Le politiche pubbliche per l'innovazione in Italia

Di Maurizio Sobrero Martedì 16 Marzo 2010 18:12 Stampa

Le politiche per l’innovazione sono costantemen­te al centro di molti dibattiti. Il più delle volte, so­prattutto in Italia, tale attenzione è stata più reto­rica che effettiva. In queste pagine si vuole mo­strare come l’importanza di questi aspetti non sia mutata anche a seguito della crisi ancora in atto, ma che è quanto mai opportuno concentrare l’at­tenzione non tanto su politiche specifiche a so­stegno dell’innovazione, quanto su interventi di ri­forma economica più generali in grado di modifi­care strutturalmente le condizioni fondamentali per un effettivo sviluppo delle opportunità di in­novazione nella società italiana.

 

Cosa si intende per politiche per l’innovazione?

Per poter focalizzare adeguatamente l’attenzione sulle politiche per l’innovazione è fondamentale definire, in primo luogo, cosa si intenda per innovazione. L’esercizio non è puramente accademico, anche se può apparire scontato nel 2010, quando questo termine appare con grande frequenza, solitamente connotato positivamente. L’innovazione è il futuro, il miglioramento del presente e l’evoluzione in positivo del passato. L’innovatore è l’agente di questo cambiamento, dotato di visione, capace di superare le resistenze e di realizzare ciò che altri non reputano possibile.
Dovendo semplificare un dibattito lungo e articolato, potremmo certamente scegliere la parola “cambiamento” per cercare di spiegare l’innovazione.1 Ogni innovazione, infatti, comporta il cambiamento di qualche cosa, sia questo un prodotto, un processo produttivo, una pratica amministrativa, una preferenza di consumo o altro. Questo cambiamento può essere marginale o radicale. Solitamente, quando è marginale, le diverse versioni di ciò che è oggetto d’innovazione convivono, mentre quando è radicale, la nuova versione sostituisce quella precedente.
Cosa ingenera questo cambiamento? Due sono i momenti fondamentali: la proposta di nuove idee/soluzioni e la loro implementazione. Per interpretare in chiave attuale le politiche per l’innovazione, dunque, è importante da subito definirle come quell’insieme di interventi che sono volti al conseguimento di questi due obiettivi.

Perché è necessario parlare di politiche per l’innovazione?

Quando si parla di innovazione si ricorre sistematicamente alle intuizioni di Joseph Schumpeter, da un lato sul ruolo delle nuove imprese come portatrici della “distruzione creativa” che consente di cambiare le regole e le tecnologie nei mercati favorendone l’evoluzione,2 dall’altro su quello delle imprese grandi e consolidate che possono, attraverso effetti di scala, garantire la permanenza di investimenti in attività di ricerca e sviluppo in maniera continuativa e sistematica.3 Le prime evidenze empiriche sugli effetti di questi fenomeni, però, sono della fine degli anni Cinquanta e si devono al premio Nobel Robert Solow.4 Da allora, l’attenzione agli effetti economici dei processi innovativi è costantemente cresciuta e le diverse analisi ne mostrano gli effetti positivi sulla crescita, sulle condizioni di vita della popolazione, sull’uso efficiente delle risorse, sulla mobilità sociale e, più recentemente, con particolare riferimento ai cambiamenti portati da internet, anche sulle condizioni di funzionamento dei sistemi politici.
Occuparsi di politiche dell’innovazione è quindi opportuno per intervenire, anche indirettamente, su tutti questi diversi aspetti. È anche necessario perché, in assenza di politiche di sostegno all’innovazione, sia la produzione di nuove idee/soluzioni, sia la loro implementazione, sarebbe inferiore a quanto desiderabile.
Perché sarebbe inferiore? Perché il cambiamento non è mai un fatto indolore e privo di conseguenze. Anzi, spesso è molto faticoso e i suoi effetti, pur positivi se considerati per l’intera società, possono essere molto penalizzanti per chi viene sostituito dalle nuove soluzioni. Le politiche per l’innovazione, dunque, sono necessarie per evitare che le resistenze al cambiamento siano più forti della spinta ad innovare, che produrre nuove idee sia più utile e conveniente che sfruttare quelle già esistenti, che introdurre nuove idee/soluzioni risulti più difficile che continuare a fare ciò che si è sempre fatto. Infine, ma non meno importante, perché il cambiamento porti ad un miglioramento complessivo dell’equità sociale e non favorisca solo alcuni a scapito di molti.

Quali sono gli approcci tipici alle politiche per l’innovazione?

