Costruzione europea e deglobalizzazione

Di Biagio De Giovanni Venerdì 08 Maggio 2009 17:43 Stampa

L’Unione europea sta subendo i colpi della crisi economica e finanziaria globale. È dunque indispensabile interrogarsi sulle ripercussioni che questa avrà sul processo di globalizzazione e, in particolare, sulla costruzione europea. Si configurano ipotesi contrastanti in proposito: da una deglobalizzazione accompagnata dal ritorno al protezionismo e da un multipolarismo conflittuale, al risorgere del progetto europeo proprio come antidoto alla globalizzazione.

È difficile decifrare lo stato attuale dell’Unione europea, data l’entità della crisi che attraversa il mondo e che non lascerà molte cose com’erano prima della sua irruzione. È necessario cominciare con il tema della crisi, pur essendo questo un argomento scivoloso e proteiforme (non foss’altro perché ancora se ne ignorano profondità e durata), in primo luogo perché l’Europa, come tutto il mondo, ne è attraversata profondamente e bisogna provare a capire con quali conseguenze. E poi perché l’Europa (o meglio gli Stati che la compongono) è impegnata a dare le sue risposte, e la logica di queste risposte sarà di non poco significato per comprendere se e in quali limiti l’Unione è capace di interpretare se stessa come un’entità che pensa di avere un destino comune, o se i morsi della crisi spingeranno a chiusure e a nuove entropie. I temi che si affollano sono dunque molti, e l’unico tentativo che si può fare è selezionarne alcuni e provare a offrire qualche elemento di riflessione provvisorio e problematico.

Si parta da uno spunto di discussione. Giulio Tremonti (qui preso in considerazione in quanto autore di “La paura e la speranza”) parla della necessità di proteggere il mercato europeo da intrusioni esterne diventate negli anni troppo pericolose, e giunge a dire (sempre nella veste di scrittore: far politica magari è cosa un po’ diversa, ma insomma gli scritti vanno pur presi sul serio, altrimenti non si capirebbe perché uno così impegnato dovrebbe perdere tempo a scriverli) che è stato un errore quello di “aprire” troppo il mercato unico europeo, accettando la logica di una globalizzazione che spingeva in quella direzione, globalizzazione “americana” e liberista contro la quale l’autore lancia i suoi strali. Ecco una frase particolarmente intensa: «L’incertezza identitaria, l’effetto esterno del mercato unico, prima intaccano le vecchie sicurezze, i vecchi codici di appartenenza a un territorio, a una storia, a una fede. E poi per reazione scatenano forze primordiali».1

È opportuno cominciare da qui perché l’idea di chiudere, o meglio proteggere il mercato europeo, non sembra realizzabile se non attraverso l’ingresso massiccio del protezionismo nei confini di ciascuno Stato, essendo le due cose, i due atteggiamenti, fortemente legati fra loro. È difficile immaginare un approfondimento delle quattro libertà del mercato europeo, se esso diventa “protetto”. Insomma, se l’Europa istituisse confini assai più rigidi verso l’esterno, in uscita e in entrata, questo non faciliterebbe affatto la libertà dello scambio intereuropeo, non foss’altro perché la riduzione delle libertà di scambio verso l’esterno indurrebbe ciascuno Stato a una valorizzazione ben più spinta e aspra dei propri prodotti, a una ricollocazione entro i confini delle proprie industrie, a una protezione ben più secca delle proprie frontiere per rispondere all’impatto di un ridimensionamento del volume del commercio e della circolazione di persone e servizi. Il protezionismo europeo corrisponderebbe al protezionismo dei singoli Stati, e quindi a una possibile difficoltà (e sicuramente regressione) di tutto il progetto dell’Unione. Da un certo punto di vista, com’è ovvio, il mercato unico europeo non lo consentirebbe, ma data l’autonomia nazionale di molte politiche macroeconomiche, industriali ecc., un protezionismo “strisciante” potrebbe ben svilupparsi: di fatto, il commercio internazionale è in caduta verticale e dentro questa caduta ci sono sicuramente nuove prudenze protezioniste, che possono estendersi o meno a seconda dell’evoluzione della crisi. Peraltro, più di una volta, un uomo dell’esperienza di Mario Monti ha manifestato preoccupazioni di questo tipo, e basterebbe questo per considerarle fondate: qualche volta si può giurare in verba magistri. Se, al di là di elementi oggettivi che, data la crisi, possono essere considerati quasi “naturali”, l’atteggiamento protezionistico prendesse corpo (e qualche segnale c’è, soprattutto dalla Francia e, in un senso un po’ diverso, dalla Germania), è fuor di dubbio che la prospettiva dell’Unione ne risentirebbe molto, anche se è difficile misurare la portata delle conseguenze. Nascerebbe un atteggiamento difensivo fra tutti e fra ciascuno. Joseph Stiglitz riferisce dati e analisi assai preoccupanti sul ritorno del protezionismo di cui spesso si preferisce non parlare: su un gruppo di 20 paesi, come denuncia la Banca mondiale, ben 17 hanno messo in atto politiche protezioniste, e il suo commento è «siamo davanti a una crisi globale, ma le risposte vengono fornite dai governi nazionali che danno ovviamente la preferenza agli interessi dei propri cittadini». Peraltro, fenomeni di questo tipo potrebbero verificarsi in modo ancor più massiccio, nel caso, soprattutto, di un accentuarsi degli elementi di deglobalizzazione indotti dalla crisi e in grado di ampliare lo spettro del protezionismo.

