La redenzione comincia da noi

Di Giampaolo D’Andrea Venerdì 08 Maggio 2009 18:19 Stampa

Il discorso pronunciato da Luigi Sturzo a Napoli il 18 gennaio 1923 rimane un documento di grande attualità nel dibattito storiografico e politico sulla questione meridionale. L’invocazione in esso contenuta a non cadere nell’errore di ritenere insanabili le difficoltà del Mezzogiorno e l’invito rivolto alla classe dirigente meridionale a rendersi protagonista della riscossa del Sud Italia rappresentano le linee di un percorso politico tuttora valido.

Nella ricorrenza del quarto anniversario della fondazione del Partito Popolare Italiano, il 18 gennaio del 1923, Luigi Sturzo pronunciava a Napoli, nella Galleria Principe, un vibrante discorso che sintetizzava in maniera organica e completa la sua visione della questione meridionale ed enunciava la strategia per il «risorgimento meridionale». Essa faceva perno su una concezione dualistica dello sviluppo del paese, suggestiva e originale insieme, ma decisamente ardita, articolata sulle polarità Mezzogiorno/ Mediterraneo da un lato e Nord/Europa centrale dall’altro. Il discorso napoletano voleva essere un vero e proprio testamento politico, come lo avrebbe definito lui stesso molti anni dopo, al suo rientro in Italia dopo il lungo forzato esilio. Resta un documento di sorprendente attualità anche per noi, che pure operiamo in un contesto storico molto diverso e abbiamo dinanzi un Mezzogiorno che non presenta più quel quadro sostanzialmente uniforme di stagnazione, abbandono e desolazione prospettato dalla letteratura meridionalistica di inizio Novecento, ma in cui ai mali antichi, che spesso si manifestano in forme inedite e ancor più gravi, se ne affiancano di nuovi.

Innanzitutto Sturzo rivendicava il valore politico dell’inclusione della «risoluzione nazionale del problema del Mezzogiorno» tra i punti caratterizzanti del programma del Partito popolare: così, per la prima volta nella storia d’Italia, il carattere nazionale del problema veniva evidenziato «non più come un’opinione personale», ma come «un’impostazione data a nome di un partito». A fronte di una letteratura «larga e vasta», infatti, l’impostazione politica era stata tentata «solo sporadicamente e senza efficacia» e da «voci isolate e inascoltate», alle quali avevano fatto seguito «la facile lamentela e l’inefficace protesta, quasi mai un’azione concorde e forte»; anche i provvedimenti adottati fino a quel momento, incluse le leggi speciali, che avevano avuto «una particolare importanza per curare qualche fenomeno del male», non ne avevano affrontato «in pieno le causali». Occorreva, invece, partire proprio dal superamento della formula che metteva in antitesi Mezzogiorno e governo, o addirittura Mezzogiorno e Stato, per approdare ad una visione unitaria del problema e porsi l’obiettivo di far vivere il Mezzogiorno «non avulso dal ritmo dell’economia e della politica nazionale, ma come parte integrante dell’Italia una: di spirito, di volontà, di interessi, di fede, di vita e di avvenire ». Sturzo era convinto, come Giustino Fortunato, che la diversità di razza, di condizioni geografiche e di tradizioni storiche differenziassero sensibilmente l’Italia del Sud dal resto della penisola, e in più che Nord e Sud avessero interessi antagonistici, con l’Italia del Nord proiettata verso l’Europa centrale e con il Mezzogiorno collocato al centro del Mediterraneo. Ma considerava un «errore», per quanto potessero essere «difficili» e «aggravate dalle vicende storiche» le loro condizioni «fisiche, demografiche ed economiche», considerare le regioni del Sud condannate ad una «inferiorità insanabile». Il torto del Mezzogiorno, a suo parere, era stato proprio quello di non aver saputo imporre all’evidenza «una concezione economico- politica meridionale che potesse coesistere con lo sviluppo industriale dell’Alta Italia», da lui giudicato «naturale e perciò non sopprimibile, né coercibile», logicamente in grado di attrarre su di sé le risorse finanziarie e le risorse politiche del paese. Era sostanzialmente mancata una «comprensione politica del problema», anche da parte degli stessi meridionali, vittime di un certo complesso di inferiorità. Il Mezzogiorno, infatti, non aveva sostanzialmente opposto resistenza, né lottato; aveva «mormorato », aveva «protestato», aveva «scritto libri e opuscoli», aveva «fatto discorsi ». Così l’economia del Nord era agevolmente riuscita nell’intento di «assorbire le energie maggiori, di utilizzare a proprio vantaggio altre forze, di orientare a sé il resto del proprio mondo», comprando «con i migliori salari la connivenza delle classi lavoratrici orientate verso il socialismo» e conquistando «con i premi politici il consenso di sfruttamento delle energie e delle condizioni del Mezzogiorno ». Gli stessi uomini politici meridionali non avevano saputo «né intuire le cause iniziali e profonde della crisi dell’ex regno, né prevenire gli effetti, né apportare i rimedi»; gli intellettuali erano rimasti prigionieri del tradizionale indirizzo giuridico e teorico della loro formazione e della loro cultura; «la pressione feudale era stata assai forte, anche dopo l’abolizione delle feudalità»; non c’era stata poi una vera borghesia, un «ceto intermedio, autonomo, trafficante, audace». L’alta banca e l’alta finanza «influivano sulla vita politica e ne determinavano lo sviluppo», ma «erano altrove, nella loro sede più naturale». Il Mezzogiorno era rimasto, dunque, «fuori dal nuovo ritmo, come una zona in stasi morale, in crisi economica, in turbamento politico». Il colera di Napoli, i terremoti di Reggio Calabria e Messina e poi della Marsica, l’emigrazione massiccia, avevano avuto l’effetto di «impressionare e allarmare governo e nazione», mentre i Fasci siciliani e le celebri inchieste avevano mostrato inequivocabilmente «il grado di inferiorità economica e sociale della grande agricoltura e del latifondo». Ma la consapevolezza dell’urgenza di una svolta profonda si era arenata per il prevalere dei pregiudizi antichi sull’ «indole» dei meridionali e sul Mezzogiorno «assistito», regno incontrastato di sperperi, abusi e clientele, sottoposto al dominio incontrollato della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta, area da bonificare, incapace di esprimere apporti positivi al suo sviluppo e di concorrere positivamente allo sviluppo del paese.

