Il Partito Democratico e il coraggio delle riforme

Di Alfredo Reichlin Lunedì 04 Novembre 2013 15:02 Stampa

Con la fine del “ventennio” di Berlusconi, si avvia un mutamento profondo del sistema politico italiano. È da vedere se ciò riguarderà solo i partiti o se investirà – e in che misura – gli assetti più complessivi del “regime” italiano: se si tratta di un episodio tra i tanti delle lotte di potere tra il ceto politico oppure se si apre uno spazio nuovo per mettere finalmente in campo non solo qualche riforma settoriale, ma un progetto complessivo di cambiamento del paese.

Non sarà facile. Da un lato si schiudono nuovi scenari e si allentano vincoli e ipoteche che un pervasivo sistema di potere politico, mediatico e finanziario, concentrato nelle mani di un uomo senza scrupoli e con una concezione proprietaria della cosa pubblica, ha fatto gravare sulla vita anche morale del paese, colpendo la sua dignità di fronte al mondo. Dall’altro lato, il bilancio del ventennio è disastroso. Il paese che ci consegna è coperto di macerie, ed è questo il dato di fatto con cui le forze del rinnovamento dovranno fare i conti. La semplice verità è che l’Italia è diventata più piccola. Si è impoverita. E ciò al di là degli effetti della grande crisi che ha colpito tutto l’Occidente. Il tasso di povertà delle famiglie è quasi raddoppiato. Ma è la statura della nazione che si è abbassata: le sue potenzialità di sviluppo e il suo peso nel mondo. Fenomeni come la crescita del debito, il declino della struttura industriale, le insufficienze della scuola e della ricerca, il deterioramento del tessuto civile e culturale, oltre che dell’ambiente naturale, si sono avvitati, spingendo l’insieme della nazione verso un declino.

Se le cose stanno così (e stanno così), è chiaro che le colpe di Berlusconi sono grandissime, ma che i problemi che lo hanno travolto e gli scenari che adesso si aprono sollevano questioni grosse. Perché è stato ed è così difficile riformare questo paese? È giusto mettere in guardia dalle “tentazioni neocentriste”. Ma, francamente, io non ho tutta questa paura di finire democristiano. Mi chiedo invece perché dopo tanti anni e tanti cambiamenti e tante giravolte e tanti nuovi schieramenti il paese sia fermo, non cresca. Anzi, sia arretrato. Io cercherei di andare oltre le polemiche quotidiane per tornare a riflettere sul tema che i fondatori della Repubblica (i soli veri riformatori) si posero. E cioè affrontare il modo di essere delle classi dirigenti, il peculiare “blocco storico” dominante, il singolare miscuglio italiano tra la politica, i compromessi sociali, l’economia. Quel blocco fu più volte scosso, ma alla fin fine è rimasto più o meno quello. Pensiamo solo alla incredibile persistenza del patto scellerato tra l’asse nordista e il blocco parassitario meridionale. Il divario tra le due Italie è cresciuto. E nessuno osa dire che questo è il nostro problema principale. Non i salari. Sta in ciò – io credo – l’importanza almeno potenziale della implosione della destra. Dietro la ribellione contro Berlusconi c’è un evidente scontro di potere, ma insieme ad esso non può non emergere una qualche consapevolezza della necessità di dar vita finalmente, anche in Italia, a una destra “normale”, europea, rispettosa dello Stato di diritto e della democrazia parlamentare. Ma, se è così, Alfano e i suoi devono chiedersi perché finora questo tipo di partito non c’è stato. E quindi misurarsi non solo con lo sguaiato estremismo della Santanchè, ma con un problema molto più di fondo, che è quello, appunto, della incapacità delle forze dominanti di pensare i propri interessi nel quadro e in funzione degli interessi complessivi del paese e quindi in modo tale da includere attivamente le classi subalterne nella vita politica e statale in quanto cittadini titolari di diritti e non come masse di individui tenuti insieme dagli inganni del populismo e del potere “mediatico”. Ricordiamoci che da ciò discende la debolezza dello Stato italiano, l’anarchismo di grandi masse che stentano a sentirsi parte di un “popolo-nazione”, prive come sono di quel senso di appartenenza a una storia comune che caratterizza i grandi popoli. Dopotutto, era questa la ragione di fondo per cui pensammo il PD come un partito “nuovo”, il partito della nazione.