Secondo un’interpretazione meramente economica, le resistenze alla produzione di novità e alla loro introduzione riflettono in larga parte un fallimento dei mercati. Sia sul lato della produzione, cioè sul fronte della ricerca, sia sul lato dell’applicazione e diffusione, cioè sul fronte dello sfruttamento commerciale, i benefici economici di chi è più intraprendente sono tendenzialmente più contenuti rispetto ad un approccio più prudente e ad allocazioni alternative delle risorse disponibili.
Per quanto riguarda la ricerca questo può essere legato ai livelli di incertezza associati ad investimenti ancora lontani dal mercato e alla necessità di lavorare per molto tempo con molte uscite e poche (o nessuna) entrate. Oppure all’indeterminatezza della possibilità di tradurre nuova conoscenza in soluzioni commerciali, sia perché il passaggio dal laboratorio allo scaffale può richiedere ulteriori ingenti investimenti, sia perché, oltre alle nuove conoscenze sviluppate, è cruciale controllare altre risorse complementari senza le quali sarebbe impossibile raggiungere il mercato. Pensiamo per esempio allo sviluppo di un nuovo farmaco, per il quale mediamente ci vogliono circa cinque anni prima di arrivare ai test clinici: qui diventano fondamentali rapporti consolidati con strutture di cura di alto profilo e riconosciuta eccellenza.
Per quanto riguarda lo sfruttamento commerciale, i fallimenti del mercato possono essere legati a sistemi inefficienti di gestione della proprietà intellettuale, che rendono facile copiare per chi è rimasto alla finestra, o la necessità di sviluppare investimenti dedicati per lo sviluppo del mercato che possono poi andare a beneficio anche di altri concorrenti. Ancora, particolarmente rilevanti sono i cosiddetti costi di sostituzione, ovvero tutto ciò che deve essere sostenuto da chi decide di sostituire le vecchie soluzioni con le nuove, soprattutto considerando che molti di questi costi non sono direttamente quantificabili e sono molto legati ai comportamenti e alle abitudini delle persone. Si pensi in questo caso al mondo del software e a come l’effetto di sostituzione dei sistemi operativi basati su codici open source sia elevato nel mondo professionale, ma ancora molto contenuto nei mercati consumer.
Le politiche per la ricerca, indirizzate sostanzialmente alla produzione di nuove idee e soluzioni, sono dunque orientate a promuovere un maggiore livello di investimento e a fare sì che questo avvenga grazie ad un numero più ampio di soggetti rispetto a quello che si avrebbe affidandosi al solo mercato. L’obiettivo fondamentale è l’innalzamento dello stock di novità che possano poi essere introdotte sul mercato. Le politiche per la diffusione delle novità, invece, si concentrano sul lato della domanda e sono dirette a sviluppare sistemi di protezione della proprietà intellettuali più efficienti, a ridurre i costi di sostituzione e, più in generale, a ridurre le barriere all’adozione legate ai vantaggi “storici” delle applicazioni già presenti sul mercato. L’obiettivo fondamentale è innalzare il livello di concorrenza tra le nuove e le vecchie idee/soluzioni.

Qual è la situazione in Italia?

