Gli elementi necessari per lo sviluppo delle energie rinnovabili in Italia

Di Henri Baguenier Venerdì 10 Settembre 2010 09:01 Stampa

Una corretta valutazione dell’economicità dell’investimento in energie rinnovabili deve tenere conto del complesso quadro istituzionale, legale ed economico in cui l’investimento si inserisce, oltre che delle caratteristiche specifiche e delle opportunità di finanziamento dell’investimento stesso. Ma non può tralasciare alcune indispensabili considerazioni sul sistema di incentivazione o tariffario adottato dal paese in cui si intende compiere l’investimento. In un contesto di crisi finanziaria e di austerità come quello attuale molti governi, compreso quello italiano, stanno rimettendo in discussione le tariffe e gli incentivi applicati per le energie rinnovabili. Il confronto con quanto fatto in altri paesi dell’Unione europea può essere utile per una più corretta definizione del problema e per l’individuazione delle soluzioni più adeguate.

«Tutto ciò che è semplice è falso,
Tutto ciò che è complicato è inutile».
Paul Valéry

                                                               «Nella pratica la teoria è altro».
João Capiberibe[1]

 

Considerazioni preliminari

A partire dalla fine dello scorso millennio, l’Italia è entrata a far parte del club ancora relativamente ristretto dei paesi che hanno conosciuto una crescita reale nella propria produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, pur restando ancora piuttosto lontana, in termini assoluti, da paesi come la Germania o la Spagna o, in termini relativi, da paesi più piccoli come la Danimarca o il Portogallo. Questa crescita si è concentrata in un primo momento soprattutto sull’eolico e, negli ultimi anni, sul solare fotovoltaico. Le ragioni principali di questa crescita sono note e spesso strettamente correlate: sicurezza e diversificazione degli approvvigionamenti energetici, preoccupazioni ambientali, rispetto degli impegni internazionali (direttiva europea del 2001 sulla produzione di elettricità rinnovabile, protocollo di Kyoto ecc.). Le stesse ragioni dovrebbero condurre ad un proseguimento e perfino ad un’accelerazione di questa crescita perché i loro effetti si ritrovano oggi amplificati, in particolare in virtù del rafforzamento degli impegni internazionali assunti dall’Italia (obiettivi europei vincolanti per il 2020 in materia di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra e della quota di rinnovabili nel consumo di energia) e della sempre maggiore incertezza sulle condizioni (in termini di prezzo e quantità) di approvvigionamento a lungo termine delle materie prime energetiche non rinnovabili (petrolio, carbone, gas naturale, uranio).
Per tenere fede ai propri impegni internazionali e rafforzare la sicurezza dei suoi approvvigionamenti una condizione necessaria per l’Italia è, in ogni caso, la crescita forte della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. Non si tratta tuttavia di una condizione sufficiente, poiché l’efficienza energetica e un autentico sviluppo delle fonti rinnovabili per la produzione di carburante e di calore sono elementi altrettanto indispensabili.
Questa necessaria crescita dovrà tradursi in investimenti considerevoli nella realizzazione di nuova capacità produttiva che si possono grosso modo stimare intorno ai 70 miliardi di euro in dieci anni (di cui 27 miliardi per l’eolico e 17 miliardi per il fotovoltaico). Perché la previsione divenga realtà è però necessario dare una risposta ad alcuni interrogativi: in quali tecnologie saranno fatti gli investimenti? Chi saranno gli investitori e come convincerli a investire? Chi finanzierà gli investimenti e a quali condizioni? Le risposte a queste domande sono strettamente legate tra loro, e tutte sono condizionate dal quadro istituzionale, legale ed economico nel quale questo sviluppo è chiamato a farsi... o a non farsi.

