Costruire il futuro, persino a Firenze

Di Matteo Renzi Martedì 05 Novembre 2013 15:25 Stampa

In un contesto nazionale in cui le città non sono riuscite a giocare un ruolo fondamentale e a diventare paradigma di una trasformazione possibile, l’amministrazione di Firenze vuole rappresentare un modello, un esempio di costante attenzione ai problemi dei cittadini, primo tra tutti quello dello sfilacciamento dei rapporti umani e dello smarrimento del senso di appartenenza a una comunità. Tutte le misure attuate in questi anni dall’amministrazione hanno avuto come ambizione quella di restituire al nucleo urbano e ai suoi spazi pubblici la funzione di luogo privilegiato di sviluppo della socialità tra i suoi abitanti. Da quest’insieme di azioni passa il processo di costruzione del futuro, anche in una realtà dal luminoso passato quale è Firenze.

Viviamo un tempo in cui il futuro sembra una minaccia. Fa paura, inquieta, terrorizza. Siamo portati a credere che staremo peggio di come sono stati i nostri genitori. Il futuro evoca il pericolo. Nella mia città, invece, il futuro corre un rischio diverso: quello di sembrare inutile. Che ce ne facciamo del futuro, noi che abbiamo avuto tutto dal passato? Noi che spesso viviamo di rendita, noi che siamo concittadini di Dante e di Michelangelo, di Leonardo e di Galileo, noi che abbiamo visto inventare di tutto, dalla prospettiva nell’arte fino al telefono passando per il motore a scoppio e la lingua italiana? Convincere i propri concittadini che il futuro non è inutile, questa è la prima sfida per chi occupa – pro tempore – la sala di Clemente VII in Palazzo Vecchio.

Intendiamoci, Firenze ha avuto anche grandi sindaci. Non si direbbe, pensando all’attualità, potrebbero ironizzare i più maliziosi lettori di “Italianieuropei”. Ma non c’è dubbio che la storia di questa città sia stata caratterizzata da alcuni straordinari primi cittadini capaci di restituire speranza alla propria comunità, a partire dal primo sindaco eletto del dopoguerra, quel Mario Fabiani che Neruda rappresentò come un operaio, a capo della città. «E quando in Palazzo Vecchio, bello come un’agave di pietra, salii i gradini consunti, attraversai le antiche stanze, e uscì a ricevermi un operaio, capo della città, del vecchio fiume, delle case tagliate come in pietra di luna, io non me ne sorpresi: la maestà del popolo governava».

Difficile stabilire graduatorie, sia chiaro. Ma forse il più grande sindaco di Firenze è stato Giorgio La Pira. I fiorentini ne legano l’esperienza amministrativa al salvataggio della Nuovo Pignone, alla Centrale del Latte, alla lotta per dare un’abitazione e un lavoro alle famiglie, al quartiere dell’Isolotto, alla sistematica opera di asfaltatura della città. Ma c’è un tratto peculiare nell’esperienza amministrativa di La Pira che è – letteralmente parlando – profetico. Non mi riferisco alle intuizioni sulla pace nel mondo, né alle motivazioni religiose con cui la Chiesa cattolica ha aperto il processo di beatificazione di quello che veniva chiamato “il Sindaco della povera gente”. No. La Pira è stato letteralmente profetico perché con i convegni delle città capitali prima e delle città del Mediterraneo poi, ha anticipato la discussione sul ruolo delle comunità locali e delle città nel mondo contemporaneo. Forte della sua cultura giuridica, La Pira definiva le città come «beni che derivano dalle generazioni passate e di fronte ai quali le presenti rivestono la figura giuridica degli eredi fiduciari: i destinatari ultimi di questa eredità sono le generazioni successive (...). Nessuno ha il diritto di distruggerle: dobbiamo conservarle, integrarle e ritrasmetterle; non sono nostre, sono d’altri. Affermandolo, siamo nella stretta orbita della giustizia: neminem laedere suum unicuique tribuere».

Oggi è fiorente la letteratura sul ruolo strategico delle comunità locali. Si arriva anzi al punto di provocare, come fanno Daron Acemoglu e James A. Robinson nel loro “Perché le nazioni falliscono. Alle origini di prosperità, potenza e povertà”, o di constatare, con Edward Glaeser, “Il trionfo delle città”. E leggendo la cronaca degli ultimi vent’anni ci rendiamo conto di come in tutta Europa cresca l’importanza delle amministrazioni locali. Parigi torna ad avere un sindaco con Jacques Chirac prima e cambia pelle sotto la lunga guida di Bertrand Delanoë poi. In Inghilterra alcuni Comuni tornano dopo anni a esprimere un sindaco, come fa Londra con Ken Livingstone prima e Boris Johnson poi. Per non parlare degli Stati Uniti, che vedono poderosi processi di trasformazione guidati da autorevoli primi cittadini: emblematico il caso di New York, splendidamente rivoluzionata, sotto la guida di Rudolph Giuliani prima e Michael Bloomberg poi. Ma non dimentichiamo due sindaci democratici di lungo corso come Thomas Menino ancora in carica a Boston o Richard M. Daley da qualche mese non più sindaco di Chicago: oggi le loro città sono profondamente cambiate, trasformate, rinnovate.

