La crisi in Siria e gli interessi strategici dell'Iran

Di Nicola Pedde Mercoledì 03 Ottobre 2012 15:04 Stampa

La crisi siriana sta di fatto modificando gli equilibri mediorientali e mettendo a repentaglio l’alleanza, più strategica che religiosa o ideologica, tra Damasco, Teheran ed Hezbollah in Libano. Il timore di un possibile disfacimento del regime di Assad sta spingendo il governo iraniano verso una revisione della propria politica di alleanze regionali e a proporsi nell’inedito ruolo di mediatore internazionale, con l’obiettivo di salvaguardare la sua integrità territoriale.

L’evoluzione della crisi siriana preoccupa profondamente la Repubblica Islamica dell’Iran, ma non sono state apportate particolari variazioni alla pragmatica strategia di gestione dell’emergenza adottata lo scorso anno in occasione dell’intensificarsi degli scontri a Houla e nelle province occidentali. Tuttavia, sulla spinta delle pressioni di Hezbollah e della Fratellanza Musulmana, l’Iran potrebbe presto trovarsi costretto ad abbandonare l’alleato siriano, oltretutto nel tentativo di proteggere la propria incolumità nella difficile fase che potrebbe seguire alle prossime elezioni americane.

 

ALLEANZE DETTATE DAL PRAGMATISMO

Non è la comune matrice religiosa il principale elemento a garanzia dello stretto rapporto tra l’Iran postrivoluzionario e l’establishment al governo della Siria. Ciò che ha unito i destini di Damasco e Teheran dai primi anni Ottanta a oggi è un interesse di natura squisitamente strategica, finalizzato alla creazione di un blocco di potere regionale articolato e multiforme. Al tempo stesso, la natura della storica inimicizia tra l’Iran e la gran parte dei paesi del Golfo Persico non deriva tanto dalla differente connotazione confessionale dell’Iran sciita rispetto alle monarchie sunnite della sponda ovest, quanto da un antico e radicato timore nei confronti delle ambizioni egemoniche regionali di Teheran, che, con Israele e la Turchia, è l’unico paese non arabo della regione.

La concezione del pensiero strategico iraniano è sempre stata basata, quindi, sul timore dei vicini e, più in generale, sull’isolamento. Questo concetto non è mutato granché nel tempo, restando un caposaldo della politica regionale sia nell’epoca monarchica che in quella postrivoluzionaria. Con la Siria degli al-Assad, l’Iran ha quindi stretto negli anni un patto strategico – e non un’alleanza ideologica –, il cui fine è sempre stato quello di garantire un ampio arco geografico di protezione a uso dei due paesi e del Libano centro-meridionale, dove nel corso del tempo si è imposto il ruolo di Hezbollah.

Ma, anche in quest’ultimo caso, sarebbe superficiale e in larga misura erroneo ritenere che il legame tra il “Partito di Dio” e l’Iran abbia un connotato esclusivamente religioso o, peggio ancora, di diretta e assoluta subordinazione. Hezbollah è cresciuto molto politicamente e socialmente, incrementando la sua autonomia e il suo radicamento sul territorio che gestisce, cosicché non può più in alcun modo essere considerato banalmente come un proxy pronto a obbedire a ogni richiesta dell’Iran. Anche a Teheran ne sono consapevoli, come dimostra l’intenso e non di rado critico dibattito politico sulle milizie sciite libanesi, accusate spesso apertamente di “egoismo” da parte dei non molti parlamentari locali che ancora credono e sperano nella sottomissione del movimento o dei tanti che per lo stesso motivo chiedono invece una riduzione dei generosi contributi economici concessigli dalla Repubblica Islamica.

Pertanto, la natura dell’alleanza e dello speciale rapporto tra Damasco e Teheran non poggia necessariamente, da parte iraniana, sul legame personale con Bashar al-Assad o sulla supremazia dell’élite alawita. Per Teheran è importante poter contare su una condivisione di interessi sul piano regionale e globale, a protezione della propria integrità territoriale e politica. È in quest’ottica, infatti, che si inquadra anche il recente processo di riapertura delle relazioni politiche con l’Egitto di Mohamed Morsi e della sunnita Fratellanza Musulmana. Per l’Iran, un riavvicinamento all’Egitto significa principalmente un’estensione della propria sfera di sicurezza politica e militare, senza però grande interesse per l’aspetto religioso.

