Problemi aperti nello schema NDC italiano

Di Sandro Gronchi Venerdì 08 Maggio 2009 18:06 Stampa

Lo schema NDC italiano, pur garantendo equità e trasparenza, presenta ancora numerosi problemi, lacune e contraddizioni, che ne rendono incerto il disegno e le finalità. Sarebbe un errore continuare nella sua applicazione senza dubbi o ripensamenti. È invece necessario individuare e applicare i rimedi più opportuni.

La ripartizione come banca virtuale

Qualunque siano la formula di liquidazione della rendita e il meccanismo di indicizzazione, il sistema a ripartizione è interpretabile come una banca virtuale dove ogni individuo possiede un conto corrente personale nel quale sono prima depositati i contributi e dal quale sono poi prelevate le prestazioni.

Nella configurazione retributiva, il sistema a ripartizione non riconosce “interessi espliciti”. Ciò nonostante, mettendo a confronto il piano dei prelievi (prestazioni) con quello dei versamenti (contributi), il calcolo finanziario riesce a desumere l’interesse implicitamente accordato dalla banca virtuale a ogni singolo correntista.

Nella configurazione NDC (Notional Defined Contribution), che solo in Italia (dove ebbe i natali) è chiamata contributiva, il sistema a ripartizione riconosce invece un interesse esplicito, identico per tutti i correntisti.

Lo schema retributivo nella forma pura (stesso quoziente di sostituzione per la stessa anzianità) è iniquo perché premia i casi meno bisognosi e i comportamenti meno virtuosi. Infatti, riconosce interessi minori alle carriere piatte (operaie e impiegatizie) rispetto a quelle esponenziali (direttive e manageriali) e ai pensionamenti tardivi rispetto a quelli precoci. Calcolando la retribuzione pensionabile sull’intera vita lavorativa (riforma Amato del 1992) e/o ripartendola in scaglioni ad aliquota di rendimento decrescente (legge finanziaria per il 1998) è possibile attenuare (non eliminare) le iniquità del primo tipo ma non anche quelle del secondo.

Poiché l’interesse sui contributi è implicito, le disparità di trattamento sono ancor meno accettabili perché occulte (rilevabili solo con strumenti finanziario- attuariali complessi).

Nello schema retributivo il pareggio di bilancio (l’equilibrio fra gettito contributivo e spesa) non è garantito a priori. Occorre navigare a vista, intervenendo sull’aliquota contributiva e/o sulle prestazioni (liquidazione e indicizzazione) ogni volta che lo richiedano le condizioni demografiche.

Per garantire il pareggio di bilancio, nello schema NDC basta chiedere alla banca virtuale di erogare un interesse uguale alla crescita della base imponibile (redditi da lavoro) che perciò è chiamata interesse sostenibile. Quindi, l’interesse sostenibile è una sorta di pilota automatico che può (non deve) essere inserito se si vuole garantire l’autosufficienza. In Italia la crescita dei redditi da lavoro fu approssimata con la crescita nominale del PIL.

Al pareggio di bilancio si può rinunciare lasciando che la banca virtuale eroghi un interesse insostenibile (superiore a quello sostenibile). Ne risulterebbe una ripartizione spuria, in cui al finanziamento della spesa è chiamata a concorrere (in via permanente) la fiscalità generale. Lo schema NDC avrebbe comunque fatto il suo “primo mestiere”, che è quello di garantire l’equità intesa come uniformità dell’interesse. È quindi falso che la sostenibilità sia la finalità irrinunciabile dello schema NDC.

 

Errori e lacune della riforma NDC italiana

Non è così grave che la brevità del tempo a disposizione del governo Dini abbia generato errori e lacune. Meraviglia, invece, che, nei quattordici anni trascorsi dal 1995 non sia maturata alcuna apparente consapevolezza e nessun rimedio sia stato preso. Su due errori vale la pena di concentrare l’attenzione: il mancato raccordo fra i coefficienti e l’indicizzazione e la mancata differenziazione dei coefficienti per coorte. Entrambi minano alla base la solidità dello schema NDC italiano.

A dispetto dell’insistenza con cui chi scrive torna sull’argomento, il raccordo dell’indicizzazione con i coefficienti non è mai entrato nel dibattito politico- sindacale italiano. Non è da escludere che la ragione sia da ricercare in una certa complessità tecnica dell’argomento. Cercheremo quindi di utilizzare un linguaggio semplice, anche a costo di qualche imprecisione.

Negli schemi NDC, la annualità della rendita base è calcolata spalmando il montante contributivo (saldo del conto personale al pensionamento risultante dalla capitalizzazione dei contributi) sulla speranza di vita, in altre parole dividendolo per gli anni che restano da vivere. In verità, si usa moltiplicarlo per un cosiddetto “coefficiente di trasformazione” definito come il reciproco del numero di quegli anni.

Poiché il montante non viene prelevato tutto in una volta, le quote residue, che restano sul conto dopo ogni annualità, devono maturare interessi (a favore del pensionato) in base al medesimo tasso che remunera i conti personali degli attivi. Diversamente, la banca virtuale violerebbe il principio cardine dello schema NDC: la parità di trattamento fra tutti i correntisti.