Era stata la guerra a rivelare l’esistenza, accanto a quello consueto, quasi scontato, di un altro Mezzogiorno, «così robusto moralmente, così sano spiritualmente, così pieno di energia e resistenza fisica, così devoto al sacrificio per la patria», da meritare tutt’altra considerazione da parte dello Stato; un Mezzogiorno «vivo come un’entità integrante la vita stessa nazionale, come una forza reale da sviluppare nella sintesi delle forze italiane», un Mezzogiorno finalmente pronto a «superare le difficoltà economiche » per «passare da un’economia quasi passiva ad un’economia attiva ». Naturalmente a condizione che la politica della nazione italiana assumesse il respiro di «una politica forte e razionale, orientata al bacino mediterraneo » e venissero superate «le tre barriere poste dal regime doganale, dalla pressione tributaria, dalla legislazione uniforme e livellatrice». Sturzo era convinto che il Mezzogiorno disponesse di energie sufficienti per «affrontare il suo avvenire come centro mediterraneo». Poteva contare innanzitutto sulla palese dimostrazione di «volontà, energia, facilità di apprensione, forza di resistenza» offerta, in qualità di emigranti, dai suoi lavoratori. Poi sulla tenacia e sulla capacità di risparmio «della nostra gente, quando la speranza, anche tenue, ne alimenta le forze». Era necessario ora diffondere «scuole professionali specializzate » per formare una nuova generazione orientata «verso il lavoro utile e produttivo», promuovere con impegno il «risanamento igienico» e il «rinvigorimento morale» («dove il lavoro afferra l’uomo e lo costringe allo sforzo per tutta la vita, lo redime e lo eleva moralmente»), «iniziare una soluzione onesta e razionale del problema terriero» attraverso il superamento del latifondo. Dalla coscienza della nuova posizione politica centrale dell’Italia del dopoguerra era finalmente possibile far partire una politica «di pacifica espansione mediterranea e adriatica» in cui «le due parti d’Italia, Nord e Sud» potessero avere «due centri di sviluppo e di convergenza, come un insieme economico», nel quale il Sud potesse ricongiungersi nuovamente al Nord.

