Mezzogiorno obbligato a cambiare: meno cemento e più innovazione

Di Silvio Pancheri Lunedì 16 Febbraio 2009 12:56 Stampa

Nel riflettere sul Mezzogiorno, sono necessarie alcune con­siderazioni sul rapporto che le infrastrutture e i servizi di tra­sporto instaurano con l’economia e sulle conseguenze che ogni cambiamento strutturale della base economica pro­duce sulla articolazione ottimale del sistema dei trasporti.

Bilancio di un decennio: dire di fare e fare come se si fosse fatto È opinione diffusa fra i molti osservatori dei trasporti italiani che l’accessibilità del Mezzogiorno negli ultimi dieci anni non è molto migliorata. Oggi nel Sud del nostro paese solo la rete degli aeroporti e dei porti è di una densità adatta alla realtà del territorio, alla sua posizione geografica, alla sua orografia. Il Mezzogiorno è invece penalizzato nei tempi degli spostamenti interni via terra per molte ragioni, sia di normale riscontro nelle aree in ritardo di infrastrutturazione – basti pensare all’incompletezza della rete stradale e ferroviaria – sia per i molti ostacoli che in via diretta e indiretta provengono dalle forme attraverso le quali si esercita il controllo delle attività sul territorio da parte della criminalità organizzata.

Chi vive nelle città meridionali, e non solo gli osservatori, sostiene poi, nelle diverse carte dei servizi del trasporto locale e interregionale, che se le vie di traffico del Sud difettano in quantità, i servizi offerti sono comparativamente di minore qualità nei confronti del resto d’Italia. Il Mezzogiorno arretra rispetto alle altre regioni d’Europa anche se qualcosa ha fatto. Ma bisogna assumere come monito che talvolta stare fermi significa arretrare, specie se chi avanza è la crisi economica.

Per superare questi ritardi non mancano le idee, le analisi e le proposte, non mancano eccellenti scuole universitarie nel Mezzogiorno specializzate nei trasporti né i soldi pubblici, i finanziamenti ordinari dello Stato italiano e i finanziamenti addizionali, che erroneamente vengono denominati “finanziamenti europei” mentre sono finanziamenti misti UE-Italia con prevalente apporto italiano, superiore al 50%. È mancata invece la capacità di riorientare in tempo la macchina burocratica del Quadro comunitario di sostegno (QCS) 2000-2006 quando essa per i trasporti ha perso di vista gli obiettivi reali. Così come è mancata la capacità analitica e forse anche la volontà di mettere in discussione l’utilità dei movimenti contabili nati dalla paura del cosiddetto n+2 (la restituzione dei fondi all’UE), movimenti contabili che hanno sostituito i veri cantieri. Di quel periodo e del programma QCS 2000-2006 qualcuno ha scritto che è stato un «dire di fare e fare come se si fosse fatto».

Oggi non sono dunque le grandi opere, con i tempi lunghi dei cantieri, che possono aiutare il Mezzogiorno a uscire dalla crisi. Va migliorato innanzitutto quel che già c’è, imparando a utilizzarlo meglio e a ottimizzarlo. È meglio attrezzare bene le linee ferroviarie esistenti che aspettare di rifarle nuove, così come è meglio cambiare qualche incrocio a raso che l’intero tracciato di una strada, o ancora allungare il braccio di una gru che rifare la banchina di un porto. Meno cemento e più tecnologia, appunto.

 

Accettare la sfida e costruire le condizioni soft per lo sviluppo

Quel che manca oggi è il lavoro preparatorio per fare un salto tecnologico, quello che un economista di raro valore delle Ferrovie dello Stato chiamò pochi anni fa «strategia dell’upgrading», ossia miglioramenti sono forse di second best, ma che sono concreti, capaci in poco tempo di cambiare lo standard. Ne fanno parte gli usi possibili del satellite Galileo per gestire flotte di mezzi commerciali, sistemi comuni di sicurezza dei treni, ma anche flotte di navi e treni veloci e di aerei per viaggi low cost di medio raggio. Alla crisi si può rispondere con un motto, togliendo incertezza dalle grandi opere e dai loro tempi, con un «dire di fare e fare quello che si è detto».