Qui le previsioni diventano ancora più problematiche. Elementi che si possono definire di deglobalizzazione sono presenti nello scenario mondiale soprattutto nel rapporto con i paesi emergenti. Qualche dato del confronto fra gli ultimi due anni: –82% finanziamenti privati netti; –50% investimenti stranieri diretti. In generale, la crisi in corso, essendo crisi della globalizzazione finanziaria e liberista, introduce massicci elementi di riduzione di liquidità e, quindi, come si accennava, riduzione del commercio internazionale (–9% nel 2008, rispetto al 2007). Mancando, a chi scrive queste brevi note, le competenze necessarie per approfondire questa pur essenziale linea di ragionamento, si preferisce in questa sede concentrarsi su altre problematiche altrettanto affascinanti. La problematicità diventa, a questo punto, pienamente strategica. La ragione principale è la seguente: il processo di globalizzazione, considerato irreversibile, costituisce anche la base, nel pensiero sull’Europa, per una visione neocosmopolita che immagina la progressiva riduzione dei sovranismi, il graduale necessario avanzare della cosiddetta globalizzazione dei diritti e, magari, della politica che si accompagna alla definitiva crisi dello Stato-nazione. A questo punto c’è un passaggio un po’ più sottile da considerare: il pensiero sull’Europa (soprattutto Habermas, suo emblematico rappresentante) non è affatto dolce nei confronti della globalizzazione liberista, ma anzi assai critico, e basterebbe, per riportare alla memoria quelle critiche, sfogliare le pagine della sua “La costellazione postnazionale”. 2 Si tratta di argomentare come si critica la globalizzazione interpretata dall’unilateralismo americano, e come invece si governa (politicamente e giuridicamente: sulla scia di una visione illuministica e neokantiana) la globalizzazione, dandosi però quest’ultima come orizzonte irreversibile.

C’è insomma un rapporto complesso e anche ambiguo fra una globalizzazione criticata e un cosmopolitismo affermato, anche se il discorso ha una sua un po’ astratta coerenza, con una geometria metafisica molto tedesca: bisogna rovesciare “quella” globalizzazione e vederne nascere un’altra. Se si dovessero approfondire elementi di deglobalizzazione, il grado di cosmopolitismo possibile tenderebbe a ridursi per dar posto a un più schietto ritorno delle sovranità statali: non c’è deglobalizzazione possibile senza questo ritorno. Nonostante la sua critica alla globalizzazione “americana”, un mondo deglobalizzato in maniera significativa sarebbe dunque una sconfitta anche per la visione habermasiana, dal momento che sarebbe più difficile individuare una prospettiva cosmopolita in una cornice sovranista. La deglobalizzazione sarebbe il frutto di un’organizzazione diversa dell’interdipendenza, nell’epoca della fine dell’unilateralismo americano e della cascata liberistica che ne consegue. Potrebbe disegnare un mondo “multipolare” (termine che deve essere distinto da “multilaterale”: nel lessico qui in uso, più conflittuale il primo, più cooperativo il secondo), di sovranità contrapposte, alla ricerca più di un equilibrio che di una panacea universalistica e sovranazionale.