Ma la madre di tutte le condizioni restava per lui l’iniziativa efficace dei meridionali per sconfiggere definitivamente parassitismi, superficialità, improvvisazioni, degenerazioni clientelari. «La redenzione comincia da noi. Sta al Mezzogiorno che la questione meridionale venga conosciuta, sentita, valutata, e che si superino i vecchi e nuovi ostacoli a risolverla ». Un richiamo severo alla classe dirigente meridionale, valido ora come allora, ad operare con efficacia e determinazione perché sia chiaramente percepibile un disegno complessivo di sviluppo e di crescita del Mezzogiorno, che ne valorizzi tutte le risorse e torni ad assecondarne tutte le potenzialità. Ora come allora, infatti, di fronte alla gravità della crisi, l’invocata solidarietà non può limitarsi ad «un semplice altruismo di due popolazioni che abbiano interessi, mentalità, costumi diversi», ma deve potersi trasformare in una «convergenza di politica e di economia, in uno sforzo ristoratore della nostra vita nazionale».

Luigi Sturzo

Il Mezzogiorno e la politica italiana

«Nel programma del Partito Popolare Italiano, fu messa, come affermazione fondamentale nel piano politico (la prima volta in Italia) ‘la risoluzione nazionale del problema del Mezzogiorno’. Così è detto al capo V; e nel primo congresso nazionale tenuto a Bologna nel giugno del 1919 fu riaffermato che il problema del Mezzogiorno è di carattere ‘nazionale’. Questa impostazione data da noi a nome di un partito – e non più come opinione personale, alla ripresa dell’attività politica del dopoguerra, – passò ad altri partiti, che in varie forme fecero anch’essi simili affermazioni, benché non le avessero inserite nel loro programma; da ultimo anche il fascismo, che sembrava escludere affermazioni credute particolariste come questa, ha sentito che al programma del Mezzogiorno deve darsi portata nazionale.

Però, mentre tale impostazione risponde ad una realtà profonda – che da noi meridionali è certo più sentita e meglio intuita – non ha avuto fin oggi che una semplice espressione esteriore e teorica, e ciò per la mancanza di una comprensione politica del problema medesimo, sì da poter creare un orientamento sintetico e convergente di tutti quei problemi diversi, tecnici, finanziari, economici e morali, che in una frase significativa e centrale vengono detti ‘questione meridionale’.

Premetto che per Mezzogiorno intendiamo non solo quello continentale dall’Abruzzo alla Calabria, ma anche le isole di Sicilia e Sardegna. È naturale che così vasta regione, anzi agglomerato di regioni, abbia molti problemi da risolvere e da agitare. Ma la convergenza di tante condizioni omogenee o simili, la connessione di interessi e di economia, la simultaneità e univocità di cause e di effetti – pur nel vario e diverso ritmo di ogni singola parte – la ragione economica e il suo sviluppo politico, che li assomma e li proietta nella visuale nazionale, fanno dei tanti problemi un problema solo, formidabile e premente alla coscienza pubblica.

Quando noi diciamo che la questione del Mezzogiorno è un problema ‘nazionale’, intendiamo ciò sotto doppio aspetto: in quanto gli effetti del problema si ripercuotono in tutta la nazione, e in quanto è dovere nazionale risolverlo nella sua intera portata. Ora non sarà ciò possibile, se noi che siamo figli del Mezzogiorno e che nella politica nazionale diamo molto della nostra attività e dei nostri sentimenti, non ci formiamo una coscienza del problema nella sua portata sintetica e nella sua ragione politica, e non contribuiamo a formare la coscienza pubblica perché possa irradiarsi e diventare fonte e forza motrice di altre energie, locali e statali, economiche e morali di tutta la nazione.