Cosa manca dunque al Mezzogiorno per creare le condizioni di accessibilità favorevoli allo sviluppo in una situazione di crollo economico o di crisi pesante? Semplicemente, vanno innanzitutto rimossi gli ostacoli alla circolazione delle idee, delle persone e delle merci: è l’area del paese con minori relazioni economiche e di traffico fra Regioni contigue, quasi si trattasse di non smentire la demarcazione dei territori della criminalità. Nel Mezzogiorno, da questo punto di vista, l’accessibilità dipende non solo dalle reti di trasporto, ma anche dalle limitazioni agli scambi di mercato negli ambiti regionali infra Mezzogiorno, limitazioni che vanno rimosse nel medesimo modo con il quale vengono imposte: contrastandole garantendo il controllo pubblico della potenzialità di interscambi e offrendo servizi di trasporto commisurati non alla domanda attuale di spostamenti intercity, ma al livello di servizio minimo di partenza per agevolare la creazione di scambi stabili fra le Regioni del Mezzogiorno in misura non minore delle potenzialità di interscambio che legano oggi le città del Mezzogiorno all’economia urbana del Centro-Nord.

Il capitale sociale per lo sviluppo non è la somma delle infrastrutture, è il loro coordinamento e il loro impiego nei modi e nel mix più opportuno. La costruzione delle condizioni fisiche e ambientali favorevoli allo sviluppo è molto più della sola infrastrutturazione del territorio. Lo sviluppo ha bisogno sicuramente di strade, ferrovie, ponti e metropolitane, che servono per collegare servizi, industria, residenza e per rendere fruibili risorse ambientali e beni culturali. Ma ha anche bisogno di asili, scuole, università e tribunali, mercati coperti, uffici pubblici, e ancora edilizia commerciale e capannoni industriali, aree direzionali, luoghi di culto, e poi di abitazione civili.

Ma se il Mezzogiorno vuole realmente un suo sistema di trasporti, deve innanzitutto coordinare stabilmente le politiche delle sue Regioni. Nel febbraio del 2006 i presidenti delle Regioni del Mezzogiorno firmarono un documento di indirizzo per avviare una politica coordinata su quella che definirono la «questione meridionale dei trasporti». Nella carenza di collegamenti, di infrastrutture e di servizi di trasporto riconobbero una delle cause del mancato successo delle politiche di sviluppo del Mezzogiorno. La questione, per la sua importanza – scrissero – andava affrontata con la massima convergenza di intenti e con la massima priorità. Travalicando i confini delle competenze regionali, proposero di dare vita a un nuovo organismo interregionale per la programmazione e la realizzazione delle infrastrutture prioritarie.

Quel documento è importante e non ha precedenti. Afferma che il Mezzogiorno come istituzione non esiste ancora e che proprio per questo resta un’area non coperta nella programmazione affidata a Stato, Regioni e città: quella dei collegamenti fra le Regioni stesse. Oggi sono molto più fitte le relazioni del Mezzogiorno con l’esterno che quelle di scambio tra Regioni limitrofe.

Ci si accorge così che il Mezzogiorno è accessibile dall’esterno tramite decine di aeroporti, ma poi non c’è la possibilità di muoversi al suo interno. Manca una rete intercity, quali che siano i mezzi di trasporto di cui è composta: meglio se da servizi bus, treni, aerei e navi, nella migliore combinazione di efficacia e di costo. Questa può essere la sfida tecnologica dei trasporti del Mezzogiorno, la sfida necessaria per portare le città del Sud del nostro paese, ora despecializzate ma assai più giovani delle altre città italiane, a vincere la sfida europea. A Lisbona nel 2004 è stato fissato il traguardo più ambizioso che l’Europa si sia mai data: trasformare l’Europa nell’area più competitiva del mondo. La vecchia Europa, c’è chi sostiene, non ce la può fare perché ha paura di perdere. E chi ha paura di perdere, di solito perde.