E la Fratellanza Musulmana ha chiaramente espresso il proprio giudizio sul regime di Bashar al-Assad, dicendolo con chiarezza proprio in casa degli iraniani nel recente convegno del Movimento dei paesi non allineati, tenutosi a Teheran alla fine dell’estate. Questo non vuol dire, in conclusione, che l’Iran si prepari ad abbandonare l’alleato di Damasco, ma che continuerà certamente con la propria politica pragmatica, fatta al tempo stesso di sostegno diretto e concreto e di lavoro sotterraneo per un eventuale futuro cambio di regime.

 

L’ASPETTO ESTERNO E QUELLO INTERNO DELL’ALLEANZA CON LA SIRIA

Ufficialmente non è cambiato nulla nel rapporto dell’Iran con la Siria. Anzi, la Repubblica Islamica è tra i principali sostenitori delle proteste in sede internazionale per quello che considera un atto di deliberata aggressione a un governo legittimo compiuto da un ben identifi cabile novero di paesi che Teheran non esita a indicare con chiarezza: Stati Uniti, Francia, Arabia Saudita, Qatar e Turchia.

L’Iran è stato tra i primi a denunciare – affermando peraltro il vero – la natura ambigua e alquanto insidiosa di gran parte delle forze che compongono l’eterogenea opposizione siriana, sollevando sin dall’inizio dubbi circa la spontaneità della protesta e, soprattutto, la misura del supporto ai movimenti di opposizione. Non ha mai fatto cessare il suo aiuto diretto e concreto a Bashar al-Assad, rifornendolo di combustibili, armi ed equipaggiamenti ed evitando in tal modo che il regime di Damasco crollasse sotto il peso delle sanzioni internazionali e dell’isolamento che gradualmente ha reciso molti dei suoi rapporti con il resto del mondo.

Teheran, di fatto, ha apertamente sfidato i grandi nemici della Siria, annunciando l’invio di reparti specializzati delle proprie forze speciali con il compito di fornire assistenza e addestramento alle omologhe unità siriane. Questo trasferimento, che avrebbe coinvolto – in modo più o meno inconsapevole – anche l’Iraq, il cui territorio è stato sorvolato dall’aereo che ha portato in Siria gli specialisti dell’IRGC (Islamic Revolutionary Guards Corp o Pasdaran), è stato ufficialmente confermato dagli stessi vertici delle forze armate iraniane e, in modo particolare, dal generale Salar Abnoush, a capo dell’unità di corpi speciali del Saheb al-Amr. La gravità della crisi siriana non sfugge tuttavia ai vertici della Repubblica Islamica, che, sebbene consapevoli della capacità del regime di resistere a lungo agli attacchi dell’opposizione, teme nondimeno la possibilità di un intervento esterno a sostegno di questi e il verificarsi, quindi, di un rapido rovesciamento della situazione a svantaggio dei lealisti e di Bashar al-Assad.

L’ipotesi della possibile fine del regime siriano, quindi, non è considerata in alcun modo peregrina a Teheran, che ha di conseguenza sviluppato e adottato una strategia parallela di gestione del proprio interesse a livello regionale.

Se da un lato, quindi, l’Iran ha genericamente denunciato e condannato le violenze, anche accusando blandamente il governo di aver usato la mano pesante e aver così contribuito alla degenerazione del conflitto, dall’altro ha cercato di inserirsi, in modo del tutto autonomo e non sollecitato, nell’intenso calderone del processo negoziale internazionale relativo alla crisi siriana.

Denunciando abilmente l’evidente incapacità dei principali attori internazionali nel gestire in modo costruttivo quella che è ormai diventata, a tutti gli effetti, una guerra civile, l’Iran si è proposto come mediatore del dialogo con il governo siriano, senza tuttavia riconoscere apertamente come controparte le forze dell’opposizione. Per l’Iran, quindi, il tavolo negoziale ideale sarebbe composto dalla Siria e dagli attori internazionali coinvolti a vario titolo nella crisi, con l’obiettivo di individuare un meccanismo di dialogo atto a favorire un allargamento della piattaforma politica nazionale anche al di fuori della stretta cerchia alawita. Con l’obiettivo, in sintesi, di giocare le proprie carte preventivamente e porsi sin da oggi come interlocutore necessario di qualunque formazione politica dovesse avere la meglio dopo la destituzione del regime di al-Assad.

 

L’INCOGNITA LIBANESE

Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, fu tra i primi e più solerti accusatori delle oscure manovre che caratterizzavano l’opposizione siriana sin dal principio, denunciando le trame occulte dell’Arabia Saudita e del Qatar e mettendo l’opinione pubblica occidentale in guardia dagli effetti del crollo del regime di Bashar al-Assad e dall’ascesa di un coacervo di milizie eterogenee dominate dai gruppi salafi ti. Un’analisi lucidissima, che da un lato tendeva a sostenere lo storico rapporto con la Siria – tradizionalmente tra i grandi promotori e finanziatori di Hezbollah – e dall’altro intendeva allertare l’Europa e gli Stati Uniti, onde evitare di creare una pericolosa concentrazione di forze radicali, in definitiva ostili un po’ a tutti.

