sua vita. Senza contare che richiederebbe, com’è logico, il fermo alla crescita di insediamenti soprattutto nelle aree più delicate, mentre il governo manifesta tutt’altre intenzioni. È assai recente la notizia che Israel Katz ha presentato il piano di costruzione di una ferrovia nel West Bank, che colleghi i trenta principali insediamenti con undici linee e 473 km di binari. La natura del terreno richiederebbe la costruzione di molti ponti e tunnel, il che aumenterebbe non solo l’area davvero occupata ma estenderebbe a dismisura la cosiddetta “matrice di controllo”,9 cioè la griglia di infrastrutture israeliane che occupano spazio, tolto ai palestinesi.

Se la crisi siriana rimescola tutte le carte della regione, una delle certezze della politica israeliana è che i palestinesi sono sempre lì. Divisi, poveri, preoccupati, rassegnati a una lunga attesa perché ne hanno scoperto i punti di forza. Hanno infatti perso alcuni punti di appoggio locali, ma indubbiamente hanno guadagnato posizioni in termini globali, e questo è per Israele un problema di primaria importanza, legato anche al calendario. Infatti dentro la “finestra americana” di circa un anno e mezzo ce n’è un’altra, centrata sul calendario dell’Assemblea Generale dell’ONU, che si riconvoca a settembre e che l’anno scorso fu sede di una vittoria politica dei palestinesi: il riconoscimento, a larghissima maggioranza, dello status di Stato osservatore, con un significativo mutamento di voto dei paesi occidentali ed europei, in passato più filoisraeliani. La strategia dei palestinesi considera centrali l’Assemblea Generale e alcuni organismi delle Nazioni Unite, e lavora per guadagnare consensi.

Ma è l’Unione europea il soggetto che sta procurando a Israele i problemi maggiori, perché, passo dopo passo, intende far valere vecchi accordi e soprattutto intende precisare, in ogni senso politico ma partendo dalle leve economiche, che i Territori non fanno parte dello Stato di Israele. In gioco non sono solo, come al momento, le merci provenienti dai Territori occupati – che la UE escluse dalle esenzioni doganali dell’accordo commerciale del 2005, firmato dal ministro del Commercio Olmert durante un governo Sharon, e che potrebbero essere costrette ad avere etichetta chiara –, ma tutto, poiché l’Unione intende ripristinare la ormai sbiadita Linea verde, non solo per quel che concerne l’importazione di prodotti, ma in svariati campi, compresi i vari tipi di cooperazione e il turismo. Si parla infatti di introdurre il visto per quegli israeliani che vivano nei Territori.

Da mesi il ministro dell’Industria e del commercio, Naftali Bennett, del partito di estrema destra La Casa Ebraica, sostiene che il Processo di pace è tempo perso, che nessuno, nemmeno l’Europa, si interessa ancora ai palestinesi e che comunque conta di più la Cina. Vero, l’Unione europea non si interessa attivamente al famoso Processo di pace perché crede che parlarne e basta serve a poco. Meglio applicare pressione sulle parti lì dove serve: diritti, finanziamenti, cooperazione. A occhi europei, e non solo, il tempo non lavora per nessuno, ma soprattutto danneggia i palestinesi e rende ancora più inestricabili situazioni che richiedono interventi davvero ampi e radicali. Le parole di Bennett sulla marginalità dell’Europa in confronto alla Cina, se si considerano gli interessi di Israele, non rispecchiano la realtà degli scambi, non quella di oggi e nemmeno quella di domani. E hanno suscitato il commento di un anonimo ma esplicito funzionario dell’Unione: «la UE intende costruire intorno a Israele una Grande Muraglia cinese»,10 cioè sottolineare la Linea verde, che poi riguarda tutti i non-confini di Israele. I confini veri, risultato di trattati di pace, sono solo quelli con l’Egitto (1979) e la Giordania (1994). Le altre – con il Libano e con la Siria – sono linee di armistizio. Quella con la Palestina è il risultato dell’armistizio con i giordani del 1949 e della successiva rinuncia, nel 1988, di re Hussein a ogni pretesa sul West Bank. È stato detto che Stati Uniti e Unione europea, in modo non si sa quanto concordato, stanno applicando verso Israele la politica della carota (americana) e del bastone (europeo).

