A proposito del PIL

Di Stefano Fenoaltea Giovedì 28 Febbraio 2008 23:21 Stampa

Il PIL come strumento cardine della contabilità nazionale nasce negli Stati Uniti con la precisa esigenza di far fronte all’instabilità dell’economia con misure anticicliche, orientate alla creazione di occupazione. Era necessario disporre di indicatori rapidi e di breve periodo, senza un rigido fondamento teorico. Tuttavia, il PIL non è stato mai sostituito da un indice ragionato, presenta numerose imperfezioni e di fatto non è una misura attendibile del benessere. Non è oggi facile sostituirlo con strumenti alternativi e maggiormente rispondenti alla realtà.

Il PIL è la misura oramai comune della nostra economia, del nostro benessere, del nostro successo; a Trastevere, sobborgo della FAO, si direbbe della nostra performance. Anni fa, negli Stati Uniti, un docente che insegnasse i rudimenti della contabilità nazionale, del PIL e delle sue componenti, domandando agli studenti di spiegare perché gli Stati Uniti avevano (allora) il PIL pro capite più alto del mondo, si sarebbe sentito dare risposte prevedibili: «perché abbiamo una dotazione unica di risorse naturali», «perché il nostro sistema economico è il più efficiente», «perché siamo all’avanguardia dello sviluppo tecnologico» e così di seguito. Ognuna di queste affermazioni aveva del vero, ma erano tutte superficiali: il motivo di fondo del primato americano era semplicemente che il PIL era stato inventato in America.

Provocazione a parte, il punto era, e rimane, che i nostri dati macroeconomici non sono misure immediate di fenomeni oggettivi, come possono essere i dati delle scienze naturali. Sono piuttosto, come le opere letterarie, elaborazioni complesse legate al particolare contesto culturale, al particolare momento storico che le vede nascere, e come queste colgono non la realtà ma, alla luce dei valori e dei pregiudizi di una certa società, un particolare aspetto della sua realtà, un aspetto in quel momento attuale. Per capire cosa è il PIL bisogna capire dove, quando e come esso nasce; e se si capisce cosa è si capisce anche cosa non è. Non è una misura dell’economia, non è una misura del benessere, non è una misura del successo del sistema sottostante.

Nasce, come si è detto, negli Stati Uniti, nel periodo tra le due guerre, figlio della scuola empirica, istituzionalista, che vuole dedurre le leggi dell’economia dalle osservazioni statistiche piuttosto che da ipotesi assiomatiche. La matrice storica della contabilità nazionale è infatti l’ambiente del National Bureau of Economic Research, istituto privato fondato nel 1920 e diretto fino al 1946 da Wesley Clair Mitchell, leader storico della scuola istituzionalista. Mitchell aveva studiato a Chicago con l’economista eterodosso e sociologo Thorstein Veblen, cofondatore di quella scuola (e poi della New School for Social Research di New York); si dedicò principalmente allo studio del ciclo economico, completamente trascurato dall’analisi statica degli economisti ortodossi, raccogliendo grandi quantità di dati dai quali sarebbe dovuta emergere una teoria empiricamente fondata (attirandosi ovviamente la critica che la stessa scelta dei dati non può non dipendere – che l’osservatore se ne renda conto o meno – da una teoria sottostante). A curare in modo specifico la contabilità nazionale fu Simon Kuznets (già allievo di Mitchell alla Columbia University), al National Bureau dal 1931 e poi presso il Dipartimento del commercio che già curava i censimenti demografici ed economici. Le prime stime ufficiali, governative, risalgono al 1934.

La contabilità nazionale nasce dunque in un ambiente pratico piuttosto che teorico: nasce cioè senza una precisa definizione a priori della sua funzione e della forma che ne consegue. Nasce con velleità polimorfe, onnicomprensive; nel concretizzarsi prende però una forma precisa, plasmata dall’interesse per il ciclo economico, per gli andamenti di breve periodo, che deriva sia dalla tradizione del National Bureau, sia dal momento storico. La contabilità nazionale diventa infatti statistica ufficiale, governativa, negli Stati Uniti durante la Grande depressione e, nell’immediato dopoguerra, con il consolidarsi dell’egemonia americana, in tutto l’Occidente. Sono gli anni in cui trionfava l’economia keynesiana, dominava il pessimismo ereditato dagli anni Trenta, si pensava che il capitalismo maturo tendesse naturaliter alla crisi e alla disoccupazione di massa. Il riarmo e la guerra avevano rilanciato l’economia, ma si temeva che la pace riportasse la crisi; i governi si fecero quindi carico di evitarla, di stabilizzare l’economia con gli strumenti anticiclici suggeriti dalla Teoria generale di Keynes. La contabilità nazionale si cristallizza pertanto in quel momento come strumento di supporto alle politiche anticicliche, anti crisi, anti disoccupazione. Le statistiche macroeconomiche devono illustrare gli andamenti di breve periodo, essere ottenute rapidamente, sfruttando dati disponibili o facilmente reperibili; devono permettere di identificare eventuali sviluppi patologici e di intervenire per contrastarli in tempi brevi. Meglio dunque un indicatore approssimativo, prodotto in poche settimane, che una misura teoricamente “pulita” ma calcolabile solo in tempi lunghi. Il problema è pratico e il genio pratico di Kuznets ne elabora una soluzione.