Ma se veramente un processo di deglobalizzazione dovesse diventare incisivo, gli effetti sulla costruzione europea sarebbero molto sensibili. Si cercherà ora di argomentarne qualcuno. Un ritorno degli Stati e la possibilità, dunque, di un ritorno del protezionismo, anche se c’è uno spazio, come si vedrà in conclusione, per pensare il ritorno degli Stati in modo diverso. Protezionismo, non solo nel senso economicistico indicato prima, ma come protezione dei confini, protezione di un’identità che tende a rifugiarsi in radici (Tremonti sembra pensarla così), protezione dall’immigrazione, che si fonda sia sulla disoccupazione dovuta alla crisi, sia su un’idea più corazzata di frontiere, su una rivalutazione del territorio e una regressione dell’idea di spazio europeo comune, in grado di forti aperture anche verso l’esterno. Il passaggio dal “territorio” allo “spazio” è stato uno dei progressi concettuali più profondi e consistenti della costruzione europea, perché ha sancito il transito verso un’altra epoca della storia d’Europa, ha indicato la transizione dalla geopolitica delle frontiere, dal territorio come base di una sovranità esclusiva, all’idea di uno spazio in cui la dimensione comunitaria ha fatto sentire la sua influenza decisiva. Nel 1999, al Consiglio europeo di Tampere, furono i capi di Stato e di governo a decretare la necessità, di fronte alle sfide globali, di arricchire e definire in direzione comunitaria lo spazio europeo. Un arretramento nella direzione indicata potrebbe non avere, naturalmente, la caratterizzazione drammatica di anni ormai lontani, ma costituirebbe un sostanzioso arresto dell’idea stessa di spazio comune, un ridimensionamento del primato dell’ordinamento comunitario, una remora forte all’azione della Corte di giustizia europea, alla rappresentazione dei problemi di immigrazione, asilo, e infine una sorta di sdoganamento di atteggiamenti xenofobi. Nell’insieme si tratterebbe di una riduzione dello spazio della cittadinanza europea. Lo Stato tornerebbe ad essere, in una misura che potrebbe diventare rilevante, il guardiano notturno delle frontiere.

Ma la deglobalizzazione (questa ipotesi inquietante sulla quale si sta sviluppando in queste pagine qualche argomento ipotetico, ma forse non così tanto, visto che vari segni sono già tutti presenti) non avrebbe soltanto effetti, per così dire, sugli interna corporis della costruzione europea, ma sulla riorganizzazione dei rapporti di forza a livello mondiale, con proiezioni che gli studi internazionalistici vanno prospettando. La deglobalizzazione potrebbe contenere in se stessa il germe di un multipolarismo conflittuale, di un insieme di protezionismi a confronto, insorgenti dall’intensificazione delle dimensioni sovrane che tendenzialmente si accompagnano ai protezionismi. Anche perché è fuor di dubbio che, alla crisi globale in corso, corrisponde già un impoverimento formidabile dei paesi emergenti, un’accentuazione delle diseguaglianze mondiali e quindi un possibile irrigidimento delle zone conflittuali. Anche se non è possibile rappresentarlo analiticamente, questo scenario, nato sulle rovine dell’unilateralismo americano, indurrebbe forse a rimpiangere proprio quell’unilateralismo, per la semplice ragione che l’alternativa potrebbe essere un pluralismo disordinato, caratterizzato dalla presenza di potenze dispotiche, in una situazione di crisi dell’interdipendenza. Il protezionismo stimola i nazionalismi, è la loro anticamera, e la ripresa deinazionalismi non può che accentuare quel multipolarismo conflittuale cui si è accennato: molti poli, molti “nomoi della terra”. Che cosa sarebbe dell’Europa in una rappresentazione di questo tipo? Data la scarsità di hard power in possesso dell’Europa, è possibile immaginare una sua relativa emarginazione, fra la difficoltà a governare il proprio stesso allargamento, la crisi del suo mercato unico, e la problematicità del suo rapporto con un’America in grado di instaurare un livello dell’interdipendenza incardinato sulla relazione privilegiata con la Cina. Il problema della democrazia verrebbe interpretato come una mera fastidiosa interferenza nel realismo neutrale e algido delle relazioni internazionali. Gli Stati Uniti rovescerebbero radicalmente la prospettiva wilsoniana-neocon, eliminando anche gli elementi che erano da salvare.