In Italia invece le città non sono riuscite a giocare un ruolo fondamentale. Paradossalmente la terra culla dell’idea di municipalismo non ha visto in questi vent’anni un ruolo di leadership da parte delle comunità cittadine. Alla breve primavera dei primi anni Novanta – che ha coinciso con la modifica del sistema istituzionale – hanno fatto seguito due evidenze negative forse non troppo sufficientemente analizzate. La prima è stata il fallimento del sogno federalista imposto dalla Lega all’attenzione della comunità politica ma tradito dallo stesso centrodestra con provvedimenti centralisti e statalisti oltre che con scelte discutibili: dopo aver parlato a lungo di “Roma ladrona”, la Lega ha dimostrato di sapersi integrare senza troppe difficoltà nella politique politicienne. Ma ha totalmente perso di vista l’istanza federalista, smarrita alla prova dei fatti essendo stati quelli di destra governi tra i più centralisti della storia repubblicana. La seconda, l’errore del centrosinistra con la revisione del Titolo V della Costituzione, completata nel 2001 a colpi di (risicata) maggioranza, difesa in sede referendaria, ma rivelatasi più problema che soluzione. Lo snaturamento della funzione di indirizzo di Regioni sempre più intenzionate a gestire e amministrare, l’aggiunta di una tecnostruttura regionale alla arzigogolata burocrazia nazionale, l’ingolfamento presso la Corte costituzionale di ricorsi e controricorsi sono solo effetti collaterali di una riforma che abbiamo voluto, abbiamo difeso ma che dobbiamo avere il coraggio di chiamare con il proprio nome: un errore. Ma davvero tra noi c’è qualcuno che pensa che il Molise debba avere una propria politica energetica o l’Abruzzo gestire lo sbarco turistico cinese?

Tutti questi elementi sarebbero una buona base per provare ad affrontare la parte più strettamente politica di una riflessione su Firenze. L’amministrazione di questa città ha l’ambizione di costituire un modello, sia detto senza alcuna falsa modestia. Non siamo eletti per guidare un condominio, ma per restituire nobiltà all’impegno politico risolvendo giorno dopo giorno singoli problemi alla luce di una visione strategica. Questo significa amministrare. E dunque vogliamo che ogni singolo atto, ogni scelta, ogni iniziativa del Comune sia compiutamente scelta politica. Ciò comporta che il tentativo di valorizzare le esperienze amministrative civiche – che animerà anche la pagina nuova del Partito Democratico, se ci sarà dato di scriverla – non è altro che la risposta a un cambiamento radicale della politica globale che si sta verificando. Ma, nel merito, qual è l’idea di fondo che anima la Firenze di questi anni? C’è un punto centrale, decisivo, cruciale, che tiene insieme tutte le scelte fiorentine di questo periodo? Qual è il fil rouge che collega i provvedimenti sulla mobilità, gli investimenti culturali, le scelte urbanistiche, le iniziative educative e sociali nella Firenze di oggi? Per me è l’idea che ciascuno di noi abbia un nome, non sia solo un numero. Cittadino, non utente. Persona, non codice fi scale. Ciascuno di noi può risalire il filo della propria tradizione culturale per scorgere in questa centralità della persona l’essenza vera del vivere la città.

Le città combattono con il degrado, lo sappiamo. Ma il degrado più grande non sono i muri scritti o i venditori abusivi come vuole una certa retorica della superficialità. Il vero degrado è quando le persone non si parlano più, quando si perde relazione, quando si allontana la socialità. Il vero degrado è la solitudine. Qualche anno fa Zygmunt Bauman rifletteva sulla solitudine del cittadino globale: possiamo ben dire che questa è l’angoscia principale di un amministratore locale. A Firenze in questi anni abbiamo operato un grande investimento in pedonalizzazioni perché la piazza tornasse di mestiere a fare la piazza e non lo spartitraffico. Perché le strade parlassero. Perché il centro fosse un luogo di incontro e non solo di attraversamento. Perché la colonna sonora della città fossero i passi e le voci, non il clacson e i motori. Piazza del Duomo, via Martelli, via Tornabuoni, San Firenze, Pitti, ponte Santa Trinità. Il tutto realizzato in meno di quattro anni, con l’avversione significativa di comitati e categorie. Ma oggi apprezzato dalla stragrande maggioranza dei cittadini, che non tornerebbe indietro neanche ove fosse possibile. E che si trova oggi a vivere nella città più pedonale d’Italia, con i suoi 396.000 metri quadrati: 1,07 ad abitante, più del doppio della seconda città, Torino. E con 85 chilometri di piste ciclabili.