Dunque, se è questa la questione politica che dietro la piccola cronaca delle divisioni della destra si riapre, è evidente che il Partito Democratico non può fare da spettatore. Il sistema politico è, appunto, un sistema in cui le cose si tengono. Ciò che la destra è stata e che adesso cerca di diventare dipende anche da noi. Da ciò che siamo noi e da come noi affrontiamo il dopo Berlusconi, con quale idea del paese e del suo destino. E qui non posso non chiedermi con quali idee, e con quale leader, il PD uscirà dal suo Congresso. Non basterà un normale avvicendamento del personale politico. È un salto anche concettuale che dobbiamo fare. Non sono sicuro che tutti si siano resi conto della stretta drammatica in cui siamo. In questi mesi la crisi del paese è stata a un passo dal trasformarsi in una drammatica crisi di regime. Ciò che arrivava al pettine non era solo il destino del senatore Berlusconi, ma il cammino storico dell’Italia. Era venuta in forse la sua sopravvivenza come Stato di diritto in cui la legge è uguale per tutti e nel quale la sovranità sta nel Parlamento. Un paese quindi che doveva decidere se partecipare in prima persona alla costruzione della comunità europea oppure finire ai margini come una appendice malata e subalterna, di fatto commissariata da Berlino e Bruxelles. Penso sia chiaro adesso che sbagliavano tutti coloro (anche a sinistra) che accarezzavano l’ipotesi di elezioni anticipate come strumento di una svolta. Ma quale svolta. Costoro non valutavano che, nelle urne, dietro il normale confronto tra partiti si sarebbe giocata una partita ben più drammatica: la scelta non tra destra e sinistra, ma tra lo Stato di diritto e una oscura deriva verso un regime di tipo peronista (con la vittoria altamente probabile di Berlusconi).

Di qui la necessità che la sinistra affronti finalmente il problema che a mio parere condiziona tutto il resto: la mancanza di un punto di vista realmente autonomo rispetto al potere e alle idee dominanti. Il vuoto di una nuova grande analisi. Non sto parlando di un problema culturale, ma della necessità di cominciare ad affrontare quel grande nodo che sta mettendo nell’angolo perfino il presidente degli Stati Uniti: la debolezza della politica. Il suo annaspare. Il fatto che il potere della politica, cioè dello strumento principale di cui gli uomini dispongono per essere liberi e per decidere il loro destino, non è più in grado di misurarsi con la potenza di una economia globalizzata. La politica è stata colonizzata. Non dico cose nuove. Ma è con troppo ritardo che la sinistra ha percepito gli effetti devastanti della svolta “mercatista” che ha affidato a una ristretta oligarchia il diritto di manovrare liberamente i capitali e di inondare il mondo di debiti, creando così una colossale rendita finanziaria. Sono diventati anacronistici i grandi classici dell’economia e delle scienze politiche e costituzionali. Di fatto, l’economia ha cessato (in larga misura almeno) di essere concepita come una scienza sociale per diventare una branca della matematica e una tecnica per l’accumulo di ricchezze in gran parte fittizie. Era nata come un “mezzo” volto alla “felicità” degli uomini, è stata trasformata in un “fine” per fare denaro col denaro. E qualcosa del genere è successo anche alla natura della democrazia. Alla decadenza e in molti casi alla degenerazione dei partiti è corrisposta una trasformazione della democrazia rappresentativa in democrazia plebiscitaria, con la precisazione che il nuovo plebiscitarismo non è quello delle grandi adunate a Piazza Venezia, è quello dell’audience, l’agglomerato indistinto di individui che fanno da spettatori di una rappresentazione messa in scena da tecnici della comunicazione mediatica e recitata da personaggi politici. È significativo l’entusiasmo per Matteo Renzi. Importano poco le sue idee, conta il fatto che la personalizzazione del potere e della politica non sopporti il partito organizzato, cioè quel partito che cerca un rapporto stretto e continuativo con la società (non solo nel momento delle elezioni) attraverso una cultura e una militanza che creano identità, aspirazioni ideali, strumenti interpretativi e critici.

