L'economia spagnola e la "promessa europea": una retrospettiva

Di Stefano Manzocchi Giovedì 28 Febbraio 2008 23:26 Stampa

Il bilancio della presenza della Spagna nell’Unione europea ha più volti: fino alla metà degli anni Novanta i benefici dell’accesso al mercato interno e della stabilità macroeconomica sono stati meno evidenti di quanto sperato, tranne che per l’ingente afflusso di capitali esteri. Ma il “miracolo” dell’era Aznar (e Zapatero) è anche frutto delle trasformazioni del decennio precedente, e del difficile crinale del 1992-93.

Luci e ombre che si rincorrono

In questo periodo, in Italia, è di moda esaltare i successi dell’economia spagnola. Si tratta senz’altro di un riflesso delle difficoltà oggettive e delle percezioni pessimistiche che prevalgono nel nostro paese, ma anche dell’effetto di alcuni brillanti risultati che il sistema iberico ha conseguito. Ma è stata – quella dell’economia spagnola in Europa – una cavalcata gloriosa e senza intralci? Per superare le rappresentazioni trionfalistiche ad uso retorico di nostri dibattiti un po’ provinciali – rappresentazioni peraltro smentite dagli stessi studiosi spagnoli – occorre distinguere tra fasi e aspetti diversi. Il quadro che emerge ad una prima lettura testimonia di un decennio con alcune luci e molte ombre (1986-95), seguito dal decennio del “miracolo spagnolo” che si prolunga fino ad oggi. Scavando più in profondità, si comprende tuttavia come nelle pieghe delle difficoltà dei primi anni si trovino i semi dei successi recenti – sia sotto il profilo strutturale sia nelle attitudini pubbliche e private – e come lo sviluppo impetuoso dell’ultimo periodo nasconda in realtà alcune storture e insidie per il futuro. Sono tre – in estrema sintesi – i principali vantaggi economici che l’Unione europea promette ai paesi candidati all’adesione le cui economie siano in ritardo rispetto a quelle dei paesi membri: il libero accesso al mercato interno per i beni prodotti in quei paesi (per i servizi, l’accesso è ancora parziale e contrastato, come dimostra la recente controversia sulla cosiddetta “direttiva Bolkestein”); la credibilità finanziaria e macroeco- nomica che deriva dall’appartenenza all’area economica più ricca del pianeta; la disponibilità di risorse comunitarie destinate allo sviluppo delle regioni arretrate e al settore agricolo. La mobilità dei lavoratori tra paesi dell’Unione, un quarto beneficio potenziale, è ancora parziale e imperfetta e comunque non ha rappresentato finora un elemento quantitativamente paragonabile alla mobilità tra regioni del medesimo paese.

Un’altra ricaduta positiva, l’afflusso di investimenti produttivi e finanziari dall’estero, è la conseguenza dei primi due vantaggi descritti sopra. Altri benefici si possono ottenere anche unilateralmente, senza aver conseguito la “promozione” a Stato membro dell’UE. Ad esempio, lo stimolo competitivo che un’economia riceve dalla concorrenza con imprese e fattori produttivi di altri paesi, si ottiene aprendosi agli scambi internazionali. La minore sensibilità della politica monetaria al ciclo elettorale si può ottenere, in teoria, non solo partecipando ad una unione valutaria, ma anche costituzionalizzando l’autonomia della banca centrale, o cedendo di fatto la sovranità monetaria (come si è fatto – con alterne fortune – nelle economie “dollarizzate” del Sud America).

La Spagna ha visto concretizzarsi a partire dalla metà degli anni Ottanta la “promessa europea”, così come l’Italia negli anni Sessanta, l’Irlanda dal decennio seguente e i paesi dell’Est europeo più recentemente. Ogni paese che partiva da una situazione di ritardo economico ha visto realizzarsi questa promessa con modalità e tempi diversi, a seconda della congiuntura storica e delle peculiarità della propria economia. Nel caso spagnolo, il rodaggio è stato difficile, anche perché l’adesione all’Unione è avvenuta dopo la fine della stabilità globale assicurata dal sistema economico postbellico tra il 1950 e il 1973 (il cosiddetto sistema di Bretton Woods). Invariabilmente, i benefici economici dati dall’appartenenza all’UE hanno poi comportato conseguenze indesiderate, che hanno richiesto e richiederanno soluzioni nazionali, non comunitarie.

