Innovazione e modello di specializzazione dell'industria italiana

Di Pietro Modiano Martedì 16 Marzo 2010 18:17 Stampa

Il modello di specializzazione dell’industria italiana è notoriamente orientato su settori definiti tradi­zionali e a tecnologia media e medio-bassa. È un modello eccentrico rispetto a quello degli altri pae­si più avanzati, ma che non ha impedito, negli ul­timi anni, una sostanziale tenuta del nostro siste­ma manifatturiero, smentendo profezie di declino. Una tenuta garantita – oltre che da costi del lavo­ro contenuti rispetto agli altri paesi industriali – an­che e soprattutto da forti innovazioni nelle tecno­logie e dalla qualità dei prodotti, che si riflettono nella crescita dei valori medi unitari delle produzioni nazionali.

 

Ormai trenta anni fa, in uno studio allora pionieristico sulla competitività dell’industria italiana, Fabrizio Onida e un gruppo di allora giovanissimi collaboratori identificarono, con un lavoro certosino sulle statistiche, i tratti caratteristici più minuti del modello di specializzazione dell’industria italiana nel confronto internazionale.1 Essa era a rischio, si documentò, per una carenza strutturale di capacità innovativa: era sbilanciata verso settori, sottosettori e prodotti di tipo tradizionale, a bassa crescita della domanda mondiale e a bassa tenuta di fronte alla concorrenza dei paesi emergenti, mentre appariva debole nei settori a più altro contenuto di ricerca e sviluppo, destinati ad acquisire via via peso nel commercio mondiale, a tutto vantaggio dei paesi più avanzati e meglio collocati sotto questo profilo. Un modello anomalo, che già alla fine degli anni Settanta appariva inadeguato alle tendenze di fondo della divisione internazionale del lavoro, e pareva di conseguenza destinato a condannare l’Italia ad una crescita relativamente bassa, compressa da un vincolo esterno reso rigido dalla tendenza contemporanea all’aumento della propensione ad importare e alla riduzione delle quote delle esportazioni. O si imprimeva una decisa svolta a questo modello, preservandone e valorizzandone i punti di forza (la meccanica strumentale) e superandone i limiti (troppo tessile-abbigliamento-calzature-mobili e poca tecnologia) o il declino era inevitabile.
Trent’anni dopo, mentre ci interroghiamo sul dopo-crisi e l’innovazione, siamo ancora a fare i conti con la stessa anomalia, già allora ben identificata. Il modello di specializzazione italiano non è, nella sostanza, cambiato; è ancora largamente quello di trent’anni fa, con l’aggravante – in questi ultimi dieci-quindici anni − di una scomparsa quasi totale della grande impresa, a cui si affidava (si pensi ad esempio alla chimica) il compito di trainare la svolta in direzione di contenuti maggiori di tecnologia e ricerca. E da allora, i problemi di crescita relativa della nostra economia si sono manifestati con grande evidenza attraverso un tasso di sviluppo del PIL in termini reali fra i più bassi del mondo, e una crescita della produttività molto modesta.
Tutto chiaro, quindi? Quel modello di specializzazione che sarebbe dovuto cambiare, indirizzando l’offerta verso settori a più alto contenuto di tecnologia e innovazione, cambiato invece non è, ed è il non averlo fatto, si dice, che avrebbe condannato l’Italia al declino. È una diagnosi che certamente ha il pregio della semplicità, e che è stata ripetuta senza problemi e senza sforzi critici in ogni occasione in cui si è parlato appunto di innovazione e crescita. Ma che è troppo semplice per essere vera, e poco convincente, a parere di chi scrive.
La specializzazione non è cambiata e la crescita è stata bassa. Ma la correlazione è solo apparente. Il caso italiano è, in realtà, l’esempio − abbastanza straordinario e non “da libro di testo” − di un’industria manifatturiera che ha saputo tenere le sue posizioni sul mercato mondiale nonostante una specializzazione eccentrica e, in teoria, sfavorevole. Perché la crescita dell’economia italiana è stata inferiore rispetto a quella di molti altri paesi direttamente concorrenti, in presenza non di un crollo o di un calo relativo, ma di una tenuta significativa (in particolare negli anni difficili del dopo euro), della manifattura e delle esportazioni, che hanno quindi contenuto, e non già promosso, il declino.
