Considerazioni sulla crisi finanziaria

Di Lucrezia Reichlin Lunedì 22 Dicembre 2008 19:39 Stampa

La crisi finanziaria globale che ha colpito gli Stati Uniti, l’Europa e si sta allargando al resto del mondo segue un lungo periodo di stabilità economica, caratterizzato da un basso livello di inflazione e da una crescita robusta, specialmente nei paesi emergenti dell’Asia e negli Stati Uniti. Quali sono le origini della crisi e quali le ragioni per cui essa si è diffusa con tanta rapidità? Quali lezioni se ne possono trarre? E quali, infine, le soluzioni possibili?

Dall’agosto 2007 il mondo è stato coinvolto in una crisi finanziaria globale che sta adesso incidendo sull’economia reale e causando un rallentamento, forse una recessione, negli Stati Uniti, nell’area dell’euro e nel resto del mondo. Questa crisi arriva dopo venticinque anni di stabilità economica (in tutti i paesi dell’OCSE la volatilità nella crescita del PIL è restata ai minimi storici in questo periodo), basso livello di inflazione e, negli ultimi dieci anni, crescita robusta, specialmente nei paesi emergenti dell’Asia e negli Stati Uniti.

In questo articolo verrà tracciata la storia delle origini della crisi, delle ragioni per cui essa si è diffusa con tanta rapidità, tramutandosi da shock locale sul mercato del subprime mortgage negli Stati Uniti, quale era inizialmente, in crisi di liquidità globale, crisi del sistema bancario e rallentamento economico generalizzato. Si discuteranno, infine, in modo selettivo, le lezioni della crisi e le sfide che ne derivano per la politica economica.

Come si è arrivati a questo punto?

Per capire la crisi occorre analizzare il contesto macroeconomico in cui si è sviluppata e, in particolare, tre caratteristiche chiave.

1. Dal 1991 il deficit commerciale degli Stati Uniti si è continuamente gonfiato, arrivando al 6,4% del PIL nel quarto trimestre del 2005, quindi stabilizzandosi attorno al 5% fino all’inizio del 2008. Inizialmente Europa e Giappone erano la controparte di questo deficit, mentre, dal 1997, sono stati soprattutto i paesi emergenti dell’Asia e i paesi produttori di petrolio.

2. Dopo la crisi del 1998 e lo scoppio della bolla high tech del 2001, si è verificato un declino negli investimenti sia nei paesi sviluppati che nelle economie emergenti. Quando le economie industrializzate si sono riprese dalla recessione del 2001-02, gli investimenti del settore privato non sono aumentati, come ci si sarebbe aspettato dall’aumento del tasso di crescita dell’attività economica. Questo è quanto il presidente del comitato dei governatori della Fed, Ben Bernanke, chiama il «saving glut», l’eccesso di risparmio.

3. Dopo la crisi finanziaria dei mercati asiatici alla fine degli anni Novanta, con la rapida crescita della Cina e dei paesi emergenti dell’Asia e con la contemporanea crescita dei prezzi del petrolio che ha fatto seguito a tale crisi, si è assistito ad un riorientamento dei flussi di capitale dalle economie emergenti verso gli Stati Uniti. Contrariamente a quanto previsto dalla teoria economica, il capitale si è spostato dalle economie in via di sviluppo a quelle sviluppate anziché il contrario.

Il declino degli investimenti spiega, almeno in parte, la diminuzione dei tassi di interesse reale mondiali di lungo periodo. L’afflusso negli Stati Uniti di capitali provenienti dalle economie emergenti asiatiche e dai paesi produttori di petrolio spiega l’andamento dei prezzi degli attivi finanziari e il perché l’eccesso di consumo in quel paese per un periodo prolungato sia stato possibile.