Il Partito Popolare Italiano si è prefisso questo compito fin dal suo inizio, ne volle prendere impegno segnandolo nelle sue tavole programmatiche, e la sua azione e quella dei propri uomini al governo non è stata priva di utili effetti, come le varie affermazioni non furono sterili e vane. E oggi, prendendo occasione dal quarto anniversario della costituzione del partito, in questa metropoli del Mezzogiorno – che ne ha tutti i fascini e che ne incentra tante energie – intendo riaffermare il programma del risorgimento meridionale, quale è nella sua natura complessa e nella sua ragione nazionale, parlando sul tema ‘Il Mezzogiorno e la politica italiana’. Alla presenza di tante rappresentanze, venute dalle regioni più lontane, e di questa calda folla di vario sentire politico ma di un sol palpito per le nostre terre, a nome del Partito Popolare Italiano, intendo ripetere, in questo giorno, per noi fausto e pieno di speranze quanto nell’aprile del 1920 il nostro secondo congresso qui a Napoli volle dimostrare di solidarietà e di comprensione dei nostri mali, ma con un piano più maturo dall’esperienza e più sicuro nelle linee ricostruttive, e con una volontà ferma e decisa di lavorare e cooperare alla soluzione per l’interesse e il bene della patria nostra. Questa patria, che non è solamente geografica né solamente politica, dalle Alpi al Lilibeo è tutta una unità inscindibile ed è tutta in un travaglio morale, politico ed economico, per risolvere la sua crisi (della quale parte notevolissima è il Mezzogiorno) e riprendere il suo cammino glorioso di civiltà e di progresso.

Stando e vivendo fuori dell’ambiente meridionale, – nel contatto con studiosi, uomini politici, economisti, finanzieri, persone dedite agli affari, giornalisti di qualche cultura e burocrati di discreta levatura – si ha l’impressione che il maggior numero di costoro consideri il problema meridionale anzitutto come un effetto della indole, dei costumi, dell’indirizzo culturale, della mancanza di iniziativa e di coraggio da parte degli abitanti di queste belle e disgraziate regioni; in secondo luogo come una questione di lavori pubblici, specialmente locali, ai quali lo Stato già provvede con una certa specialità di metodi e con concorsi più larghi che per altre regioni, intervenendo anche di là da una equa misura per quelle condizioni speciali che veramente esistono, ma che spesso gli uomini politici del Mezzogiorno esagerano, per abitudine retorica e a scopo di facili clientele elettorali. Così la figura del meridionale è caratterizzata, nella opinione di molti, come quello che non fa, né sa fare quanto dovrebbe, per superare le difficoltà del proprio ambiente, e pitocca dallo Stato aiuti e favori, non sempre proporzionati o completamente utili, né sinceramente disinteressati.

Sì, è vero, vi sono problemi speciali, come quello degli agrumi e degli zolfi in Sicilia, quelli del terremoto a Messina, in Calabria, nella Marsica, la malaria, le arvicole, le frane in molte regioni, i porti di Bari, Palermo e Napoli, le bonifiche a Caserta, Salerno, Cosenza e Cagliari: ma in quali regioni non vi sono problemi locali di varia natura e di urgente soluzione?

Ogni provincia italiana, si può dire, ha il suo bene e il suo male; forse per questo si è mai parlato in Italia, come di questione permanente e immanente di politica generale, di una questione piemontese o ligure o lombarda o toscana o romagnola? I più benevoli, quelli che han viaggiato (son pochi gli italiani che viaggiano a scopo di studio e di politica oggettiva) hanno, sì, una impressione generica di vari problemi, come quelli della viabilità, dei trasporti, del latifondo, della pubblica sicurezza nelle campagne, e così via; ma per lo più deformati da preconcetti di una letteratura romantica che ci diffama, oppure da incomprensione degli stati d’animo della nostra popolazione; sentiti attraverso la coloritura sentimentale della nostra conversazione imaginosa e superficiale, che spesso fa deviare anche gli studiosi nelle loro inchieste e analisi dei nostri mali.