Bisogna ovviamente intendersi sui dati, cercando di evitare le trappole di evidenze fuorvianti. Il dato principale che mette in discussione la tesi di senso comune di un “declino da manifattura debole” perché a basso contenuto di innovazione e tecnologia è quello delle quote delle esportazioni italiane, che nel 2007 erano – a prezzi correnti – più o meno stabili, in rapporto a quelle degli altri paesi industriali − la Cina e l’India hanno conquistato quote da tutti, ovviamente − sui livelli del 2000. Nonostante l’euro. E poi, all’interno dell’area euro, l’evidenza di un peso del manifatturiero italiano su quello complessivo dell’area in crescita dal 2000, con una flessione rispetto alla Germania ma una forte ripresa rispetto alla Francia. E se ne possono aggiungere altri, tutti convergenti.2
Ma se questo è vero − e lo è − che cosa significa? Che in questi anni abbiamo scoperto la ricetta per crescere, in mezzo all’economia globale, stretti fra Cina e Silicon Valley, restando senza ricerca, tecnologia, innovazione? E che dunque va bene così? La conclusione non è questa, ma capire qual è il punto di partenza è importante. Anzitutto, bisogna intendersi sui termini. Tecnologia e innovazione sono cose diverse. Ciò di cui soffre la nostra industria è una bassa percentuale di produzioni a tecnologia sofisticata, di quelle che negli anni recenti hanno caratterizzato i progressi della manifattura mondiale. Nei settori della chimica, della farmaceutica, dell’Information and Communication Technology (ICT) l’Italia partiva già debole negli anni Settanta e in seguito si è indebolita ulteriormente.
Sono stati tuttavia trasformati i settori produttori di beni di consumo tradizionali, quelli in cui la specializzazione italiana era già marcata e si è ulteriormente rafforzata, divenuti da settori difesi dai bassi costi di produzione a settori dominati dall’innovazione di prodotto. L’Italia ha affidato per due decenni – gli anni Settanta e gli Ottanta – la sua tenuta industriale alle tecnologie di processo, volte a risparmiare lavoro per unità di prodotto. Il ventennio successivo è stato dominato invece dall’innovazione di prodotto, il cui riflesso statisticamente più evidente è nell’aumento dei valori medi per unità di prodotto delle esportazioni e nell’aumento dei prezzi (deflatori del prodotto lordo, in termini tecnici) della manifattura. I dati sono abbastanza clamorosi, ancorché poco noti. L’Italia accresce, dal 2000 al 2008, i valori medi unitari dell’export del 27% contro il 13% dell’area euro, e i deflatori del prodotto manifatturiero del 19% contro il 9% dell’area euro. Con un’inflazione al consumo e all’ingrosso allineata a quella degli altri paesi, è evidente il contributo di un cambiamento dei mix qualitativi delle produzioni che non ha avuto uguali, che spiega per intero l’accennato aumento (dal 18,8% al 19,3%) del peso del manifatturiero italiano sull’area euro nel corso del periodo e la tenuta delle quote di esportazione in valore. Un’evidenza difficile da conciliare con l’idea di una manifattura debole e poco innovativa. Ma che riconcilia i dati macro con le evidenze micro di un manifattura italiana profittevole più di quella dei concorrenti diretti, e che è rimasta tale anche negli anni difficili − e che le profezie immaginavano catastrofici − della rivoluzione dell’ICT, dell’euro, della crescita della Cina, della bassa domanda interna.
Una capacità di innovazione industriale vera, che si è associata al perdurante contenimento dei salari − oggi, misurati per unità di fatturato, ai livelli più bassi dell’area euro − per sostenere, fino alla vigilia della crisi, competitività, produttività, margini di profitto. Ma è un’innovazione tutta microeconomica, intra-aziendale. Alla trasformazione delle gamme di prodotto dentro le aziende, e al turn over molto accentuato fra aziende di successo – quelle con i nuovi prodotti − e aziende scomparse – quelle non innovative − all’interno dei diversi settori, si è accompagnata una staticità quasi assoluta nella configurazione settoriale dell’industria. È successo tutto “dentro” i settori, e in particolare in quelli tradizionali (inclusa la meccanica strumentale), ma niente “fra” i settori: nessuna crescita del peso di chimica, farmaceutica, ICT; dopo trent’anni, prevalgono ancora beni di consumo e meccanica strumentale (e anche buoni acciai). Ma così si è pur sempre affermata una capacità innovativa efficace, anche se all’italiana: poco misurabile dalle statistiche, incrementale, di perimetro limitato, non pervasiva nel complesso dell’industria e, alla fine, con poche ricadute sulla nostra società. E questa è la sua (la nostra) vera natura, il suo limite intrinseco, la vera minaccia per il futuro.