È possibile individuare tre elementi che hanno caratterizzato lo sviluppo delle politiche per l’innovazione in Italia dai quali partire per una riflessione più generale su cosa fare concretamente di nuovo e più efficace in questo campo in un prossimo futuro che rischia sempre di più di essere troppo in là nel tempo.5
La prima osservazione è legata al tipo di politiche che sono state delineate nel corso degli anni. In Italia l’attenzione è stata sistematicamente rivolta ad interventi sul fronte dell’offerta. Questo è vero a partire dall’impianto della prima legge nazionale per il sostegno della ricerca e innovazione, la 1089/1968 istitutiva del Fondo ricerca applicata (FRA), all’evoluzione del programma con la legge 46/1982 che istituiva il Fondo rotativo per l’innovazione tecnologica (FIT), all’impianto della legge 297/1999 e a diversi interventi più recenti legati alle leggi regionali sull’innovazione, così come anche all’impostazione degli sgravi fiscali nelle diverse forme sperimentate in questi anni, per concludere con il programma denominato Industria 2015. Sempre come un potenziamento dell’offerta possono essere intesi gli interventi volti a favorire un maggior ruolo delle università e degli EPR (Enti pubblici di ricerca) nel trasferimento delle conoscenze al mercato, peraltro molto frammentati e difficilmente riconducibili ad un preciso disegno istituzionale, così come il sostegno, progressivamente scemato come mostrano impietosamente tutte le statistiche, all’attività di ricerca di queste istituzioni. La ratio di questa focalizzazione sul fronte dell’offerta è legata ai noti confronti internazionali che mostrano da sempre una forte distanza tra il nostro paese e gli altri sul fronte dell’ammontare di risorse investite in ricerca. Quasi nulla, invece, è stato fatto sul fronte delle politiche per la diffusione.
La seconda osservazione è che la responsabilità politica e di indirizzo delle iniziative in campo di innovazione si è progressivamente frammentata sia a livello di competenze ministeriali sia a livello di distribuzione delle competenze tra Stato e Regioni. Sul fronte ministeriale un primo elemento è quello della progressiva settorializzazione degli interventi. Mentre l’impianto concettuale del FRA e del FIT prevedeva una trasversalità di tematiche e ambiti di interventi (reinterpretata in chiave di piattaforme tematiche intersettoriali dal programma Industria 2015), dalla seconda metà degli anni Ottanta si è assistito alla diffusione di interventi associati a tematiche legate a competenze settoriali quali ad esempio ambiente ed energia, oppure sanità e salute o trasporti, per concludere con la fortissima specializzazione legata al settore aerospaziale e ai relativi programmi collegati, progressivamente confluiti all’interno del gruppo Finmeccanica o, fatto ancora più eclatante, alla costituzione di un ministero (seppure senza portafoglio), dove l’innovazione è confinata al mondo delle ICT (Information and Communication Technologies) e ad una sua applicazione alla pubblica amministrazione. A questa tendenza, con l’applicazione della riforma del Titolo V prevista dalla legge costituzionale 3/2001, si è aggiunta l’intraprendenza delle principali Regioni nell’applicazione del principio di potestà concorrente in materia di ricerca e innovazione e il lancio di politiche e leggi regionali, anch’esse molto concentrate sul lato dell’offerta e spesso analoghe nell’impianto agli strumenti nazionali, oppure interpretando il problema della domanda in maniera limitata, seppure importante, come legato al rapporto tra istituzioni di ricerca e impresa. Ciò è avvenuto in un periodo di sostanziale limbo delle politiche nazionali, dunque limitando possibili inefficienze legate a duplicazioni negli interventi, che però rimangono un elemento rilevante da prendere in considerazione. Contemporaneamente, la distanza dalle politiche europee si è fatta abissale, sia sul fronte del coordinamento con le politiche nazionali, sia sul fronte della distinzione di ruoli e funzioni, come è concretamente possibile rilevare dall’influenza indiretta esercitata sulle politiche regionali dal crescente utilizzo di fondi strutturali per il sostegno dell’innovazione sul territorio.
La terza considerazione riguarda l’assoluta assenza dal dibattito dell’importanza del funzionamento dei mercati per una reale efficacia delle politiche a sostegno della ricerca. Non solo l’attenzione a politiche rivolte alla diffusione è stata praticamente assente, ma si è dato per scontato che, una volta sostenuta l’offerta, le condizioni per una diffusione dei risultati derivanti da questo sostegno fossero già presenti e ben funzionanti. Purtroppo le cose non stanno così su diversi fronti, come ci ricordano copiosi dibattiti sulla debolezza della concorrenza nel paese in diversi settori, sull’inefficienza di alcuni elementi strutturali tra i quali recentemente ha attirato molta attenzione il livello di sviluppo tecnologico delle reti di telecomunicazioni, oppure la fortissima regolamentazione delle istituzioni di ricerca, formalmente spinte a comportarsi in maniera imprenditoriale, ma nei fatti bloccate da regolamenti di funzionamento e da caratteristiche dei contratti di lavoro totalmente inadeguate a giocare davvero questa partita.

E ora cosa si fa?