Il quadro degli investimenti

Perché un investitore decida di investire nella produzione di elettricità da fonti rinnovabili a partire da una data tecnologia esistono un certo numero di condizioni preliminari.
In primo luogo deve avere l’autorizzazione a investire, vale a dire ottenere tutti i permessi, le licenze e gli altri documenti amministrativi necessari. Senza voler esprimere un giudizio di merito, bisogna constatare che in Italia, come in molti paesi, è sempre più difficile (dunque lungo e costoso) ottenere tali autorizzazioni. Davanti alla moltitudine di enti concedenti (anche se tutto si suppone concludersi con un’Autorizzazione unica), alle più o meno fondate opposizioni locali di gruppi di pressione, alla spada di Damocle dei ricorsi giuridici dai tempi sempre lunghi e dall’esito incerto, il potenziale investitore si trova ad affrontare un percorso di guerra, dalla conclusione tanto più aleatoria in quanto gli ostacoli che deve superare vengono frequentemente modificati. Senza essere lassista, è necessario offrire agli investitori un sistema coerente e stabile per il conseguimento delle autorizzazioni. La concessione di un’autorizzazione non deve essere vista come una forma di tassazione a priori degli investimenti.
In secondo luogo è necessario avere la garanzia dell’assorbimento della propria produzione, vale a dire avere accesso alle reti elettriche senza ostacoli tecnici infondati e a costi giustificati, nel rispetto della legislazione comunitaria che dà alle rinnovabili una priorità di accesso alla rete.
Bisogna infine avere una visione chiara della dimensione economica del proprio investimento, ovvero quali sono i costi che si dovranno sostenere lungo la vita del progetto e in particolare quelli che non dipendono dalla sua gestione come le imposte; quali sono gli introiti che ci si può aspettare dall’investimento. Quando si produce elettricità, l’introito è la remunerazione che si ottiene dalla vendita della propria produzione. In funzione dell’ammontare dell’investimento, delle condizioni di finanziamento e dei diversi costi che il progetto sosterrà nel corso della sua vita, il livello atteso di tale introito condizionerà la decisione dell’investitore.

La remunerazione dell’elettricità da fonti rinnovabili e la necessità di regimi speciali