Gli interessi che maturano a favore del pensionato possono arricchire in due modi la rendita base. Nel primo modo, sono interamente devoluti ad aumentare le annualità successive alla prima, cioè a indicizzare progressivamente (via via che maturano) la rendita base. Nel secondo modo, gli interessi sono parzialmente anticipati e spalmati sulla vita residua come fossero un “secondo capitale” che si affianca al montante. Così facendo, si ottiene una rendita base più elevata. Per l’indicizzazione resta, però, la sola parte non anticipata dell’interesse.

A onor del vero, va detto che, tecnicamente, l’anticipazione dell’interesse avviene per incorporazione nei coefficienti di trasformazione (che assu-mono magnitudo superiori) piuttosto che per maggiorazione del montante. Le due opzioni generano differenti profili temporali della rendita. L’anticipazione parziale dell’interesse del pensionato implica annualità superiori all’inizio ma inferiori alla fine. Perciò essa consente di elevare il quoziente di sostituzione ma genera il fenomeno indesiderabile delle pensioni d’annata.

Dopo ampio dibattito, la riforma svedese fece la scelta di anticipare l’interesse maturando nella misura dell’ 1,6%. L’anticipazione fu incorporata nei coefficienti per essere poi detratta dal tasso al quale le rendite sono indicizzate dopo il pensionamento. Meno consapevolmente, l’Italia fece la scelta (simile) di anticipare (e quindi incorporare nei coefficienti) l’1,5%. Ma rifiutò di indicizzare correttamente le pensioni contributive in base alla crescita nominale del PIL decurtata dell’interesse anticipato. Ad esse fu erroneamente estesa l’indicizzazione ai prezzi, già in essere per le pensioni retributive.

L’errore si risolve in un interesse dei pensionati (l’inflazione aumentata dell’ 1,5%) diverso da quello degli attivi (la crescita del PIL). Poiché ciascuno è prima attivo e poi pensionato, si potrebbe pensare che la dicotomia sia neutrale (riguardando tutti). In verità, non è così per numerose ragioni. La più evidente è che gli individui ripartiscono diversamente la loro vita fra lavoro e pensione (in ragione delle diverse età di ingresso in assicurazione e/o di pensionamento).

Quale dei due interessi è preferibile? L’interesse dei pensionati è fisso in termini reali e perciò offre il vantaggio della stabilità; ma si tratta di un vantaggio debole perché la riforma del 1995 previde di mediare la crescita del PIL su archi temporali di cinque anni. Ove i tassi di crescita italiani tornassero alla normalità, anche solo allineandosi alla media europea degli ultimi anni, la dicotomia sfavorirebbe i pensionati rispetto agli attivi (oltre a generare avanzi di bilancio permanenti).

 

Le ragioni dell’errore

Nel 1995 la necessità di indicizzare correttamente le pensioni contributive fu brevemente discussa nei ministeri competenti ma prevalse subito la tesi che non fosse politicamente proponibile un’indicizzazione delle pensioni contributive diversa da quella delle pensioni retributive. Vi furono anche remore a tornare su un argomento faticosamente legiferato solo tre anni prima (riforma Amato del 1992).

In Svezia, il problema della difficile convivenza di due diversi regimi di indicizzazione fu lungamente discusso e opportunamente risolto con una scelta saggiamente opposta rispetto a quella italiana: alle pensioni retributive fu estesa l’indicizzazione propria di quelle contributive. In tal modo la diversità dei regimi fu evitata senza ipotecare il corretto funzionamento dello schema contributivo.

L’occasione della prima revisione dei coefficienti (gennaio 2010) dovrebbe essere usata per risolvere l’errore che lo schema NDC italiano si trascina dietro dal 1995. Preliminarmente, si dovrebbe confermare l’anticipazione dell’ 1,5% (o sceglierne una diversa) non prima di averne chiarito il significato e le implicazioni.

Tuttavia, la corretta indicizzazione delle pensioni contributive (in base alla crescita nominale del PIL diminuita dell’ 1,5%) può incontrare due ostacoli di ordine politico: può affacciarsi il timore che essa non riesca a preservare il potere d’acquisto e può riemergere il rifiuto a indicizzare le pensioni contributive diversamente da quelle retributive.

Il primo ostacolo è superabile mutuando la soluzione svedese (di estendere alle pensioni retributive l’indicizzazione di quelle contributive). Il secondo è più difficile. È pur vero che la nuova indicizzazione può anche arricchire le pensioni quando la crescita economica sia superiore all’ 1,5% in termini reali, e non solo impoverirle quando è inferiore. Non aiuta, però, la persistente stagnazione (il declino) dell’economia italiana che potrebbe durare (anche per ragioni demografiche) oltre la crisi globale recentemente insorta.