Insomma, il problema che sempre più emerge è quello di dare alla sinistra una nuova soggettività. La capacità non solo di definire in astratto le grandi riforme che sono necessarie, ma il “con chi e contro chi” e anche il “come” farlo. Datemi una leva e vi solleverò il mondo. Attenzione, non sto rimpiangendo quel fondamentale soggetto politico del socialismo che fu il “movimento operaio”. Penso alla osservazione di Gramsci relativa alla “concretezza”, cioè il ruolo che in un determinato scenario storico-sociale assume la presenza o l’assenza di un soggetto portatore di una critica della realtà e di un progetto di cambiamento. Riesca o no a realizzare appieno la sua proposta – dice Gramsci –, è l’esistenza stessa di questo punto di vista che fa parte del quadro e lo modifica. Ecco, io credo che la sinistra, se vuole tornare a contare nel mondo nuovo, deve porsi questo problema. Conosco l’obiezione: non ci sono le condizioni. A questa obiezione si può rispondere rovesciando la domanda e chiedendo che concretezza c’è in questo sciagurato modo di governare l’Italia, come se il suo declino fosse un destino ineluttabile non essendo in grado – dicono – di reggere alle sfide della mondializzazione. Ma chi non è in grado? È tempo di uscire dal solito rimpallo delle responsabilità (che effettivamente sono diffuse, e anche nostre) per cominciare ad affrontare la questione del blocco politico e sociale che viene dalla storia italiana e che il ventennio berlusconiano ha portato al limite dello sfascio dello Stato. Che ruolo pensa di avere il Partito Democratico? Farà un nuovo elenco di riforme? Criticherà “da sinistra” il governo? Si dividerà in nuove fazioni? Io credo che dovrebbe pensare se stesso come quel nuovo soggetto politico in grado di affrontare la riforma-rifondazione dello Stato italiano. Di questo si tratta. Si tratta di rompere il grumo di rendite, di ingiustizie, di costi della corruzione e delle inefficienze che deformano lo Stato attuale e lo riducono alla mercé del capitalismo delle rendite e delle consorterie. Dando vita, al tempo stesso, a una riforma del sistema politico e istituzionale nel senso di renderlo capace di prendere le grandi decisioni. L’una cosa in funzione dell’altra. Questa è la condizione per rendere possibile non solo interventi settoriali, ma un progetto di riforma. Rompere il vecchio “blocco storico”, questa sorta di gabbia che soffoca la produttività del sistema e in cui sono intrappolate le risorse fondamentali del paese. Il ventennio berlusconiano ha favorito l’asse del Nord (l’alleanza prioritaria con la Lega) e ha largamente alimentato quella potente ideologia la quale dice alla gente che non c’è niente da fare perché l’economia è una legge naturale, per cui è inutile protestare, sono i mercati che comandano. Ecco perché non possiamo più fingere di non vedere che, se vogliamo davvero riformare, dobbiamo misurarci con la cosiddetta “postdemocrazia”. Affermando un punto di vista nostro autonomo. Una nuova soggettività. Dopotutto, se il PD stenta a decollare e se ovunque – in Europa almeno – la sinistra è in crisi, è anche perché non abbiamo un pensiero politico all’altezza di questo sistema-mondo. La crisi della democrazia è dunque il problema centrale. Il riformismo funziona in quanto presuppone una democrazia che decide, e un sistema parlamentare che non solo rispecchi i diversi progetti politici e sociali che si sono espressi nel voto, ma che abbia il potere di renderli realizzabili. E che quindi renda “utile” il voto anche agli occhi dei ceti subalterni. Altrimenti vince la sfiducia. La crisi della destra in quanto blocco tra reazionari e moderati tenuti insieme da Berlusconi apre nuovi scenari? Se è così, occupiamoli.

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