È anche il riflesso, probabilmente, della storia italiana e della sua stessa geografia economica, fatta di decentramento senza centro, ottima nella qualità delle realtà piccole, che siano imprese o che siano città, pessima nella creazione e sfruttamento di economie di scala, nella circolazione aperta delle idee fuori dai confini invisibili delle comunità locali. Un paese senza gerarchia urbana, in cui le economie di agglomerazione non generano graduatorie di valore e eccellenze riconosciute, ma si fermano a pochi chilometri da centri cittadini in più o meno paritetica concorrenza. Da qui la compresenza tutta italiana di forza microeconomica e debolezza macroeconomica (e civile); da qui – e prima che dalla incapacità dei governi di spendere in ricerca e sviluppo – l’origine e i limiti del nostro modello di innovazione e tecnologia. Nelle comunità locali (almeno in quelle più fortunate del Centro e del Nord) si vive abbastanza bene, e il controllo sociale induce gli imprenditori a resistere, non arrendersi e a innovare; ed è ciò che hanno fatto. E ad essere anche giustamente fieri di sé.
In un paese siffatto, chi avesse guardato dall’alto la composizione settoriale della nostra economia e il suo basso tasso di crescita, e avesse criticato questi imprenditori di successo attribuendo alle loro imprese – “troppo piccole, troppo familiari, troppo tradizionali, troppo poco tecnologiche” − le cause dei mali dell’economia si sarebbe messo, anche politicamente, nei guai.
E avrebbe sbagliato bersaglio. Perché il problema non è – fortunatamente – nella microeconomia, che regge. Ma è tutta nei meccanismi di interazione – politica, infrastrutturale, culturale, finanziaria − fra territori e fra centro e periferia. E il declino manifatturiero non è il rischio principale contro cui orientare le politiche; lo è piuttosto la frammentazione crescente di un paese che, forte e presuntuoso nelle periferie forti, privo di elementi di coesione, veda spegnersi le energie microeconomiche prima che i loro effetti si siano diffusi alle aree strutturalmente e storicamente deboli per carenza di imprese, di infrastrutture, di legalità. Ma questo è un altro tema.
Rimanendo nel concreto dei processi di innovazione, si consideri questo esempio chiarificatore: nelle oltre settanta università italiane sono fioriti in questi anni centinaia (erano quasi cinquecento a fine 2008) di progetti di innovazione tecnologica “vera”, di quelli di frontiera, suscettibili di generare start up imprenditoriali di successo e di avviare una più forte presenza italiana in settori a lungo negletti (ICT, biotech, energia). È il prodotto piuttosto clandestino, ma positivo, della numerosità dei centri universitari, tanto spesso (e non sempre a sproposito) criticata, e della qualità di molti di loro, anche lontani dalle città maggiori. Ma allora dove sta il problema, se nonostante questo buon numero di iniziative poco si muove sul fronte delle tecnologie, almeno in apparenza? Il problema è nella loro frammentarietà e dispersione, anche geografica, in presenza della quale la stessa finanza più disponibile e innovativa si trova a mal partito. Se tutti quei progetti fossero nati o si fossero concentrati attorno ad uno stesso campus, si può argomentare, avremmo una sorta di Silicon Valley italiana. Le economie di agglomerazione avrebbero concentrato infrastrutture, competenze, finanza, che avrebbero a loro volta generato un modello in grado di crescere su se stesso, di autoalimentarsi e diffondersi.
Un fondo di venture capital pronto a investire, invece che perdere tempo a cercare qua e là occasioni in territori lontani e disparati, avrebbe impiegato meglio il suo tempo − anche quelle sono spesso organizzazioni piccole − organizzando presto e bene i suoi beauty contest, facendo meglio la selezione, investendo prima e con più convinzione. Con un’offerta di tecnologia ordinata e geograficamente concentrata è più facile fare scouting e investimenti, e lo testimoniano gli USA, o la Svizzera, per non parlare di Israele. La natura e la storia ci hanno però assegnato un paese lungo, non concentrato, privo di centri d’eccellenza indiscussi e storicamente costituiti come tali, e con virtù − e oggi forse con classi dirigenti − territorialmente e spazialmente identificate, protette, valorizzate.