Hezbollah aveva anche chiaramente e correttamente previsto il pericolo di una radicalizzazione e militarizzazione del Libano settentrionale, puntualmente avvenuta con il trasferimento di buona parte della logistica delle forze di opposizione, pur nella consapevolezza della capacità di Damasco di reggere all’urto delle forze antagoniste al regime. Senza l’aiuto di una coalizione militare, secondo il vertice politico di Hezbollah, non sarebbe stato possibile rovesciare gli al-Assad e il loro solido e ben equipaggiato apparato militare. E anche questa valutazione ha puntualmente dimostrato la sua validità, spegnendosi progressivamente l’entusiasmo della stampa occidentale, che per mesi aveva di fatto ipotizzato il collasso imminente del regime sotto il peso degli assalti dell’opposizione. Il perdurare della crisi, e soprattutto la sua cristallizzazione, ha tuttavia frustrato le speranze di Hezbollah circa una ripresa generale del controllo da parte del regime con la fine del sanguinoso conflitto locale che, secondo le stime, ha già causato circa 25.000 vittime civili.

Dalla metà dell’estate, quindi, e soprattutto successivamente all’arresto dell’ex ministro libanese Michel Samaha – vicino a Hezbollah e accusato di aver aiutato i siriani nella conduzione di attentati e nel supporto alle loro cellule in Libano – il vertice del Partito di Dio ha raffreddato considerevolmente il tono delle sue esternazioni sulla crisi siriana, parlando per la prima volta apertamente della necessità di avviare un processo di dialogo tra le parti.

Ha sicuramente contribuito a favorire questa svolta anche la sempre più pressante minaccia di un intervento militare israeliano contro l’Iran, unitamente al più generico – ma più ampio – rischio connesso, come sempre, al periodo antecedente alle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Hezbollah, dunque, teme che la situazione in Siria possa stabilizzarsi nell’immediato, per poi deteriorarsi nuovamente a causa di un attacco internazionale o, più semplicemente, di un collasso interno provocato dall’isolamento e dall’impossibilità per Damasco di reggere all’infinito sotto il peso del conflitto e delle sanzioni internazionali. Un esito della crisi, quindi, tutto sommato caratterizzato oggi da ipotesi perlopiù pessimistiche, che potrebbero tradursi in un ulteriore e ben più grave isolamento per Hezbollah se questo dovesse legare in toto il suo futuro a quello della classe dirigente alawita di Damasco. Un prezzo troppo alto, in questo momento, per Hassan Nasrallah.

COSA FARÀ L’IRAN?

L’interesse di Teheran in questo momento è duplice. In primo luogo, deve cercare in ogni modo di evitare che gli israeliani possano organizzare un attacco contro il proprio territorio, soprattutto coinvolgendo gli Stati Uniti nella missione, che in tal caso si concluderebbe in modo disastroso per l’Iran.

Deve però cercare al tempo stesso di consolidare e allargare la propria sfera delle alleanze strategiche a livello regionale, preparandosi all’eventualità di un collasso del regime di Damasco e all’ascesa di una nuova élite politica ostile all’Iran o, quantomeno, non interessata a un rapporto così stretto e solido come quello che ha caratterizzato la storia dei due paesi nel corso degli ultimi trent’anni.

A questo proposito si inserisce con perfetto tempismo il nuovo Egitto di Mohamed Morsi, proponendo all’Iran di ristabilire le relazioni politiche e diplomatiche interrotte alla fine degli anni Settanta e alimentando a Teheran la speranza di poter conquistare in extremis un nuovo provvidenziale alleato regionale capace di colmare, eventualmente, il vuoto lasciato dalla Siria. Sebbene appena iniziato, e in modo sicuramente positivo e incoraggiante, il rinnovato rapporto tra Egitto e Iran non deve essere erroneamente interpretato dall’Occidente come l’emergere di un nuovo arco di alleanze strategiche nella regione. Il pragmatismo della Fratellanza Musulmana, infatti, se mai possibile è anche superiore a quello della Repubblica Islamica, con la quale è altamente improbabile che voglia condividere i propri destini e, soprattutto, rischiare l’isolamento internazionale all’indomani della sua consacrazione ufficiale al vertice della politica egiziana.

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