 

Il Mezzogiorno diventa istituzione attraverso la rete delle sue città

Questa è la scommessa dell’Europa emergente e l’occasione irripetibile: una rete delle città del Mezzogiorno, strettamente legate fra loro come nuovo motore dell’economia del Sud, un’economia che sostituisca la dipendenza odierna dai servizi pubblici della capitale e dai servizi vendibili avanzati per i quali dipende totalmente dalle Regioni del Nord. Ma se davvero si vuole scommettere sull’economia dei servizi alle imprese e alla persona, sull’incremento del contenuto tecnologico di beni e servizi oggi prodotti nel Mezzogiorno e su nuovi servizi specializzati per i quali oggi deve rivolgersi all’esterno, va detto che l’intensità della trasformazione deriverà anche dal permanere o meno di missing links e colli di bottiglia nei collegamenti fra le città capoluogo del Sud Italia.

Di certo non bastano i segnali che provengono dalle proposte delle zone franche urbane di re- cente sperimentazione. Nel definire un programma che consideri davvero le politiche urbane del Mezzogiorno, parte integrante non solo del disegno di rilancio del Sud, ma dell’intero paese, non si può fare a meno di domandarsi prima di tutto verso quale trasformazione della base economica si vuole indirizzare quest’area del nostro paese, di cosa c’è bisogno per creare condizioni ambientali favorevoli e in quali scelte infrastrutturali tutto ciò si traduce. Non basta evidentemente dire che il processo di trasformazione riguarderà prevalentemente l’economia dei servizi ad alta specializzazione, servizi che oggi il Mezzogiorno importa dal Nord Italia per linee parallele, Regione per Regione (Lombardia-Campania, Lombardia-Puglia, Lombardia-Calabria). Si tratta di quel settore che riguarda i servizi legati al mercato delle nuove tecnologie e che dà vita, nella bilancia tecnologica del paese, al conto degli scambi di brevetti, marchi, disegni industriali.

È importante dunque distinguere i flussi di servizi attuali da e per il Mezzogiorno in flussi che transitano per i mercati e flussi di servizi non destinati alla vendita, pubblici. I primi privilegiano il rapporto con la Lombardia e solo in misura minore riguardano Roma, città dalla quale invece è intenso lo scambio di servizi pubblici non vendibili e per questo sfuggenti alle statistiche.

In sostanza, se un obiettivo delle città del Mezzogiorno non può che essere quello di porsi un passo più avanti delle altre Regioni nel tasso tecnologico dei servizi che vorranno erogare, con riferimento agli ambiti dove più forte è il loro vantaggio competitivo (ad esempio, nel turismo culturale), il punto di partenza resta quello di mettere in rete le città.

Anche in questo caso non si tratta affatto di colmare un gap infrastrutturale nei confronti di altre Regioni più ricche, che hanno forse già usurato il loro stesso modello di sviluppo e lo stanno cambiando; si tratta piuttosto di definire con chiarezza di cosa avrà bisogno il Mezzogiorno per cambiare, per mettersi – per quanto possibile – davanti alle Regioni che fin qui ha tentato di imitare secondo il principio del gap da colmare.

Oggi il Mezzogiorno non è un’istituzione, non ha un suo governo a livello di macroregione né un luogo per il coordinamento delle decisioni delle singole Regioni, che non hanno regole comuni nell’amministrazione del territorio e nelle politiche di sviluppo. Il Mezzogiorno è la somma di Regioni a statuto ordinario e speciale, che ricevono finanziamenti pubblici in diversa misura e da differenti capitoli di bilancio dello Stato. Lo può finalmente unire un’economia urbana forte, una rete dei servizi innovativi che possono essere prodotti nella rete delle sue città.