I bassi tassi di interesse reale hanno incoraggiato gli investitori, ovunque nel mondo, ad assumere crescenti rischi, alla ricerca di più alti rendimenti. E tuttavia questa non è una spiegazione sufficiente: quel che ha creato l’attuale situazione è il fatto che il capitale è fluito verso un paese – gli Stati Uniti – che ha il più sviluppato mercato finanziario del mondo. Ciò ha fatto sì che questa abbondanza di fondi si sia combinata con la disponibilità di sofisticati prodotti finanziari e abbia a sua volta prodotto un’accelerazione dell’innovazione nel mercato finanziario. Non è un caso che la crisi, ora globale, abbia avuto origine negli Stati Uniti, giacché è lì che i mercati finanziari si sono sviluppati in maniera tale da consentire un alto leverage e da stimolare comportamenti particolarmente rischiosi. Su questa ricostruzione dei fatti c’è oggi sostanziale consenso. E tuttavia questa storia non chiarisce ancora tutto. In particolare, il declino degli investimenti mondiali non è stato sufficientemente marcato da spiegare la riduzione dei tassi di interesse reali osservata. Inoltre, il perdurare di bassi tassi di interesse reali non è cosa nuova e non può esser dunque considerato causa necessaria della crisi. Bassi tassi, per esempio, sono stati la regola negli anni Settanta, ma allora produssero una grande inflazione nei prezzi al consumo piuttosto che un’inflazione nei prezzi degli attivi finanziari. Un’importante considerazione è che nell’ultimo decennio i tassi di interesse sono stati bassi ovunque, soprattutto per via della riduzione del premio di rischio. Tale riduzione è un fenomeno che ha due facce, una positiva e una negativa. Sembra un paradosso, ma è un fatto che la fase di stabilità goduta dal mondo ha determinato bassi rischi rispetto al loro livello storico, ma ne ha creato uno nuovo – il sotto-prezzamento del rischio – che ha incoraggiato individui e istituzioni a contrarre debiti ingenti per finanziare consumi o acquisti di proprietà. Capire il premio a rischio e come questo sia collegato alla politica monetaria rappresenta una delle maggiori sfide dell’analisi macroeconomica. Le banche centrali negli ultimi vent’anni hanno acquisito credibilità nel combattere l’inflazione, ma così facendo hanno finito per creare le condizioni per un’eccessiva disponibilità al rischio. Questo suggerisce una constatazione: la propensione al rischio è conseguenza dei tempi buoni, ma i tempi buoni portano con sé il seme dell’instabilità finanziaria in una sorta di ciclo perverso. Da un punto di vista normativo questo suggerisce che, in futuro, le banche centrali dovranno assumere un ruolo importante nel monitorare la stabilità finanziaria e, possibilmente, nel rispondere agli sviluppi nei prezzi degli attivi finanziari. Si tornerà su questo punto alla fine.

È necessario parlare ora delle banche e dei mercati finanziari. In che cosa consiste questa innovazione finanziaria che ha permesso il contagio di rischio che ha generato la crisi? Qual è il modello bancario che si è affermato nelle economie anglosassoni negli ultimi anni? La caratteristica fondamentale dei nuovi strumenti finanziari è che essi sono in grado di trasferire il rischio e distribuirlo sudiversi mercati e al di là dei confini, così come nel consentire un alto livello di leverage.

La trasformazione del modello bancario, d’altra parte, consiste nel fatto che la banca non entra più in un rapporto diretto con colui che detiene il mutuo poiché è il mortgage broker che combina il mutuo per il cliente. Il broker riceve una commissione per l’accordo, ma non ha bisogno di preoccuparsi della solidità finanziaria di chi ottiene il prestito. Anche la banca non deve preoccuparsene troppo, visto che può inserire un certo numero dei suoi prestiti in nuovi strumenti finanziari (le asset back securities) che possono a loro volta venir reimpacchettate e raggruppate nelle Collaterized Debt Obligations (CDOs) o in prodotti simili. Questi prodotti possono poi a loro volta esser rivenduti ad altri investitori. Il rischio insito nei loro prestiti viene così trasferito a chi detiene questi nuovi strumenti e perciò né la banca né il mortgage broker hanno alcun incentivo a controllare la solidità finanziaria di chi prende a prestito. Questo è quello che è stato chiamato il processo di cartolarizzazione. Poiché il rischio del credito può esser trasferito attraverso il processo di cartolarizzazione, le banche sono riuscite ad estendere le loro attività senza doversi preoccupare troppo di dover conservare quote addizionali di capitale al fine di ottemperare alle norme stabilite dalla regolamentazione.