Gli investimenti nei progetti di produzione di elettricità da fonti rinnovabili, a prescindere dalla tecnologia utilizzata, hanno quale caratteristica comune quella di essere a rilevante intensità di capitale, di concentrarsi in generale nell’arco di pochi mesi durante la fase di costruzione degli impianti, di avere costi operativi e di manutenzione non trascurabili ma il cui peso è ridotto se comparato ai costi in termini di capitali. Presentano invece un vantaggio nel loro avere costi di produzione immuni dai rischi connessi al variare dei prezzi delle materie prime energetiche; un inconveniente di primaria importanza è dato invece dalla grandissima sensibilità della loro redditività alle eventuali variazioni dei prezzi di vendita dell’elettricità da loro prodotta e all’oscillazione dei tassi di interesse sui capitali chiesti in prestito. È questo specifico svantaggio, spesso amplificato dall’apertura del mercato dell’elettricità e del regime di formazione dei prezzi sui mercati europei, ad aver spinto la quasi totalità dei paesi dell’Unione europea a mettere in atto regimi tariffari speciali, con l’obiettivo di assicurare una prospettiva di lungo termine agli investitori. Questi regimi speciali dovrebbero consentire una adeguata remunerazione degli investimenti (adatta a raggiungere gli obiettivi prefissati) senza falsare la concorrenza tra gli attori del settore elettrico e riducendo l’impatto sul prezzo dell’energia per i consumatori e/o i contribuenti.
Dopo il varo delle prime politiche volontaristiche per lo sviluppo della capacità di produzione di elettricità da fonti rinnovabili adottate in seguito agli shock petroliferi del 1973 e del 1979, i paesi pionieri in questo campo come la Germania, la Danimarca o gli Stati Uniti del presidente Carter hanno compreso la necessità di mettere in atto regimi tariffari speciali. Nel contesto del settore elettrico dell’epoca, essenzialmente composto di monopoli, privati o pubblici, che controllavano i mercati dell’elettricità, e di fronte al disinteresse (e perfino all’ostilità in alcuni casi) delle compagnie elettriche rispetto alle prospettive di sviluppo di queste tecnologie, le autorità imposero ai sistemi elettrici dei propri paesi obblighi di acquisto di tutta l’elettricità prodotta a partire da alcune fonti rinnovabili, garantendo agli investitori una tariffa di acquisto certa per un determinato periodo di tempo. Questo sistema, nei paesi che l’hanno applicato in maniera continuativa (non è stato questo il caso degli Stati Uniti dopo la presidenza Carter, mentre lo è stato per la Spagna e il Portogallo), ha permesso loro non soltanto di divenire quelli che, in valore assoluto o relativo, producono più elettricità da fonti rinnovabili (se si escludono i grandi impianti di produzione di energia idroelettrica) ma anche di diventare potenze industriali in alcune filiere tecnologiche (eolico, termo-solare e fotovoltaico).
Questo sistema basato sull’obbligo di acquisto a prezzi garantiti, universalmente noto oggi con il nome di feed-in system, via via che gli investimenti e la produzione prendevano una certa ampiezza, ha sollevato le critiche non soltanto di coloro che ritenevano che sviluppare le rinnovabili non fosse una priorità, ma anche di coloro che credevano che tale sviluppo potesse essere raggiunto, con un costo inferiore per i consumatori, introducendo altri meccanismi. Nel contesto ideologico neoliberista degli ultimi due decenni del Ventesimo secolo, la nozione di prezzo garantito era sinonimo, per molti, di rendita e di inefficacia, mentre l’idea di concorrenza era sinonimo di efficienza.