Una soluzione pratica a un problema particolare: è questo che spiega cosa è, di fatto, il PIL. Voler identificare rapidamente l’andamento dell’economia nel breve periodo significa che non serve perdere tempo a misurare l’economia stessa, è sufficiente misurare variabili che siano, nel breve periodo, ad essa correlate. Il PIL è di fatto solo un indice; e come tale ammette omissioni e duplicazioni, che non comportano distorsioni significative proprio perché si può presumere che nel breve periodo abbiano un peso praticamente costante sul totale. Che si misuri sempre X, o il doppio, o la metà, le variazioni rela- tive tra due successive osservazioni sono le stesse. I problemi sorgono se si esorbita dal breve periodo, dall’ambito nazionale, dato che la percentuale di X che si misura può variare su tempi più lunghi, e ancor più da paese a paese.

Per evitare duplicazioni, dicono i libri di testo, il PIL corrisponde alla somma dei valori aggiunti delle aziende: i fatturati al netto degli acquisti da altre aziende, piuttosto che i semplici fatturati; non varia dunque con la fusione tra un’azienda e una sua fornitrice, che ridurrebbe la somma dei fatturati lordi ma senza toccare la somma dei fatturati netti, ossia dei valori aggiunti. Tuttavia, la ragione per cui il PIL evita queste duplicazioni non dipende da motivi di metodo, ma è più banalmente legata al fatto che quando è nata la contabilità nazionale il Dipartimento del commercio americano aveva già elaborato il concetto di valore aggiunto, che riportava nei suoi censimenti industriali.

La controprova che la base delle convenzioni del PIL sia istituzionale piuttosto che logica si riscontra nel trattamento delle industrie estrattive. I censimenti americani chiedevano alle aziende del settore quanto pagavano i diritti di estrazione dei minerali, nel caso non fossero proprietarie del sottosuolo; quelle proprietarie, com’è ovvio, non indicavano nulla. Rimaneva pertanto ignoto il valore complessivo delle riserve consumate dall’estrazione, valore che andrebbe detratto dal fatturato per calcolare un valore aggiunto analogo a quello delle altre industrie. In mancanza di informazioni, la contabilità nazionale procede allora con un espediente pratico: misura le sole industrie estrattive dal valore lordo piuttosto che dal valore aggiunto, come se vendessero materiale non estratto, ma creato dal nulla. Per le sole industrie estrattive, dunque, il PIL comprende, oltre alla produzione corrente, la liquidazione di stock preesistenti; tanto maggiore è il peso dell’industria estrattiva nell’economia complessiva di un paese – come nei paesi arabi – tanto più il PIL esagera il prodotto effettivo. Simmetricamente, il PIL esclude. Esclude – almeno escludeva al momento della sua nascita – le attività non legali, ovviamente non documentate dalle dichiarazioni dei redditi e simili sottoprodotti dell’amministrazione ordinaria. Tende invece oggi a includerle: apripista in questo è stata proprio l’Italia, che si vedeva declassata per le notevoli dimensioni che l’economia sommersa vi assume. Includendola nel calcolo del PIL vent’anni or sono, potemmo vantarci di aver superato l’Inghilterra – almeno nel PIL – vantando nel contempo una legislazione assurda, un’amministrazione inefficiente, la nostra società incivile.

Il PIL esclude tuttora anche il prodotto del lavoro non remunerato: in parte perché anch’esso mal documentato, ma soprattutto perché il PIL nasce segnato dalla Grande depressione, dal timore della disoccupazione di massa, dunque dall’interesse per la produzione che “crea lavoro” (remunerato). Esso infatti trascura ad esempio il prodotto delle massaie, con il risultato, segnalato da tutti i libri di testo, che il PIL di un paese si riduce se uno scapolo sposa, e smette dunque di pagare come dipendente, la donna che si occupa delle sue fac- cende di casa. Ancor più significativo è il fatto che, se una madre smette di accudire i figli e paga un’altra persona per farlo al posto suo, il PIL aumenta perché conta il prodotto del lavoro – attivato – della seconda, e non quello del lavoro – dismesso – della prima. Tanto minore è la quota del lavoro delle donne mediata dal mercato del lavoro, tanto maggiore è la quota del prodotto complessivo trascurata dal PIL: a parità di prodotto effettivo sarà più alto il PIL dove maggiore è il “tasso di partecipazione femminile alla forza lavoro” (locuzione consolidata che implicitamente tratta le massaie come non lavoratrici, dimostrando che se le misure non nascono da concetti chiari, finiscono per oscurare i concetti stessi). Proprio perché mirata a servire le politiche anticicliche, di sostegno all’occupazione, la contabilità nazionale considera la produzione del mercato e dello Stato, ma non quella delle famiglie: eppure mercato, Stato e famiglie sono istituzioni alternative per organizzare la produzione, ognuna con i suoi vantaggi e svantaggi, ognuna dunque con il suo ambito naturale, ognuna “economica” quanto le altre.

