Il nuovo inizio è già finito

Di Pier Luigi Bersani Lunedì 02 Settembre 2002 02:00 Stampa

Le difficoltà del governo nel campo dell’economia e della finanza pubblica hanno origine nella pur efficace impostazione ideologica che garantì a Berlusconi una campagna elettorale vittoriosa. L’idea del nuovo inizio, l’idea del balzo miracolistico avevano bisogno di una linea economica funzionale e coerente. Ecco allora, perfettamente utile allo scopo, una ricetta volontaristica, giocata tutta sulle aspettative ed in grado di ospitare ogni promessa. Tenere alti gli obiettivi, allentare qualche briglia, promuovere qualche misura d’avviamento forzando sulle coperture: al resto avrebbe pensato la ripresa americana. Corollario indispensabile allo schema erano la negazione di ogni dato dissonante (a metà 2001 le vicende del mondo si vedevano già abbastanza chiaramente) e l’aggressività nella gestione politica (ciò che non torna, è di responsabilità altrui).

 

Le difficoltà del governo nel campo dell’economia e della finanza pubblica hanno origine nella pur efficace impostazione ideologica che garantì a Berlusconi una campagna elettorale vittoriosa. L’idea del nuovo inizio, l’idea del balzo miracolistico avevano bisogno di una linea economica funzionale e coerente. Ecco allora, perfettamente utile allo scopo, una ricetta volontaristica, giocata tutta sulle aspettative ed in grado di ospitare ogni promessa. Tenere alti gli obiettivi, allentare qualche briglia, promuovere qualche misura d’avviamento forzando sulle coperture: al resto avrebbe pensato la ripresa americana. Corollario indispensabile allo schema erano la negazione di ogni dato dissonante (a metà 2001 le vicende del mondo si vedevano già abbastanza chiaramente) e l’aggressività nella gestione politica (ciò che non torna, è di responsabilità altrui).

Così, ciascuna delle misure dei cento giorni funziona non in chiave effettuale bensì prevalentemente in chiave politico-ideologica. Le norme sul sommerso, ad esempio, sorreggono la retorica dei tempi nuovi, abbelliscono il bilancio pubblico in modo indolore e celebrano una intesa altisonante con Confindustria. Le misure davvero efficaci per l’emersione (credito d’imposta, liberalizzazione del commercio) vengono smantellate o finiscono nell’incuria. La stessa Tremonti-bis funge da legge-manifesto in una fase in cui la sollecitazione agli investimenti non ha plausibilità alcuna; nel suo destino c’è la reiterazione fino all’incontro con la ripresa degli investimenti e quindi fino all’inevitabile e pleonastico successo. La Tremonti-bis rimane, dal 2002, l’unica legge di incentivazione senza plafond, a danno di altre, in particolare per il Sud, di conclamata efficacia. Si potrebbe continuare con alcune delle norme per le infrastrutture, con quelle per il «reinvestimento di capitali esportati» e con altre ancora.

Sul fronte dell’allentamento dei vincoli il messaggio, esplicito o subliminale, viene dalla legge sul falso in bilancio e sulla giustizia, dal primo avvio di sanatorie e condoni e in particolare dall’individuazione del mercato del lavo ro come unico punto di leva per la competitività e l’allargamento della base produttiva. Si imposta così il braccio di ferro sull'articolo 18 e si punta dritto ai rapporti di forza, giocati ancora una volta su dati simbolici ed ideologici, fuori dai dati reali pre valenti. Il Patto per l’ Italia finisce per celebrare e sancire accordi e rotture, ma è inevitabilmente troppo fragile nei contenuti per sorreggere una fase nuova (parecchi lo hanno firmato più per restare al centro del campo che per convinzione).

Ma nell’estate 2002 la spinta ideologica della campagna elettorale sembra andare ad esaurimento. Si affacciano i dati di realtà: una linea economica volontaristica ed astratta, all’incrocio di una congiuntura difficile, produce i suoi frutti avvelenati. La finanza pubblica è in squilibrio; emergono segni di disaffezione fiscale; la contrazione dei consumi induce nella distribuzione comportamenti difensivi e inflattivi non sorvegliati; gli investimenti restano debolissimi; i tassi di crescita e il rapporto deficit/Pil si attestano nelle zone peggiori del confronto europeo; il debito torna a crescere, mettendo così una ipoteca negativa per l’Italia su qualsiasi ipotesi, anche ragionevole, di rilettura dell’applicazione del Patto di Stabilità. Lo stato dei rapporti sociali, d’altra parte, mette a rischio un quadro ormai decennale di politica dei redditi, e può solo ricevere un ulteriore colpo dalle misure incombenti tese a ristabilire un equilibrio nella finanza pubblica. Il tramonto della concertazione lascia intravedere un rischio di rincorsa prezzi-salari e incoraggia una paradossale ripresa dell’intervento amministrativo sui prezzi. In tutta questa vicenda sono restati nella zona d’ombra i problemi dell’economia reale, le prospettive di allargamento e qualificazione della nostra base produttiva, le scelte di politica industriale.