Lo scenario potrebbe essere tutto diverso, dal punto di vista del processo europeo, se prevalessero gli antidoti alla deglobalizzazione. Questa impostazione contrasta con molte altre (ad esempio quella di Tremonti, qui assunto prevalentemente come interlocutore) che sono costruite sull’idea di un rapporto critico fra Europa e globalismo, e che vedono nella crisi di quest’ultimo più una potenzialità che un problema. Ma si sono argomentate su queste pagine le ragioni per le quali questa impostazione sarebbe infondata, almeno nel suo nucleo essenziale. Il punto a favore di un diverso scenario sta nel fatto che gli antidoti alla deglobalizzazione sono tanti, a cominciare dall’oggettiva interdipendenza del mercato mondiale e dalla possibilità che il protezionismo sia messo in crisi dal proprio stesso interno e, insomma, non riesca a superare un certo limite, cosa possibile soprattutto se la crisi non si inasprirà oltre ogni previsione: per il momento, il protezionismo è anche e soprattutto un atteggiamento difensivo, più che una prospettazione strategica. La deglobalizzazione contrasta con l’invocata necessità di regole globali per un’interdipendenza che non si può d’improvviso abolire, e a sua volta questa invocata necessità urta con il principio della urgente difesa di territori da rioccupare.

Questo sarà un terreno importante dello scontro culturale e politico. E qui l’Europa potrebbe riassumere il suo ruolo, purché essa (ma è monsieur de la Palice che ora sta parlando) riesca a concepirsi come tale, e che trovi un terreno solido sul quale far valere il proprio modello, cosa che peraltro potrà avvenire con tanta maggior forza quanto più si dovrà tornare ad affrontare, in positivo, i temi del globalismo.

Tutto insomma è interconnesso. Se si assume questa elementare condizione, proprio questo modello potrà influenzare la logica di un multilateralismo cooperativo. Ciò può avvenire nella chiave di alcune premesse e obiettivi da raggiungere: la premessa è un rapporto solido e attivo con l’America, che sia in grado di distogliere – per quanto possibile – lo sguardo degli Stati Uniti da un’eccessiva attenzione (per alcuni aspetti inevitabile) al Pacifico e di valorizzare, sia pure in modo non visionario, quella che è stata qui chiamata l’interferenza della democrazia. L’accordo di Bretton Woods, nel secondo dopoguerra, rese possibile la nascita degli Stati sociali europei, per gli effetti connessi di una certa regolamentazione dei cambi e di una forte coesione della democrazia occidentale. Furono gli accordi che permisero il grande miracolo dell’economia europea e occidentale. Furono capaci di sviluppare la produzione e di governare la già emergente finanziarizzazione. Furono, infine, gli accordi che permisero il decollo delle democrazie sociali.

Oggi, non è più possibile riproporli come tali, giacché si è enormemente espansa la base per un accordo (e questo, non lo si dovrebbe mai dimenticare, è anche un risultato dell’ultimo ventennio), ma è necessario tornare a riflettere sugli effetti che potrebbe produrre, per il mondo globale, un’intesa interna all’Occidente, ovvero a sistemi politici democratici. Si pensi a tal proposito a due effetti connessi: in primo luogo al contributo possibile alla costituzionalizzazione degli spazi nazionali (perfino della Cina) e quindi – secondo effetto – alla riduzione dell’inasprimento delle diseguaglianze su scala mondiale. In parole più semplici, esiste un accordo assai ampio sulla necessità di ridurre le diseguaglianze a livello globale, anche se l’accento viene posto dagli analisti su aspetti differenti. Almeno un elemento della crisi della globalizzazione è da ricondurre all’acuirsi relativo delle diseguaglianze, anche se, sull’altro piatto della bilancia, sarebbe da collocare l’ampliamento straordinario della base del mercato intervenuto nel frattempo. Ora, riduzione delle diseguaglianze, con possibili effetti prodigiosi sul mercato, e costituzionalizzazione degli spazi politici sono elementi connessi, come si potrebbe a lungo argomentare: l’interferenza della democrazia è proprio in questo nesso. In questo quadro, il modello costituzionale europeo potrebbe avere un nuovo slancio. È nel quadro di un’unità dell’Occidente che “l’equilibrio europeo integrato” (come chi scrive ama chiamarlo da molto tempo, senza eccessi di ubbie sovranazionali) potrebbe tornare ad avere quella spinta in grado di ridare fiducia anzitutto a se stesso, all’Europa e agli Stati che la compongono, giacché il ritorno degli Stati, di cui tanto si parla, non ha valenza forzosamente protezionista. I momenti più alti della costruzione europea hanno dimostrato che esiste una dimensione europea e comunitaria per quegli Stati che compongono l’Europa e che hanno provato a superare i limiti della dimensione politica statale. Insomma, sotto i colpi della crisi, la stessa costruzione europea è a un bivio, ed è in gioco, in senso alto, il suo stesso ruolo nel mondo.

 


[1] G. Tremonti, La paura e la speranza, Mondadori, Milano 2008, p. 32.

[2] J. Habermas, La costellazione postnazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, Feltrinelli, Milano 1999.