È importante ricordare che i nuovi strumenti e la cartolarizzazione non sono un’invenzione degli ultimi anni, ma vi si è ricorso gradualmente dagli anni Ottanta. Nell’ultimo decennio, però, il fenomeno è cresciuto e questa accelerazione del loro sviluppo è probabilmente il risultato sia dei meccanismi macroeconomici descritti sopra, sia del tentativo delle banche di aggirare la regolamentazione di Basilea che rende molto costoso detenere capitale nei bilanci.

Come è finita la festa?

Le particolari caratteristiche di questo modello bancario e finanziario spiegano il rapido contagio di uno shock che sembrava localizzato. Cioè spiegano perché i rischi locali del mercato del subprime mortgage, tradizionalmente gestito da banche locali, si siano estesi a tutta l’economia americana e quindi al contesto internazionale. Dal momento in cui la liquidità è sparita dal mercato immobiliare, le cose sono cambiate. I pacchetti contenenti mutui cartellizzati erano facili da capire e da usare quando il mercato immobiliare era liquido perché il rischio era basso. Ma quando i fallimenti sono aumentati, questi strumenti hanno cominciato a differenziarsi sulla base della qualità e l’informazione sulle loro componenti ha cominciato a contare sempre più. Questo ha creato problemi a chi possedeva claims su questi strumenti e intendeva ottenere prestiti usandoli come collaterale o venderli. In altre parole l’illiquidità nel mercato immobiliare ha creato un rischio di informazione che, accompagnato al rischio legato alla complessità, ha distrutto la liquidità degli asset backed securities. A questo punto, data la crescente illiquidità di tali strumenti, le banche non hanno più potuto usarli come collaterale sui prestiti e si sono così trovate ad affrontare una crisi di liquidità. Giacché nessuno era disposto a dare prestiti su garanzia di questi strumenti, esse sono state costrette a finanziare con il capitale ciò che prima potevano finanziare con il debito. Il problema di liquidità si è trasformato così in un problema di scarsità di capitale. Da qui le crisi bancarie e l’accelerazione del panico dopo il fallimento di Lehman Brothers.

Tuttavia, il meccanismo di contagio non è solo frutto di queste “diavolerie finanziarie”, ma anche, com’è stato sottolineato dalla letteratura, del circolo vizioso fra liquidità finanziaria, politica monetaria e ciclo del credito, che dipende dal modo in cui gli intermediari finanziari reagiscono ai mutamenti nei loro bilanci. Contrariamente a quanto si crede, il leverage delle istituzioni finanziarie è prociclico: le banche aumentano il loro leverage nelle fasi di espansione e lo riducono nelle fasi di contrazione. Questo meccanismo amplifica, invece di attenuare, il ciclo del credito. La ragione è che il modello di management del rischio usato dalle banche richiede che il leverage sia aggiustato in modo tale da assicurare che il totale del capitale sia proporzionale al valore totale del rischio degli attivi. Poiché il rischio è anticiclico, lo sforzo delle banche di controllare il rischio porta ad un leverage prociclico.

Sebbene da un punto di vista di una singola istituzione, questo comportamento sia ragionevole, nell’aggregato questo ha un effetto perverso. In un periodo di espansione i bilanci si rafforzano, il leverage diminuisce e le banche rispondonoriaggiustandolo verso l’alto, il che esercita una pressione sui prezzi, e di conseguenza sui bilanci e così via. Il contrario succede durante le contrazioni. Questo meccanismo è intrinseco a un sistema in cui gli assets sono valutati ai loro prezzi di mercato e alle pratiche di gestione del rischio. Non c’è nessuna diavoleria in questo meccanismo, ma certamente è una caratteristica che dovrà essere tenuta presente nel disegnare future misure di regolamentazione.

Chi è il colpevole?