Per lo stesso motivo, poi, il PIL non guarda all’interno del prodotto che misura. Fare pane, fare armi, fare buche e poi ricoprirle: tutto si equivale, tutto crea lavoro. Il PIL è un indice dello sforzo, non del risultato, non del benessere. Lo stesso Kuznets, meditando più tardi sulle conseguenze delle guerre mondiali, metterà sullo stesso piano la Grande depressione scaturita dalla prima e la corsa agli armamenti scaturita dalla seconda: la perdita di benessere è misurata nel primo caso dal PIL non prodotto per via della crisi, nel secondo dalla parte di PIL effettivamente prodotta ma dedicata alle armi.

Una misura del benessere avrebbe in comune con il PIL solo la produzione di beni di consumo finali. Essa infatti escluderebbe la produzione di beni di investimento, di beni socialmente intermedi (le spese per la difesa e le forze dell’ordine); comprenderebbe la produzione delle famiglie, il valore d’uso dei beni durevoli (il PIL comprende quello delle abitazioni, di cui è noto lo stock da fonti fiscali, ma non quello degli altri beni durevoli privati e pubblici, dall’ambiente naturale un tempo trascurato ai monumenti storici che negli Stati Uniti mancano), il tempo libero dal lavoro, il tempo libero sul lavoro (almeno dei nostri impiegati pubblici).

La misura del benessere, della crescita, dell’economia non è il PIL. Ma allora perché è usato come se lo fosse? Ciò accade innanzitutto a causa delle parole, che controllano il pensiero. Se la summa della contabilità nazionale si chiamasse “indice dello sforzo produttivo che determina l’occupazione remunerata”, invece che, impropriamente, “prodotto lordo”, lo useremmo per quello che è e non per quello che si fregia di essere. Il PIL è il re della foresta statistica: quia nominor leo, come recita la nota favola di Fedro. Sicuramente a causa di Kuznets stesso, che ebbe il coraggio di creare quel particolare indicatore quando quello serviva, ma non volle o non si sentì in seguito capace di crearne un altro, altrettanto mirato, quando i suoi interessi si spostarono allo sviluppo di lungo periodo, alle comparazioni internazionali. Si contentò semplicemente di replicare il PIL americano per altri tempi e paesi: è lo stesso padre della contabilità nazionale che ci ha insegnato ad usarla a torto come a ragione. Per colpa del potere, nazionale e internazionale: la contabilità nazionale è diventata religione di Stato, sostenuta da un clero di burocrati pronti a lavorare al margine, a far spazio per esempio all’economia sommersa, a discettare se una qualche attività vada considerata tra le voci relative all’industria o tra quelle relative ai servizi, ma assolutamente restii a riflettere sugli stessi fondamenti del loro bagaglio intellettuale. I difetti del PIL sono notori, le proposte di misure alternative abbondano, anche a firma prestigiosa; ma sono voci per definizione eretiche, clamantes in deserto.

Ciò per colpa non ultima dell’Accademia, degli economisti, che continuano a vedere la loro scienza sociale come analoga a una scienza naturale. Bene ne imitano il metodo, la coerenza logica, le ipotesi parsimoniose, il confronto tra le implicazioni di queste e i dati, naturaliter quantitativi, derivati dall’osservazione empirica. Male fanno a vedere nella loro disciplina una scienza, una cumulazione di conoscenze confermate (o perlomeno non falsificate) dall’osservazione oggettiva della realtà. Le scienze sociali sono piuttosto l’equivalente odierno delle storie che si raccontavano i nostri lontani antenati quando si riunivano la sera intorno al fuoco: le nostre teorie, i nostri fatti, le nostre – come le loro – storie sono elaborazioni mirate innanzitutto a definire e a diffondere un’immagine di noi stessi. L’ha capito l’antropologia, folgorata qualche decennio addietro dalla scoperta che “il primitivo” era un’invenzione di noi occidentali, elaborata appunto per gloriarci di essere evoluti. Ma l’economia politica nel suo insieme è ancora lontana da un’analoga presa di coscienza: essa rimane legata a una visione ottocentesca, positivista, della propria natura, sviluppa le tecniche ma non il senso critico, e tanto meno la critica epistemologica dei dati. Cambieranno le cose? Forse un giorno, ma è ancora presto per vederne l’alba. Solo pochi mesi fa, ad un convegno dedicato alla ricostruzione storica dei conti economici nazionali, chi disse ai presenti: «A noi interessa la crescita di lungo periodo, il benessere; buttiamo a mare la contabilità nazionale, ragioniamo su come misurare quello che veramente vogliamo misurare. Chi meglio di noi può superare il PIL?» si sentì opporre un rifiuto immediato, viscerale, violento. Arrivò a dire un collega, «I criteri ce li deve dare l’Eurostat ». Perinde ac cadaver.