Ma la tecnologia, e la buona volontà politica e amministrativa, possono aiutare dove storia e geografia rendono le cose difficili. Se si partisse ancora una volta dall’alto, a riformare modelli di specializzazione, si sbaglierebbe. I governi potrebbero anche spendere l’1% del PIL in ricerca e sviluppo, ma non cambierebbe niente.
Come ricordava Patrizio Bianchi nel suo intervento sui sistemi di innovazione regionali in un convegno di qualche mese fa (Second Conference of the Turin Euro-Latin American Forum, Santiago de Compostela, 2 aprile 2009) non è più il tempo di impegnare tempo e risorse per capire i distretti e creare sistemi nazionali di innovazione. Roba da anni Ottanta. I distretti hanno già funzionato, le piccole e medie imprese (PMI) hanno sostenuto la crescita, il sistema nazionale di innovazione è parte di una vecchia concezione di politica industriale.
C’è spazio ora per lavorare su livelli intermedi − regionali in primis − fra territori e Stato, a partire dalle “cose locali” esistenti, imprese e università, per quanto si ritengano troppo piccole e territorialmente limitate, valorizzandone i caratteri, coordinandole, creando esempi di portata sovralocale. Ci sono regioni (l’Emilia Romagna, per esempio) che si sono date strumenti funzionanti, altre in cui tutto resta affidato alla spontaneità: varrebbe la pena farne un tema importante in vista delle prossime elezioni regionali. E ci sono casi di successo – ad esempio il polo di Mestre, i risultati del Politecnico di Torino, iniziative a Napoli e in Campania − per mettere insieme università e imprese, imprenditori e finanza, promuovere infrastrutture (sedi e laboratori inclusi) non alla portata dei singoli. Poi, ci vuole disciplina: i casi di successo vanno messi regolarmente a confronto, valorizzati e generalizzati; ma questa è una prassi poco frequente, senza che ognuno ricominci da capo nella sua realtà diventando autoreferenziale. Così si crea un sistema, e progressivamente si influenza in modo positivo l’intera economia del paese. Il progetto Industria 2015 era ed è il “contenitore” giusto sotto questo profilo.
Il punto è riconoscere che non si parte da zero, che non si devono sbagliare bersagli e priorità per inseguire modelli non adeguati, e che le energie territoriali e microeconomiche alle quali il paese si è affidato in questi anni – per necessità e per virtù – hanno retto e sono in grado di fornire ancora una piattaforma per il futuro.
Bisogna anche valorizzare i centri di eccellenza esistenti, copiare senza complessi le nazioni più avanzate, non sperare di inventare ogni volta modelli italiani o vie italiane. Se queste si affermeranno, tanto meglio. Ma intanto, scopriamo, censiamo e riconosciamo ciò che di buono c’è, nonostante tutto, e da lì partiamo.
Le banche, non si può evitare di farne cenno, hanno un ruolo che può essere importante. Qui il tema non è la loro propensione o meno a finanziare in generale l’innovazione, che è tema troppo vago e che si presta a risposte generiche, ma quello del loro ruolo nella diffusione dei processi locali di innovazione e sviluppo, e quindi dell’adeguatezza della struttura del sistema bancario all’assetto territoriale del nostro sistema competitivo. Oggi, a grandi fusioni avvenute, il rischio è di lasciare i territori alle sole banche minori, affidando a quelle nazionali compiti da reti di vendita, presenti con un ruolo nazionale solo sui grandi dossier finanziari, ma non attive nel favorire la diffusione dello sviluppo. La grande banca nel nostro paese può essere invece una moderna infrastruttura (come la nuova autostrada del sole), in grado di connettere le economie territoriali, valorizzarne e selezionarne le eccellenze, dovunque annidate, contribuendo a disciplinarle, mettendone l’esperienza a fattor comune.
Su tutti i fronti, del governo nazionale e locale, della finanza, dell’università, anche l’innovazione e la tecnologia sono una partita da giocarsi sul crinale da sempre così delicato del rapporto fra territori e Stato, centro e periferia, aree deboli e aree forti, senza velleità di centralismo, senza miti, senza particolarismi e provincialismi, partendo dai non pochi, ma spesso non palesi, punti di forza esistenti.

 


 

Note

[1] Cfr. F. Onida, Industria Italiana e Commercio Internazionale, Il Mulino, Bologna 1978.

[2] Per questo si rimanda a A. Lanza, P. Modiano, L’industria italiana di fronte alla crisi e al giudizio delle banche, in “Economia e Politica Industriale”, vol. 36, 4/2009.