La Linea verde è infatti stata, per due o tre generazioni di israeliani nati dopo il 1967, cancellata, anche dai libri di scuola. Gli israeliani vivono in un paese “unico”, molti pensano di avere una legittimità che si basa sulla Bibbia e aspettano che il mondo lo riconosca, prima o poi. Una linea di ragionamento, culturale e a volte religioso, oltre che banalmente politico, che ignora non solo i diritti e le aspettative dei palestinesi ma anche l’inesistente volontà della comunità internazionale di riconoscere una guerra di conquista, comunque sia andata. L’affettuosa indulgenza che per decenni Israele ha suscitato in molti paesi europei e occidentali è praticamente scomparsa, con il naturale passare delle generazioni che avevano ricordi precisi del genocidio degli ebrei e in nome di questo usavano la massima comprensione verso Israele, mentre non negavano i diritti dei palestinesi. Una contraddizione che pian piano si sta sciogliendo, anche per il consolidarsi costante e a volte imprudente degli insediamenti.

Ma la politica di Israele è anche e soprattutto politica interna: ai normali problemi di un paese con esigenze di bilancio piuttosto rigide – perché sia la difesa sia il mantenimento dei territori costano parecchio –, si aggiungono i problemi socioeconomici di una società profondamente divisa. Il governo Netanyahu ha enormi problemi interni e gestire contemporaneamente le pressioni americane e le aspettative europee per dei negoziati che puntino a una conclusione sarà assai difficile. Potrebbe decidere di non farli proprio.

 


[1] G. Kessler, N. Korea, Syria May Be at Work on Nuclear Facility, 13 settembre 2007, disponibile su www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2007/09/12/AR2007091202430.html; D. E. Sanger, M. Mazzetti, Israel Struck Syrian Nuclear Project, Analysts Say, 14 ottobre 2007, disponibile su www.nytimes.com/2007/10/14/washington/14weapons.html?pagewanted=all&_r=0

 

[2] A. Harel, New Reports on Latakia Attack Make Turning a Blind Eye Diffi cult for Assad, 13 luglio 2013, disponibile su www.haaretz.com/news/diplomacy-defense/.premium-1.535527

[3] Z. Barany, General Failure in Syria: Without the Officers’ Support, the Insurgents Can’t Win, 17 luglio 2013, disponibile su www.foreignaffairs.com/articles/139585/zoltanbarany/general-failure-in-syria

[4] M. Warner, Hezbollah’s Role in the Bloody Syrian War Comes at a Price, 3 giugno 2013, disponibile su www.pbs.org/newshour/bb/middle_east/jan-june13/lebanon_06-03.html

[5] N. Guttman, Israel Could Benefit From Syrian Civil War as Hamas and Hezbollah Face Setbacks, 9 giugno 2013, disponibile su forward.com/articles/178158/israel-couldbenefit-from-syrian-civil-war-as-hama/?p=all

[6] B. Ravid, Ayalon to Turkey: I Never Intended to Humiliate Your Ambassador, 24 giugno 2011, disponibile su www.haaretz.com/news/diplomacy-defense/ayalon-to-turkey-i-never-intended-to-humiliate-your-ambassador-1.369484

[7] Y. Verter, J. Lis, Survey: 55% of Israelis Say They’re Inclined to Vote for Peace Deal, 24 luglio 2013, disponibile su www.haaretz.com/news/diplomacy-defense/.premium-1.537586

[8] G. Hoffman, Danon, Katz, Elkin Win Likud Races, 7 gennaio 2013, disponibile su www.jpost.com/National-News/Danon-Katz-Elkin-win-Likud-races-318268

[9] Jeff Halper, antropologo dell’Università di Beer Sheva “Ben Gurion”, ha teorizzato la matrice come strumento di occupazione non solo tramite insediamenti ma attraverso tutte quelle strutture (strade, linee elettriche, posti di guardia ecc.) che hanno bisogno di spazio e quindi di controllo del territorio. Si veda in proposito J. Halper, The 94 Percent Solution. A Matrix of Control, in J. Beinin, R. L. Stein (a cura di), The Struggle for Sovereignty: Palestine and Israel, 1993-2005, Stanford University Press, Stanford 2006, pp. 62-69.

[10] B. Ravid, Israeli Economy at Stake as EU Takes Stand on Settlements, 16 luglio 2013, disponibile su www.haaretz.com/news/middle-east/.premium-1.536050

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