Alle ferrovie del Mezzogiorno può essere chiesto di svolgere un ruolo importante nelle strategie di sviluppo del paese: dimostrare con i propri servizi, pur se realizzati inizialmente da una rete ancora da adeguare, che può formarsi passo dopo passo una rete di relazioni riconoscibili fra le città principali delle Regioni del Sud che indichi la presenza di uno spazio economico. Oggi che i maggiori acquirenti dei servizi ferroviari nel Mezzogiorno sono diventate le Regioni e che anche le carte dei servizi regionali mettono Regione, Trenitalia e Rete ferroviaria italiana nelle condizioni di procedere con gli stessi obiettivi, è possibile innanzitutto modificare congiuntamente il modo di programmare e realizzare gli interventi sulla rete. L’interesse deve essere posto sulla domanda potenziale, sulla valorizzazione delle situazioni di possibile vantaggio competitivo, sul mercato rilevante di ciascun territorio, sul coordinamento dei servizi di trasporto (aereo, bus, ferroviario) e anche del contributo alla mobilità apportato dai cittadini con la propria vettura nell’ottica dell’efficienza energetica e della spesa pubblica, della minimizzazione dei costi in termini di tempo o monetari.

Quando si discute di ferrovie per il Mezzogiorno generalmente si rivendica la loro importanza generica per collegare ogni territorio alla rete e si dimostra facilmente quanto sia arretrata la rete oggi disponibile e quanto siano inadeguati i servizi. La replica solitamente è che non c’è domanda, non c’è mercato e far viaggiare i treni costa e dunque farli viaggiare per metà vuoti costituisce uno spreco di risorse pubbliche. Questa risposta viene data come fosse un rigoroso attenersi alle regole di ogni mercato efficiente, e a sostegno dell’inutilità di certi interventi ferroviari nel Mezzogiorno vengono portate motivazioni e numeri, desunti anche da analisi costi- benefici, che dimostrano ovviamente che con questa economia, con la sua normale crescita, non c’è motivo di avere nuove ferrovie, che non renderebbero l’investimento opportuno. A questa obiezione non ci sarebbe nulla da eccepire, se il Mezzogiorno volesse trascinare in avanti per qualche anno ancora l’economia di oggi, che è in declino: non c’è motivo al Sud di promuovere le ferrovie se non nel caso in cui si voglia davvero scommettere su un futuro di crescita. Non ha senso, invece, richiamare inesistenti parametri di rendimento finanziario: non sono molto frequenti i casi di ferrovie che ripagano l’investimento di rete e di mezzi rotabili; piuttosto, normalmente le ferrovie sono oggetto di compensazioni per coprire il disavanzo fra ricavi e costi.

Oggi alle ferrovie del Mezzogiorno può essere chiesto di svolgere un ruolo importante nelle strategie di sviluppo del paese: dimostrare con i propri servizi, pur se realizzati inizialmente su una rete ancora da adeguare, che può formarsi passo dopo passo una rete di relazioni riconoscibili fra le città principali delle Regioni del Mezzogiorno che indica la presenza di uno spazio economico.

 

L’importante è non rimuovere quel che non si sa affrontare

Anche per le infrastrutture e i trasporti, la predisposizione e l’attuazione di politiche di sviluppo lungimiranti deve poter coniugare le urgenze di oggi e le misure tampone per far fronte alle numerose emergenze con la capacità di guardare all’economia futura ponendo le basi della risposta alla crisi economica. La programmazione stessa va dunque cambiata: non ci sono soluzioni preconfezionabili per rispondere a una crisi in piena evoluzione, ma sono invece necessari punti fermi, opzioni – anche nelle politiche dei trasporti – e analisi molto approfondite del corso che può prendere la crisi, per non trovarsi presto spiazzati e costretti a perdere.

Se oggi il Mezzogiorno vuole improvvisamente iniziare a correre, se crede di poter avanzare rapidamente come altri paesi, è necessario che comprenda che gli altri hanno una lunga preparazione alle spalle, o anche meno errori da dover correggere; e deve anche ricordare che nelle Regioni meridionali è più forte la battaglia fra ragioni lecite e illecite nella divisione delle cose da fare.