L’esperienza della Spagna nell’Unione ha numerose sfaccettature. In sintesi, si può sostenere che fino alla metà degli anni Novanta i benefici dell’accesso al mercato interno e della stabilità macroeconomica siano stati meno evidenti di quanto la “promessa” lasciasse sperare, tranne che per l’ingente afflusso di capitali esteri. Il progresso verso gli standard europei è divenuto evidente solo in seguito. La responsabilità principale di questo andamento iniziale insoddisfacente è tuttavia da attribuire al mix di struttura, istituzioni e politiche economiche nazionali e non all’ingresso nella CEE. Nel primo decennio, l’adesione all’Europa ha invece contribuito a modificare sia la realtà economica del paese, sia la percezione che di essa – e della sua collocazione internazionale – avevano le classi dirigenti. C’è stato, infatti, un momento di rottura, una crisi, che nel mezzo di questa vicenda ventennale ha mutato la coscienza economica dell’establishment spagnolo, anche perché l’adesione alla CEE (e poi all’Unione) ha progressivamente modellato nuovi percorsi di sviluppo e dunque nuove convenienze economiche. Diverso, come vedremo, il caso delle risorse comunitarie (in particolare dei Fondi strutturali), dove i vantaggi dell’adesione si sono palesati prima. Nel 1986 – con i socialisti di Felipe Gonzáles al governo – la Spagna è entrata nella Comunità europea e ha ratificato l’adesione alla NATO. Si è completato così un percorso avviato nel 1953 con la firma del Patto di Madrid con gli Stati Uniti, che collocava la Spagna nel blocco occidentale, e proseguito nel 1970 con gli accordi commerciali preferenziali con la CE e nel luglio 1977 con la domanda di adesione alla CE avanzata dal governo centrista di Adolfo Suárez all’indomani delle prime elezioni democratiche. Il rapporto tra commercio estero e Prodotto interno lordo, che aveva ristagnato nella seconda metà degli anni Settanta, è passato quindi dal 25% al 35% nel decennio 1986-96, durante l’era dei governi di Gonzáles. L’export verso la CE rappresentava il 64% del totale nel 1987, 20 punti percentuali in più del 1982; la stessa dinamica si riscontrava per le importazioni spagnole, sebbene su quote più basse a causa della dipendenza dai paesi produttori di petrolio. Aumentava nel contempo il deficit commerciale (un elemento che ricorrerà anche in seguito), compensato da un afflusso ingente di capitali dall’estero. Nel 1990 gli investimenti diretti esteri, di natura presumibilmente produttiva e non finanziaria, sfioravano il 3% del PIL spagnolo e nel 1989-92 costituivano in media l’8% del flusso mondiale.

Le peculiarità nazionali appaiono (e pesano) quando si osserva invece l’evoluzione della struttura economica spagnola. L’accesso al mercato interno non sembrava favorire l’industria manifatturiera: la Spagna non era diventata una “Cina della CE”, una fabbrica di beni tradizionali esportati nel resto d’Europa per via del basso costo del lavoro, destino che invece era già toccato all’Italia e che più tardi toccherà ai paesi dell’Est, ma si collocava a metà tra questi e le isole britanniche. In parte perché le multinazionali estere che investivano negli anni Ottanta erano quelle del settore automobilistico, elettronico, meccanico e delle telecomunicazioni (e qui l’analogia è con il caso irlandese), ma anche perché in Spagna si realizzava tra il 1985 e il 1996 un processo di concentrazione bancaria con pochi eguali nella storia, che si è concluso con l’emergere di due tra i più grandi istituti europei (il Santander e il Bilbao-Vizcaya). Nell’arco di un decennio l’economia spagnola ha subito un radicale processo di terziarizzazione: la quota del settore industriale nel PIL è scesa di 4 punti percentuali dal 1981 al 1991, ed è salita, di converso, quella dei servizi e dell’edilizia. L’industria rimasta si è modernizzata, soprattutto grazie agli investimenti diretti esteri, e il solo punto di forza tradizionale è rimasto il comparto agroalimentare. La terziarizzazione si è completata poi con lo sviluppo del settore turistico, che nell’era Gonzáles ha prodotto un surplus nei conti con l’estero in grado di compensare il deficit dell’interscambio di beni. Il fermento delle costruzioni (residenziali ma anche di infrastrutture) e la peseta debole dopo la crisi del 1992-93 hanno alimentato il dinamismo del settore turistico, anche se già alla fine degli anni Novanta il deficit commerciale si manifesterà nuovamente e non basteranno gli introiti turistici a bilanciarlo. Nel complesso, però, fino alla metà degli anni Novanta, non si è assistito a un avvicinamento del prodotto pro capite spagnolo alla media europea, ma solo ad una stabilizzazione del divario che si era approfondito subito dopo la transizione democratica. Il tasso di disoccupazione, inoltre, rimaneva elevato, nonostante la progressiva creazione di un mercato del lavoro secondario, quello dei contratti a tempo determinato, accanto a quello principale dell’impiego fisso (e più tutelato).