Si è visto che molte sono le cause responsabili della crisi, ma chi è il colpevole? I responsabili politici cinesi che incoraggiano il risparmio anziché democratizzare l’economia e stimolare il consumo? L’amministrazione Bush che taglia le tasse e quindi induce al consumo eccessivo? Greenspan che, come presidente della Federal Reserve, ha tenuto bassi i tassi di interesse e ha così nutrito la bolla? Le agenzie di rating che non hanno segnalato i rischi che si andavano accumulando? La sorveglianza che avrebbe dovuto monitorare più strettamente il modello fondato sul principio originate and distribute e gli incentivi istituzionali, così come le strutture di compensazione? Negli ultimi mesi si sono sentite molte storie e in particolare una denuncia collettiva dell’economia di mercato; contestualmente si è potuto osservare l’emergere di un generale consenso in favore di una regolamentazione più rigida. Tuttavia, la regolamentazione di per sé non è panacea.

Sono opportune alcune considerazioni utili a capire come, nell’opinione di chi scrive, vada pensato l’intervento pubblico nel lungo periodo. Innanzitutto, come è già stato sottolineato, lo sviluppo finanziario non è un fenomeno dell’ultimo decennio, quanto, piuttosto, un processo che si è evoluto in parallelo allo sviluppo economico, e pertanto deve esser esaminato in quanto tale. Mercati finanziari efficienti consentono una riduzione del costo del capitale e favoriscono la crescita. Interventi che aumentano eccessivamente il costo del capitale non sono desiderabili.

Inoltre, tanto più il sistema finanziario è sofisticato, tanto più questo permette, in linea di principio, la condivisione del rischio fra i cittadini e con-sente anche ai più poveri di accedere al credito. I ninja loans (“no income, no job, no assets”, nessun reddito, nessun lavoro, nessun patrimonio) sono prestiti ai poveri che danno accesso al credito ai settori più deprivati della popolazione. Tuttavia questo modello non funziona se il rischio di tutti i partecipanti non è assicurabile. I poveri dei ninja loans sono esposti ad un enorme rischio, in quanto sono esposti ad un singolo asset e per loro non ci sono meccanismi di copertura al rischio, come per esempio per gli hedge funds. Mentre i grandi players possono garantirsi contro eventuali perdite, la maggior parte dei consumatori non è in grado di farlo. Questo è dimostrato dal fatto che, anche se la modernizzazione finanziaria è andata di pari passo con una riduzione della variabilità dell’attività reale e con una inflazione stabile e contenuta – la cosiddetta “grande moderazione” – contrariamente a quanto previsto se la redistribuzione del rischio funzionasse perfettamente, si è assistito, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ad un aumento, non ad una diminuzione, della volatilità del consumo individuale. In realtà negli ultimi anni si è avuto un paradosso: da un lato il consumo e il reddito aggregati sono diventati meno volatili in quasi tutti i paesi del globo, dall’altro, nei paesi avanzati, il consumo individuale è diventato più variabile rivelando un’incertezza crescente sul benessere del singolo cittadino.

E quindi ragionevole pensare che per i settori più deboli della popolazione si debbano individuare altri meccanismi di protezione garantiti da politiche pubbliche. Ma come complemento a questo si può pensare ad un sistema in cui il meccanismo assicurativo sia disponibile per tutti o almeno per quasi tutti. Sviluppare meccanismi di questo genere comporta più innovazione finanziaria, non meno. Come predica l’economista Bob Shiller, si dovrebbero estendere i mercati finanziari per coprire una più larga serie di rischi economici e permettere a tutti di partecipare al gioco capitalista. C’è un’altra ragione per cui la limitazione dell’innovazione finanziaria non è risolutiva. L’innovazione finanziaria è in parte il prodotto della regolamentazione. È inevitabile che regolatori e ingegneri finanziari continueranno a rincorrersi, e il rischio è di essere continuamente in ritardo rispetto alle nuove forme di esposizione al rischio. Inoltre, una regolamentazione eccessiva dei mercati distrugge isegnali necessari ad allocare le risorse in modo efficiente.

Di certo non si tratta di una buona terapia. Una combinazione di interventi pubblici intelligenti e di innovazione finanziaria mirata alla democratizzazione del modello finanziario, invece, può aiutare a ridurre l’asimmetria dell’informazione e produrre assicurazione.