La prima cosa da fare è capire se si vuole continuare a parlare dell’importanza di questi temi oppure se si ha intenzione di fare davvero qualche cosa. Augurandosi che prevalga la seconda opzione, un intervento tecnico dovrebbe essere preceduto da un segnale politico, attraverso la creazione di una figura istituzionale focalizzata sulle politiche per l’innovazione con il compito specifico di indirizzo e coordinamento delle competenze ora frammentate. Nell’attuale caratterizzazione istituzionale ciò può essere realizzato attraverso un poco realistico “spacchettamento” delle competenze in materia tra i vari ministeri interessati e una riattribuzione con relative risorse ad un ministero ad hoc, oppure da un presidio istituzionale incardinato nella presidenza del Consiglio, con specifici obblighi di coordinamento interministeriale in materia che condizioni l’effettivo utilizzo delle risorse allocate.
Acquisita questa legittimazione politica, come secondo passaggio è importante affermare il principio secondo il quale le risorse investite nel sostegno dell’offerta sono sprecate se non si interviene anche sulla domanda. Anche ragionando a risorse costanti e non avendo alcuna aspettativa che l’attuale situazione del debito pubblico consenta interventi in questo senso in grado di essere politicamente sostenibili, è concretamente possibile lavorare attraverso riforme a costo zero che intervengano sulla concorrenza, sul mercato del lavoro dei ricercatori dove competenza e merito siano preferiti a privilegi e stabilità, sul coordinamento con le politiche europee e ancora di più con quelle regionali, per esempio per un più efficace utilizzo dei fondi strutturali.
Il terzo passaggio, in parte legato alla necessità di pensare a nuovi investimenti, è una riconsiderazione del ruolo della domanda pubblica, ritualmente considerata fonte di sprechi, inefficienze e corruzione che è invece, come si può ben vedere dai documenti di indirizzo dei piani di investimento in ricerca e innovazione dall’Europa agli USA alla Cina, un elemento trainante per lo sviluppo dei mercati per le nuove tecnologie. Si pensi a casi concreti come quello della sanità, che non vuol dire solo acquisto di farmaci, ma di un vastissimo insieme di beni ad alto contenuto tecnologico (ad esempio apparecchiature, strumenti, protesi, prodotti biomedicali ecc.). Oppure a quello dei trasporti, dove la componente di investimento pubblico rimane di gran lunga prevalente, senza tralasciare l’adozione di ICT di cui si parla già da tempo. Qui un forte sostegno agli strumenti più evoluti del public procurement, come ad esempio il dialogo competitivo, già previsti sul piano normativo dalle direttive europee sugli appalti pubblici, può rappresentare un modo concreto di intervento su regole fondamentali senza necessità di copertura finanziaria.
Più complesso per le attuali condizioni della finanza pubblica, ma non meno rilevante in un momento di stagnazione con prospettive di crescita contenute anche nel medio termine, è il tema degli investimenti in grandi infrastrutture abilitanti. Questo è un campo spinoso anche sul fronte del dibattito politico, poiché prevede un’inversione di tendenza sul ruolo del pubblico in beni che sono stati profondamente cambiati dal processo di privatizzazione. L’accesa discussione sul possibile scorporo della rete da Telecom Italia è indicativa in questo senso e l’apparente soddisfazione dei privati rispetto allo stanziamento recente dei fondi per la banda larga (invero molto contenuti) è un chiaro segnale dell’impossibilità di attivare investimenti concreti e significativi su queste infrastrutture senza un diretto impegno del pubblico. Senza troppe timidezze è necessario riconoscere che il ruolo dello Stato in economia è insostituibile sul fronte dei beni pubblici e che alcuni di questi sono fondamentali per lo sviluppo di innovazione. Senza investimenti pubblici non ci sarebbe internet. Senza la nazionalizzazione delle società elettriche negli anni Sessanta non avremmo una rete come quella attuale, e lo stesso si può dire per le ferrovie. Senza intervento dello Stato non sarebbe cominciata l’esplorazione dello spazio, né avremmo beneficiato di una serie lunghissima di innovazioni che si sono direttamente tradotte in applicazioni concrete a cui facciamo riferimento quotidianamente.6 Se vogliamo che parole come NGN (Next Generation Networking), Smart Grid e cose simili non restino sigle anonime, bisogna avere il coraggio di orientare la spesa pubblica non solo su ponti e strade, ma anche sulla riorganizzazione delle infrastrutture abilitanti, inclusi gli assetti proprietari.
Da ultimo, ma non meno importante, appare opportuno segnalare il ruolo della formazione del capitale umano. Le nuove idee non nascono sotto i cavoli, ma dall’intelligenza e dal sapere delle persone. Investire nell’istruzione significa creare le basi per poter ottenere dei frutti collettivi di queste intelligenze e di questi saperi. Ciò passa certamente attraverso investimenti nel corpo insegnante e nelle infrastrutture, ma anche attraverso il sostegno costante ai capaci e meritevoli, così come previsto dall’articolo 34 della Costituzione.
Per realizzare politiche per l’innovazione, dunque, è necessario smettere di pensare solo alla ricerca e allo sfruttamento commerciale come monadi “splendidamente isolate” dal contesto e reinterpretare invece in chiave moderna il concetto di sviluppo e welfare basato sull’innovazione.

 


 

Note

[1] M. Sobrero (a cura di), La gestione dell’innovazione tecnologica: strategia, organizzazione e tecniche operative, Carocci, Roma 1999.

[2] J. A. Schumpeter, Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung, Dunker & Humbot, Lipsia 1912.

[3] Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, Harvard University Press, Cambridge MA 1942.

[4] R. M. Solow, Technical Change and the Aggregate Production Function, in “Review of Economics and Statistics”, 3/1957, pp. 312-20.

[5] Non è qui possibile analizzare i vari strumenti e interventi che si sono susseguiti in Italia poiché ciò andrebbe oltre lo spazio disponibile ed è già stato fatto in molte altre sedi e documenti di studio e di programmazione, tra i quali vale la pena citare l’ultimo Piano nazionale per la ricerca. Lascio il confronto internazionale al contributo di Andrea Bonaccorsi, che consente di leggere in chiave comparativa con i principali paesi europei queste osservazioni.

[6] Cfr., ad esempio, NASA Home and City 2.0 disponibile su www.nasa.gov/externalflash/nasacity/index2.htm.