Il crinale del 1992-93

Una interpretazione parallela si può dare della seconda parte della “promessa europea”, quella relativa alla credibilità finanziaria e alla stabilizzazione macroeconomica. Difficile attribuire all’avvicinamento all’Europa la responsabilità delle performance insoddisfacenti che si sono ripetute fino al 1993. L’equilibrio politico-economico prevalso con il governo centrista e poi con quelli socialisti e le turbolenze internazionali (oscillazioni del dollaro, aumento del prezzo del greggio, crisi del debito estero e bancario), non hanno permesso al bonus di stabilità europea di concretizzarsi appieno. L’inflazione è scesa dai picchi vertiginosi della metà degli anni Settanta grazie ai Patti della Moncloa dell’ottobre 1977, che hanno visto governo e opposizione concordare su politiche monetarie e dei redditi restrittive: nel 1986 si è registrato un tasso di circa il 5%, e più o meno tale è rimasto fino alla fine del decennio, per poi scendere stabilmente sotto quella soglia nel decennio seguente. L’ingresso nella CEE è coinciso con un primo picco del tasso di disoccupazione (superiore al 20%): nonostante gli investimenti diretti esteri, l’economia tradizionale spagnola ha sofferto per la rimozione delle barriere alla concorrenza estera e le ristrutturazioni agricole, industriali e dei servizi hanno imposto prezzi elevati in termini di esuberi. I tassi di interesse reali (al netto cioè dell’inflazione) sono scesi anche grazie all’afflusso di capitali esteri, ma nel frattempo sono cresciuti la spesa e il debito pubblico. Le istituzioni nazionali hanno pesato in questo processo: per compensare le rigidità del mercato del lavoro a tempo indeterminato, dove non si assumeva perché gli oneri sociali erano elevati e licenziare era quasi impossibile, e a fronte di una disoccupazione doppia rispetto a quella dell’Unione, i governi socialisti hanno aumentato la spesa pubblica e sono scivolati pericolosamente verso l’irresponsabilità fiscale.

Alla fine degli anni Ottanta, la crescita globale trascinava l’economia spagnola, riducendo la disoccupazione e stabilizzando temporaneamente il rapporto tra spesa pubblica e PIL. Il secondo picco di disoccupazione seguiva però a breve, dopo la svalutazione della peseta del 1992-93, e la svolta fiscale che l’ha seguita. Il deficit dei conti con l’estero – una costante dell’economia spagnola degli ultimi venti anni – e la spesa pubblica galoppante (il 5% in più di dipendenti pubblici e il 10% di aumento delle retribuzioni tra il 1989 e il 1992) hanno condotto al collasso valutario. È allora che la classe politica spagnola ha realizzato appieno i rischi dell’irresponsabilità fiscale: Pedro Solbes, l’allora e attuale ministro delle Finanze, ha elaborato un piano di risanamento fondato su riduzioni di spesa (-3,6% rispetto al PIL nel 1994-95). Difficile immaginare che i socialisti, che avevano vinto le elezioni del 1993 con la percentuale di voti più bassa dal 1982 (38,8%), non fossero consapevoli del prezzo politico che avrebbero potuto pagare. La contrazione della spesa pubblica, associata al calo dei consumi privati, ha spinto la disoccupazione fino al 24% nel 1996, anno in cui il Partido Popular di Aznar ha conquistato il primato e il governo.