L’ultimo punto che si vuole discutere su queste pagine è quello della globalizzazione. Quanto questa crisi ha mostrato è che, sebbene la globalizzazione abbia facilitato la crescita economica, ha anche creato squilibri che hanno minacciato la stabilità finanziaria. Anche questo non è fenomeno nuovo. Gli squilibri hanno caratterizzato ogni fase dello sviluppo economico. Ma con questa crisi si è resa evidente la necessità di riformare l’intera architettura finanziaria concepita dopo la seconda guerra mondiale.

Ecco alcuni dei problemi emersi. La politica monetaria di un’area economica, sia nel suo ruolo tradizionale di decisione sui tassi di interesse che nel suo nuovo ruolo di fornitore di liquidità e di intermediario finanziario, non può agire senza fare i conti con le politiche monetarie di altre aree. Negli ultimi mesi ha avuto luogo un coordinamento senza precedenti fra le banche centrali del mondo. La stessa cosa è accaduta per quanto riguarda i piani governativi di ricapitalizzazione delle banche. In generale, è emerso un nuovo consenso verso il coordinamento delle politiche economiche. Chiaramente, in assenza di un coordinamento internazionale, i piani di ricapitalizzazione inducono comportamenti del tipo “beggar-thy-neighbour”. Non solo: com’è stato constatato e discusso in molte sedi, quando sono coinvolte banche che operano oltre i confini sorge la questione di chi paga per la ricapitalizzazione. In assenza di un coordinamento si creano pericolosi problemi di free riding. La questione va al di là dell’equità fiscale ed è il problema degli effettivi poteri di Stati troppo piccoli per le loro banche come l’Islanda, ma anche la Svizzera, il cui PIL è un sottomultiplo degli assets di una banca come Credit Suisse. Anche se paesi come la Svizzera potessero fare qualcosa, le implicazioni fiscali potrebbero essere così allarmanti da far fuggire gli investitori. Per quanto riguarda il funzionamento del monitoraggio relativo alla stabilità finanziaria e la corrispondente regolamentazione, inoltre, sembra che sia emerso un accordo di principiosulla necessità del coordinamento internazionale, dato che i mercati finanziari sono integrati e i rischi sono diffusi globalmente.

Infine, poiché la crisi si è estesa ovunque, la discussione su chi sarà il banchiere del mondo torna all’ordine del giorno anche se il Fondo monetario internazionale sembra lento nel reagire con idee e proposte per rispondere alla crisi. Il suo ruolo tradizionale sembra offuscato dalla molteplicità di iniziative regionali.

Parte della difficoltà sta nel fatto che le istituzioni multilaterali debbono esser riformate per aprirsi a nuovi protagonisti, come il Brasile, la Cina e l’India. Questo implica che il problema di una rappresentanza europea unica diventa pressante. Dal punto di vista delle politiche macroeconomiche questa è un’occasione importante per l’Europa e per ripensare i pilastri del Trattato. L’attrazione per la moneta unica è cresciuta in occasione di questa crisi perché ha reso evidente – si vedano sopratutto il caso dell’Ungheria e quello dell’Islanda – che, in tempi di tempesta, i vantaggi di far parte di una grande area monetaria superano di gran lunga quelli offerti dall’indipendenza della politica monetaria. Questa crisi ha tuttavia anche evidenziato alcuni dei problemi relativi all’architettura europea. Innanzitutto è necessario correggere la frammentazione del sistema di sorveglianza e la separazione fra politica monetaria e funzioni preposte alla stabilità finanziaria. In secondo luogo, una politica monetaria unica non è praticabile senza coordinamento fiscale. Fino ad oggi il sistema ha funzionato in condizioni di emergenza, ma molte nuvole si affacciano all’orizzonte. Infine, l’Europa deve avere una sola voce nella discussione sulla nuova architettura finanziaria mondiale, ma questo sarà impossibile se non si trova un accordo sulla rappresentanza unica.

Voler affrontare tutti questi problemi in questa sede è un obiettivo troppo ambizioso. Ci si è dunque limitati ad accennarli. Com’è noto ogni crisi è anche un’occasione per riflettere e cambiare, ma sarebbe pericoloso ritornare a vecchie idee e a vecchi modelli.