 

Una proposta

Se l’indicizzazione ai prezzi restasse una scelta politicamente obbligata, l’uniformità dell’interesse potrebbe essere ottenuta estendendo agli attivi quello dei pensionati (anziché il contrario). La crescita nominale del PIL uscirebbe definitivamente di scena e l’inflazione aumentata dell’1,5% diventerebbe anche l’interesse al quale capitalizzare i contributi fino al pensionamento. La proposta non dovrebbe alterare il processo di riequilibrio in atto perché, nel contesto demografico dei prossimi decenni, l’interesse reale dell’1,5%(che è già riconosciuto ai pensionati e che la proposta vuole estendere agli attivi) potrebbe non discostarsi molto dalla crescita media del PIL in termini reali.

Il coefficiente di trasformazione ha il compito di spalmare il montante contributivo sulla durata attesa della rendita. Perciò il primo deve diminuire all’aumentare della seconda. A sua volta, la durata diminuisce con l’età di pensionamento ma aumenta con l’anno di nascita (coorte di appartenenza). Perciò il coefficiente deve aumentare con l’età, a parità di anno di nascita, ma diminuire con l’anno di nascita a parità di età. Da tale semplice principio, seguono due regole operative per la revisione dei coefficienti: a) alla vigilia dell’anno in cui una coorte varca la soglia dell’età pensionabile, ad essa sono assegnati i coefficienti (differenziati per età) calcolati in base all’ultima tavola di sopravvivenza in quel momento disponibile; b) i coefficienti devono essere assegnati alla coorte in via definitiva, e perciò le successive revisioni devono riguardare solo le coorti successive. Il dispendioso dibattito che ha riguardato la giusta periodicità della revisione appare destituito di ogni fondamento logico-concettuale.

La riforma NDC italiana previde coefficienti differenziati per età ma non anche per coorte. Tali coefficienti, definibili erga omnes perché rivolti a tutti i lavoratori in età di pensione indipendentemente dalla coorte di appartenenza, presentano problemi d’ogni genere. Infatti, in primo luogo producono iniquità intergenerazionali a carico delle coorti più anziane cui è imputata la stessa longevità delle coorti più giovani; in secondo luogo pro-ducono iniquità intragenerazionali perché, imputando tavole di sopravvivenza differenti ai membri di una stessa coorte che scelgano di andare in pensione a differenti età, violano il principio di uguaglianza costituzionalmente garantito; infine si risolvono in formidabili incentivi al pensionamento precoce perché il prolungamento dell’attività lavorativa, motivato dalla prospettiva di una pensione migliore, è vanificato (almeno in parte) dalle revisioni.

Anche in questo caso non può essere perduta l’occasione offerta dalla prima revisione dei coefficienti. In primo luogo, la flessibilità del pensionamento, che è parte non minore della “filosofia NDC”, dovrebbe essere ripristinata tornando a prevedere una fascia d’età pensionabile (non necessariamente la stessa del 1995). Le cosiddette quote, introdotte dal protocollo del 23 luglio, potrebbero, al più, essere mantenute per le sole pensioni retributive.

In secondo luogo, a ciascuna delle coorti comprese nella (nuova) fascia d’età pensionabile, dovrebbero essere assegnati, in via definitiva, i rispettivi coefficienti avendo cura di utilizzare l’ultima tavola di sopravvivenza disponibile per la coorte al primo anno della fascia, la tavola dell’anno prima per la coorte al secondo anno, la tavola di due anni prima per la coorte al terzo anno e così di seguito.

Lo schema NDC italiano è incompiuto per tante altre ragioni. Almeno le più importanti devono essere menzionate.

a) La frammentazione del sistema in gestioni separate garantisce l’equilibrio finanziario di tutte solo se ciascuna eroga, in luogo della crescita del PIL, un interesse commisurato alla dinamica della propria base imponibile (e quindi del numero e del reddito medio dei propri iscritti). Parendo questa soluzione inaccettabile, occorre unificare le gestioni per evitare lo squilibrio di talune. Il super-INPS, nella configurazione in passato prospettata, non risolverebbe affatto il problema.

b) La diversificazione delle aliquote contributive, per le varie tipologie di lavoro dipendente e autonomo, compromette l’equilibrio finanziario del sistema (quand’anche unificato) fuori dall’improbabile circostanza che resti costante la distribuzione dell’occupazione fra le aliquote stesse. La loro unificazione è quindi altrettanto necessaria quanto l’unificazione delle gestioni.

c) La mancata separazione dell’invalidità e della premorienza (da gestire e finanziare autonomamente dalla vecchiaia) compromette anch’essa l’equilibrio finanziario del sistema oltre a non riconoscere l’inconciliabilità dei due istituti con la filosofia contributiva.

d) La diversificazione dei coefficienti di trasformazione per la categorie a longevità ridotta avrebbe permesso di risolvere al meglio il problema dei lavori usuranti.

Non serve ripetere che la scelta giusta è stata fatta e che basta applicarla senza ripensamenti e incertezze. Purtroppo non è così: lo schema contributivo italiano è incompiuto, denso di errori, lacune e contraddizioni che ne rendono incerto il disegno e le finalità. Il compito dell’intellettuale è di avvertire e mettere in guardia. Ad altri spetta di giudicare la praticabilità politica dei rimedi tecnicamente necessari.