Del resto è facile, in una conoscenza affrettata, misurare le nuove cose apprese col metro delle cose già conosciute in altri ambienti, e non comprenderle nella loro ragion d’essere e nel loro profondo significato, onde viene eliso qualsiasi sforzo pratico da una dualità di modi di valutare e di apprezzare le stesse cose, che determinano due vere posizioni diverse fra il Mezzogiorno e il resto dell’Italia. Pochi sono quelli che fuori della nostra terra conoscono il nostro problema, e non tutti sono in grado di far valere la loro esperienza. D’altra parte, bisogna convenire che la falsa impostazione politica della questione è dovuta a noi; siamo abituati oramai a domandare al governo, più che allo Stato, ogni aiuto, ogni intervento diretto e indiretto, buono o cattivo, efficace o inutile, possibile o impossibile; e ciò senza che vi corrisponda, da parte nostra, una forma di attività, di preparazione risolutiva, di cooperazione efficace, di impostazione realistica e di solidarietà politica delle nostre forze. Onde è purtroppo doloroso dover constatare che da trent’anni che si parla apertamente di questione meridionale (prima se ne parlava sottovoce), non si è riusciti a rimuovere una sola delle cause fondamentali della nostra inferiorità; solo si è ottenuto (bontà degli eventi) quel tanto di azione statale quanto se ne sarebbe ottenuta senza parlare di questione meridionale, ma solo sostenendo (come si fa in ogni regione) quei particolari interessi o quelle particolari provvidenze che rispondono a determinati problemi concreti. Chi mai si sarebbe opposto alla costruzione delle Calabro- Lucane, se venivano proposte con la stessa semplicità con cui si parlò della Cuneo- Ventimiglia o della Ovada-Genova? E quando si pensò alle bonifiche emiliane forse si fece la stessa impostazione dell’eterno acquedotto pugliese? Del porto di Savona si fece meno rumore e più fatti che non di quello di Bari; e il porto di Palermo, già in costruzione, è insidiato assai più che non sia quello industriale di Venezia.

Nessuno potrà affermare che, senza agitare la questione meridionale – come una paurosa e complessa tragedia di un popolo, – non si sarebbero ottenuti allo stesso modo quei provvedimenti e molti altri, nella più o meno equa e razionale distribuzione dei lavori pubblici. E mentre la letteratura sulla questione meridionale è larga e vasta (come raccolta di dati e studio di elementi), la impostazione politica del problema è stata tentata solo sporadicamente e senza efficacia da vari uomini nostri di qua e di là dal faro. Ma sono state voci isolate, inascoltate, alle quali ha fatto seguito la facile lamentela e la inefficace protesta, quasi mai un’azione concorde e forte; e tutti i provvedimenti adottati dallo Stato hanno avuto una particolare importanza per curare qualche fenomeno del male, ma non affrontavano in pieno le causali del male.

Per arrivare a un risultato sicuro occorre anzitutto rifare il nostro orientamento, superare la formula dualistica che mette in antitesi Mezzogiorno e governo, anzi Mezzogiorno e Stato, come due entità diverse e in contrasto, come se noi meridionali non fossimo elementi e forze costitutive dello stesso governo e dello Stato italiano. Anzi occorre fare un passo ancora più decisivo. Occorre superare il nostro stato psicologico che ci mette in condizioni di inferiorità, perché nell’accentuare questo contrasto e nel riportarlo alle condizioni diverse con le altre regioni d’Italia (specialmente del Nord), sembra che si attenda un ausilio esterno, lontano, invocato, invece di crearci noi un programma politico della questione meridionale, da divenire nostra convinzione, nostra formula, nostra forza (al disopra dei partiti politici che ci dividono) e farlo divenire, con la efficacia delle minoranze convinte, pensiero generale degli italiani.

È possibile ciò? Ci saranno questi uomini, questi partiti, questo ‘club’ intellettuale che creerà nel Mezzogiorno la sua nuova coscienza e la sua nuova forza? […]

La redenzione comincia da noi. Questo è canone fondamentale che noi popolari del Mezzogiorno proclamiamo, come un inizio di forza e di vitalità che deve conquistarci il dovuto posto nella vita italiana; la redenzione comincia da noi! La nostra parola è questa: il Mezzogiorno salvi il Mezzogiorno! Così il resto dell’Italia riconoscerà che il nostro è un problema nazionale e unitario, basato sostanzialmente nella chiara visione di una politica italiana mediterranea e di una valorizzazione delle nostre forze.

Questa visione non deve essere monopolio di partito, ma coscienza politica della nostra gente, che seppe i dolori e le lacrime di ieri, che visse le più splendide civiltà, che dovette piegare allo straniero, ma rimase, nell’animo, latina, cristiana, meridionale come il retaggio di tre civiltà in una, nella esuberanza di sentimenti e di idealismi, che splendono in Napoli bella e in Palermo ferace: come la visione di un perpetuo sogno, come l’immagine di un futuro sperato e voluto, come il segno precursore del nostro risorgimento.

A questo risorgimento del Mezzogiorno noi – popolari e meridionali – vogliamo cooperare come ad una nuova forza sorgente per la saldezza e grandezza della patria nostra italiana, che riaffermi, nel futuro domani, i vecchi e i nuovi diritti nel Mediterraneo».