Questi meccanismi alternativi proponevano di imporre una logica di mercato ai produttori di elettricità da fonti rinnovabili attraverso un meccanismo secondo il quale si dà agli investitori una garanzia di mercato, imponendo che tutti gli attori che commercializzano, producono o consumano elettricità nel paese debbano ogni anno produrre, acquistare o consumare una certa percentuale di elettricità da fonti rinnovabili, permettendo poi ai produttori di elettricità da fonti rinnovabili di operare secondo criteri di competitività. Questo principio di attribuzione di parte del mercato (quota) può riguardare le rinnovabili nel loro insieme, che sono allora messe in concorrenza tra di loro, o essere perfezionato attraverso la definizione di sotto-quote per ciascuna tecnologia. Sarebbe troppo lungo declinare qui le diverse varianti del sistema messo in atto per rendere applicabile questo principio, ma è opportuno invece considerare, nel quadro del dibattito italiano su questi sistemi, i risultati ottenuti dalle varianti quando sono state messe in opera in alcuni paesi.
La prima variante importante fu quella introdotta dal governo di Margaret Thatcher nel quadro della Non-Fossil Fuel Obligation, che imponeva al mercato elettrico inglese una percentuale di elettricità non generata da fonti fossili. È chiaro che dietro l’apparente obiettivo ambientale di queste misure si nascondeva soprattutto il bisogno di garantire un mercato al nucleare britannico (allora in una condizione prossima al fallimento), ma creare un obbligo non significava che il nucleare fosse politicamente scorretto, dunque fu aggiunta una componente rinnovabile. Il metodo scelto, neoliberismo oblige, fu di lanciare gare d’appalto periodiche per progetti che dovevano produrre date quantità di elettricità (principalmente da fonte eolica), avendo come principale criterio di selezione il minor prezzo, sinonimo di minor costo per il consumatore. In un primo tempo, via via che si svolgevano le prime gare d’appalto, il risultato sembrò essere convincente: un certo numero di progetti presentati prospettavano quantità prodotte molto superiori alle quelle messe a gara e a prezzi molto inferiori ai feed-in dei paesi che praticavano quel sistema; il mercato dimostrava la sua efficacia. Molto rapidamente ciò che sembrava essere un successo si rivelò un evidente fallimento: i prezzi troppo bassi proposti dai presunti investitori non permettevano di finanziare i progetti, e la maggior parte di questi non videro mai la luce. La Gran Bretagna ha rinunciato a quel sistema. Altri paesi, come ad esempio la Francia, hanno conosciuto gli stessi insuccessi. La Francia nel 2001 è tornata al feed-in system, confrontandosi di tanto in tanto con lo stesso insuccesso in qualche gara d’appalto.
Una seconda variante del sistema incentrato sulla garanzia di una quota del mercato per l’elettricità rinnovabile prevede l’introduzione di penalità per il mancato rispetto della propria quota da parte di un operatore del sistema elettrico, da affiancare alla creazione di un mercato di certificati verdi. Un produttore di elettricità di origine eolica può vendere ogni kWh prodotto alla rete al prezzo di mercato e riceve così un certificato che potrà proporre a qualsiasi attore del settore elettrico che non abbia rispettato la propria quota di rinnovabili. Quest’ultimo accetterà di pagare un prezzo per questo certificato in quanto inferiore al costo della penale in cui altrimenti incorrerebbe. Questo secondo sistema è stato adottato, in forme differenti, da diversi paesi per alcune tecnologie rinnovabili, come per esempio la Gran Bretagna, la Polonia o la Romania. La loro esperienza non è stata negativa, sebbene differente da paese a paese, in termini di risultati. Tuttavia non si può fare a meno di constatare che per l’elettricità di origine eolica (rispetto alla quale si gode del distacco necessario per fare confronti) i paesi che hanno adottato sistemi di quota-prezzo di mercato-certificati, hanno generato meno produzione di elettricità e prezzi al MWh significativamente più elevati rispetto ai paesi che hanno scelto il sistema di feed- in tariff.