Ma la pedonalizzazione di per sé non basta. Assume valore se è per noi la visione di una città. Se si collega a una concezione forte, oggi davvero rivoluzionaria: l’urbanistica a mattoni zero. Un piano strutturale – approvato dopo anni di indecisioni e rinvii – in cui si dice finalmente basta al consumo di suolo, al cemento su cemento. In cui il verde pubblico diventa patrimonio delle mamme, dei bambini, delle famiglie in un coinvolgimento diretto nella gestione e in un rapporto di prossimità, di vicinanza fi sica che porta un giardino a dieci minuti da casa di ciascun fiorentino. In piccolo, ma anche in grande. Che porta a rigenerare un parco come quello delle Cascine, cuore pulsante di Firenze, per riportare i fiorentini a viverlo, a sentirlo proprio. Ma dando a un parco il valore culturale dal quale non può prescindere, rendendolo la porta di ingresso alla vita culturale: con il nuovo Teatro dell’Opera, uno dei più tecnologici al mondo, e il recupero di contenitori dismessi che tornano a vivere e a creare vivibilità. Fino all’esperimento di libertà delle Murate: un ex carcere trasformato in luogo di rivincita e accoglienza di dissidenti digitali che trovano qui, a Firenze, la loro casa. Lo spazio fisico e umano dal quale portare avanti le proprie battaglie di libertà in ogni angolo del mondo e del pensiero. E per entrarci, non più cartelloni pubblicitari, ma una parete verde, un giardino verticale per respirare il senso di una città che guarda più in là, senza paure.

Così come, senza paura, si può salvare un teatro. Quando l’ETI ha chiuso non ci siamo rassegnati alla chiusura del Teatro della Pergola, al contrario abbiamo scelto di rilanciarlo per restituire a Firenze un pezzo della propria identità: cultura non significa solo ricordare ma anche costruire il futuro. Questo è bene comune, il bene che il pubblico può utilizzare. Poi c’è chi pensa, come nel caso del Teatro Valle, che bene comune sia invece il modello che prevede l’occupazione. Noi non occupiamo, liberiamo spazi di cultura sostenendone il rilancio concreto. Palazzo Vecchio ne è l’esempio più vivo: era chiuso, lo abbiamo restituito ai cittadini, aprendolo anche di notte. È la casa di tutti i fiorentini. Che dalla Torre di Arnolfo possono ora sentire col cuore la storia di Firenze e affacciarsi sulla città in un abbraccio unico e reciproco. Ma un’operazione su tutte testimonia il nostro passo e il senso del nostro sguardo: il raddoppio degli spazi e degli utenti delle biblioteche. Dalle Grandi Oblate alle nuove o rinnovate biblioteche nei quartieri, perché portare un bambino a leggere un libro significa non essere cittadini di un museo a cielo aperto ma di una città che investe in cultura e futuro.

E senza paura si costruisce un modello di gestione del sociale che vede in primo piano l’associazionismo, il volontariato, il coinvolgimento attraverso lo sport. Sostenendo le esperienze che nella società lasciano un segno di speranza, di impegno quotidiano rivolto a chi rimane indietro, a chi è più debole. E lo si fa senza alibi, perché anche l’edilizia popolare è “energy zero”, senza impatto sull’ambiente, e senza prescindere dal concetto di città: solida e solidale.

Solidale è un’immagine su tutte: quella delle biciclette realizzate da detenuti ed ex detenuti delle carceri fiorentine, rimesse sul mercato come prodotto della creatività, simbolo di rinascita per l’intera città e modello da far conoscere ai bambini, ai ragazzi, nelle scuole. Perché è da lì che partiamo. È da lì che diventiamo adulti, è da lì che si comincia a cambiare. Lo facciamo costruendo più asili nido, dove non arriva il pubblico da solo sostenendo quelli aziendali. Lo facciamo riducendo del 90% le liste di attesa. Lo facciamo chiedendo ai ragazzi delle scuole di scegliere il nome da dare alle vie della loro città guardando ai maestri del Novecento. Lo facciamo così. Perché se un piccolo pezzo comincia a cambiare, sta già cambiando il mondo.

C’è un modo di fare le classifiche dei sindaci che si basa su quale sia il sindaco più amato. Sembra quasi la pubblicità di una cucina. In realtà la vera classifica dovrebbe essere fatta non sulla base di quanto un sindaco sia amato ma di quanto ami il proprio territorio. Perché anche se la radice è diversa, la parola amministrare comprende ed estende la voce del verbo amare. Puoi guidare un paese solo se lo ami. Puoi amministrare un territorio solo se vuoi bene alle persone che lo vivono. Solo con questo spirito si può tentare l’impresa teoricamente impossibile: dimostrare a Firenze che si può vivere non solo di passato, non solo guardandosi indietro, non solo nella nostalgia di quanto fosse bello ciò che non c’è più. C’è un futuro da costruire, adesso. Persino a Firenze.

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