La nostra ripresa si è trovata faccia a faccia con la crisi della domanda, con la caduta del commercio mondiale, con la riduzione del peso del made in Italy e l’accresciuta aggressività di nuovi concorrenti, con la necessità di assorbire un ciclo di investimenti consistente, con l’esigenza di un nuovo salto organizzativo e tecnologico, con l’euro prossimo alla parità col dollaro e così via. Una fase critica e delicatissima di passaggio, che non è stata messa a tema ma che è stata anzi ignorata e contraddetta.

Che cosa è mancato? Che cosa si poteva (e, in parte, si può) fare? Non si è tentata una vera operazione sui consumi e, quanto agli investimenti, si è sacrificato alla genericità della Tremonti-bis il finanziamento di leggi su ricerca e innovazione, pur incrociate da una domanda significativa. È un tema che può essere ripreso, assieme a quello del sostegno all’export e alla tutela del made in Italy, sui quali mancano iniziative. È curioso che in questa congiuntura, segnata dall’introduzione dell’euro, non si sia fatta alcuna riflessione sull’opportunità di intervenire in materia di oneri sociali, in particolare in settori ad alta intensità di mano d’opera, eventualmente in alternativa ad alcune delle misure annunciate in campo fiscale; in ogni caso è fuori di ogni logica lasciare deperire misure come il credito d’imposta per i nuovi assunti.

Di fronte ai dati preoccupanti sull’export, la questione strutturale della rigidità della nostra specializzazione produttiva deve suggerire qualche iniziativa, ad esempio nella selezione degli incentivi ai nuovi investimenti nazionali ed esteri verso settori come telecomunicazioni, microelettronica, strumenti di precisione, chimica, ecc. Bisogna inoltre prendere rapidamente atto che il combinato disposto da diverse recenti misure di incentivazione ha ridotto la convenienza relativa ad investire nel Mezzogiorno. Quanto agli interventi sul mercato del lavoro, a prescindere dal merito, essi appaiono in realtà di scarso rilievo (se non per la parte che riguarda la riforma del collocamento) e per nulla accompagnati da iniziative rivolte al mercato dei prodotti e della conoscenza. Il processo di liberalizzazione risulta sostanzialmente incartato perché del tutto fuori dalle corde del centrodestra e le privatizzazioni (anche per ragioni di congiuntura, ma certamente non solo per quelle) rimangono al palo.

Ma ci sono altri dati che richiederebbero un maggiore protagonismo, una qualche conversione di rotta o almeno una maggiore consapevolezza nell’azione di governo: il ripiegamento della grande impresa verso il mercato interno e i settori tariffati, la crisi dell’auto, l’appannarsi di prospettive di integrazione industriale europea nei settori strategici, l’emergere di riflessi protezionistici e di riti domestici nel rapporto politicaeconomia, l’assorbimento di risorse finanziarie da parte di grandi gruppi in difficoltà con problemi incombenti per la piccola e media impresa, il riemergere di meccanismi di governance familistici, privi di trasparenza e contendibilità. Nell’insieme un quadro che annuncia i rischi di un arretramento e di una perdita di posizioni nel contesto globale ed europeo. Per reagire e per evitare di uscire più deboli dalla congiuntura, bisogna che si scopra il velo della propaganda e dell’ideologia, che la politica economica riprenda contatto con la realtà, che le forze dell’impresa riacquistino la loro autonomia. Bisogna che si creino le condizioni parlamentari per un apprezzamento reale delle diverse posizioni e proposte. La retorica del nuovo inizio è agli sgoccioli, e sembra portarsi via «fenomeni» e miracoli.

I mesi d’autunno segnati come saranno dai temi economici e sociali, potranno radicare ulteriormente questo nuovo scenario. Apparirà ancora più chiara l’urgenza che si affacci il vero terreno alternativo alla retorica berlusconiana del «nuovo inizio»: quello di una seconda fase della stagione di riforme avviate negli anni Novanta. Tocca al centrosinistra imporre questo terreno, sul piano politico e programmatico, passando dalla fase dell’opposizione a quella di una opposizione che si fa alternativa. Ad un solo anno dalla sconfitta, non si può parlare di ritardo in senso cronologico; se ne può parlare in senso politico e si può (si deve) cominciare a mettere rimedio. Il terreno principale della proposta del centrosinistra della quale si percepisce acutamente l’esigenza sta dunque nel percorso politico e programmatico di ricostruzione dell’alleanza secondo scansioni visibili ed efficaci. In assenza di questo dobbiamo aspettarci di vedere crescere nella pubblica opinione una miscela di disincanto, distacco e radicalizzazione alla quale la stessa opposizione politica pagherebbe un prezzo rilevante.