Quale sistema tariffario per l’Italia?

L’Italia ha messo in atto a partire dalla fine del decennio scorso un sistema di sostegno alla nuova produzione di elettricità da fonti rinnovabili che combina (o mescola) i principi enunciati e le diverse declinazioni degli stessi, adottando approcci specifici per alcune filiere tecnologiche. Così l’energia fotovoltaica, fino al raggiungimento di un certo massimale di capacità installata nel paese, ha diritto per ogni MWh prodotto ad un incentivo prestabilito per venti anni (ma non indicizzato all’inflazione) oltre al ricavato della vendita di quel MWh sul mercato. Il MWh eolico ha diritto per quindici anni allo stesso ricavato della vendita sul mercato, oltre che a certificati che può vendere agli operatori che li richiedono, ma senza dimenticare che fino alla fine del primo semestre di quest’anno il GSE garantiva il riacquisto dei certificati ad un prezzo da esso fissato. Il risultato di tutto ciò è che i prezzi pagati alla nuova produzione di energia elettrica rinnovabile sono tra i più elevati d’Europa e che, se hanno permesso un reale sviluppo di questa produzione, si è lontani (in particolare per l’eolico), in termini relativi e assoluti, dai risultati ottenuti in Germania, in Spagna o in Portogallo con costi meno elevati per il sistema.
La questione dei costi per il sistema e i consumatori diventa centrale oggi, in un contesto di crisi finanziaria e di austerità, ed è infatti alla base della messa in discussione delle attuali tariffe delle rinnovabili in diversi paesi e in particolare in Italia. Bisogna, come propongono alcuni, limitarsi ad abbassare gli incentivi per il fotovoltaico o non garantire più il riacquisto dei certificati (e provocare, almeno in un primo tempo, un abbassamento dei loro prezzi)? O bisogna cambiare i principi stessi del sistema tariffario?
La risposta appartiene al decisore, ovvero al governo, ma sulla base dell’esperienza nazionale e di quella degli altri paesi dell’Unione europea è utile, per contribuire al dibattito, portare o ricordare un certo numero di elementi.
In primo luogo bisogna considerare che quando sono stati proposti sistemi alternativi a quello del feed-in tariff (gare d’appalto, certificati verdi ecc.), l’argomento principale a sostegno di questi ultimi riguardava l’introduzione di meccanismi di mercato che permettessero di raggiungere gli obiettivi prefissati di produzione rinnovabile e di ridurre i costi per i consumatori. L’esperienza mostra che questi sistemi alternativi o non hanno funzionato o si sono dimostrati, alla fine, più cari per gli attori del sistema.
Bisogna inoltre tenere a mente che, di fatto, gli investitori sono pronti ad accettare una remunerazione inferiore in cambio di una garanzia di reddito di lunga durata che riduca il rischio e che faciliti l’accesso ai finanziamenti bancari. Ma per verificare che questa propensione degli investitori esista davvero si dovrebbero consultare i “veri” investitori e i banchieri, così da poter verificare quale sia il livello di minor remunerazione per loro accettabile.
È necessario del resto considerare che dal punto di vista macroeconomico un sistema di prezzo fisso permette di garantire che una parte dei costi di produzione del sistema elettrico nazionale (e dunque dei prezzi ai consumatori) non sia legata ai prezzi delle materie prime energetiche importate e dunque alla variabilità dei prezzi internazionali del carbone, del gas, del petrolio e dell’uranio. Questa rassicurazione parziale di lungo periodo rispetto ai costi ha un valore per l’economia nazionale raramente preso in considerazione.
Non si può dimenticare, inoltre, che legare il prezzo pagato per le rinnovabili al prezzo di mercato come avviene attualmente in Italia cancella in parte questa rassicurazione perché, in caso di aumento dei prezzi delle materie prime energetiche non rinnovabili, i prezzi di mercato aumenteranno e così, dunque, quelli pagati alle rinnovabili. Vi è un che di irritante nel fatto che un aumento dei prezzi del gas si traduca in un aumento del prezzo pagato per un kWh eolico o fotovoltaico. L’esistenza di un prezzo garantito potrebbe attenuare gli effetti di questo aumento dei prezzi del gas sui prezzi dell’elettricità.
Un sistema di prezzi garantiti per un dato periodo non significa che quel prezzo sia fissato per il futuro per tutti i nuovi progetti: le autorità responsabili hanno infatti la possibilità per i nuovi progetti di attualizzare quei prezzi in particolare in funzione dell’evoluzione delle tecnologie.
Nel contesto di crisi economica e finanziaria che viviamo, del resto, qualsiasi sistema che non dia alle banche e agli investitori le necessarie garanzie di prevedibilità e di stabilità sul lungo periodo non permetterà all’Italia di rispettare i suoi impegni internazionali in materia di sviluppo delle rinnovabili e di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra. I costi generati da questo mancato rispetto devono essere messi in conto in un’analisi costi-benefici dei sistemi tariffari.
Non si può inoltre tralasciare di considerare che alcune delle filiere rinnovabili come l’eolico o la bioelettricità (a certe condizioni) hanno costi di produzione molto vicini a quelli di mercato e tendenzialmente destinati in un prossimo futuro a raggiungere questa competitività, altre (FV o centrali solari termiche) sono più lontane dalla soglia di redditività ma offrono considerevoli prospettive di evoluzione a lungo termine. È chiaro che i sistemi tariffari devono essere differenziati per conciliare lo sviluppo a breve e medio termine e quello a lungo termine.
Infine bisogna riflettere sul fatto che lo Stato, quando dà agli investitori un mercato e garanzie di introiti, ha diritto di esigere un ritorno, in particolare in termini di partecipazione alla nascita di filiere industriali. Paesi come la Germania, la Spagna, il Portogallo, la Danimarca hanno mostrato che è possibile farlo.



[1] João Capiberibe è un politico brasiliano. È stato governatore e senatore dello Stato di Amapa in Brasile, ed è stato in esilio in Italia durante gli anni della dittatura militare. L’affermazione qui riportata fu pronunciata in relazione al passaggio dalla posizione di oppositore a quella di governante.