Se giudicate a posteriori, la crisi valutaria e la recessione della metà degli anni Novanta sono state provvidenziali. La disciplina fiscale è stata interiorizzata da tutta la classe politica, e non solo perché il Trattato di Maastricht imponeva criteri stringenti e la Spagna voleva entrare da subito nella moneta unica (come Aznar aveva ribadito a Prodi in un burrascoso vertice del settembre 1996). I dirigenti spagnoli si sono resi conto che i vantaggi di breve periodo della prodigalità fiscale erano incerti (la spesa può infatti gonfiare il deficit estero e non la produzione nazionale), ma soprattutto che il crescente debito estero toglieva in prospettiva gradi di flessibilità alle decisioni politiche e dunque al futuro del paese. Tanto si è affermata questa consapevolezza diffusa che nel dicembre 2001 il Parlamento ha varato la “Ley de Estabilidad Presupuestaria”, che imponeva e rendeva quasi costituzionale l’obbligo del pareggio di bilancio e, in ogni caso, la formulazione di un piano di rientro triennale in caso di disavanzo. La legge è stata approvata con il solo voto favorevole dei popolari e l’opposizione degli altri gruppi parlamentari che hanno obiettato che essa – imponendo limiti all’indebitamento delle Comunità autonome – violava l’autodeterminazione dei governi regionali. Nella sostanza, tuttavia, la “Ley de Estabilidad Presupuestaria” ha sancito un imperativo che la politica spagnola aveva già incorporato e che violare oggi sarebbe assai costoso in termini politici: nel giugno 2004, tornato al governo, Solbes annunciava che la legge sarebbe stata solo modificata mentre egli si sarebbe impegnato a convincere le Comunità autonome della sua bontà. Una sorte ben diversa da quella dell’articolo 81 della Costituzione italiana, che imporrebbe il pareggio fiscale ma che nella prassi viene eluso. C’è dunque un turning point, un crinale nella storia economica della Spagna contemporanea? La transizione democratica realizzatasi negli anni 1975-77, con la morte di Franco e le prime elezioni democratiche del dopoguerra, non sembra aver immediatamente apportato una grande discontinuità in campo economico. Nel 1986, anno dell’adesione alla Comunità europea, non si sono registrati mutamenti significativi, mentre il percorso di avvicinamento è stato progressivo, come nel caso di tutti gli altri paesi candidati. In un suo celebre saggio, significativamente intitolato, nella versione inglese, “Spain at the crossroads”, Vìctor Pérez-Díaz sembra indicare che – anche per la vicenda economica – un punto di svolta siano state le elezioni del marzo 1996. Da una parte, perché nel periodo 1975-95 il reddito pro capite spagnolo è cresciuto meno della media europea, dall’altra perché con il governo Aznar si è realizzato il passaggio dalla politica economica neokeynesiana dei socialisti a quella del “liberalismo con concertazione” dei popolari. L’autore riconosce inoltre che già Solbes aveva corretto la deriva dei conti pubblici nel 1993-96, ma ritiene poco efficace la sua azione a causa della debolezza dell’ultimo governo Gonzales.2

Chi scrive ritiene invece che il vero turning point della recente storia economica spagnola sia stata la crisi della peseta del 1992-93, che condusse a tre svalutazioni in pochi mesi. In primo luogo, la divergenza del reddito pro capite rispetto a quello dell’Unione si era arrestata già a partire dal 1986, e non nel 1995, dopo l’ampliamento del divario della Spagna dal resto dell’Europa verificatosi nel decennio successivo alla morte di Franco.3 Paradossalmente, poi, anche se non inspiegabilmente, al termine dell’anno del trionfo mondiale della nuova Spagna (nel 1992 le Olimpiadi si terranno a Barcellona e l’Expo universale a Siviglia) si sono palesati tutti i limiti del modello economico perseguito fino ad allora: deficit estero, alta disoccupazione e crisi fiscale. Il crollo della peseta ha condotto tutta la classe politica a riconsiderare in maniera critica la deriva fiscale, e da lì si sono dipanate nuove strategie economiche i cui frutti giungeranno solo anni dopo. Come spesso accade, l’euforia economica e sociale può mascherare pericolose fragilità, mentre dalle crisi possono (ma non debbono necessariamente) emergere nuovi percorsi e nuove convenienze per gli attori pubblici e privati. Dopo il 1993, la disciplina fiscale e il consolidamento dello sviluppo fondato sul terziario, sull’edilizia e sui consumi privati, hanno condotto il paese attraverso tre lustri di crescita, verso standard macroeconomici in linea con quelli europei. In tutto ciò, permane fino ai nostri giorni una costante problematica del modello spagnolo di sviluppo, ovvero il disavanzo dei conti con l’estero, che la nascita dell’euro obbliga a riconsiderare in una luce nuova. Prima di affrontare questo tema è però necessario soffermarsi sul terzo aspetto della “promessa europea”, quello dei fondi comunitari.

Del buon uso delle risorse comunitarie

Vi sono studi che hanno valutato criticamente l’impatto complessivo delle politiche strutturali europee, sostenendo, ad esempio, che queste distorcono la localizzazione delle attività produttive senza incidere in modo permanente sulla dotazione di fattori produttivi a livello regionale.4 Anche se i Fondi strutturali possono aver distorto alcuni incentivi economici, il loro effetto sul PIL spagnolo appare tuttavia rilevante. Le stime degli economisti spagnoli concordano nell’attribuire all’impiego dei fondi comunitari un impatto sul tasso di crescita del PIL spagnolo pari allo 0,4% annuo tra il 1989 e il 2006, mentre l’impatto sulla riduzione della disoccupazione sarebbe pari allo 0,2% annuo, ovvero circa 300 mila posti di lavoro nel periodo considerato.5 Senza i Fondi strutturali, il reddito pro capite spagnolo sarebbe più basso di circa il 6%, e questo senza considerare le risorse che la Politica agricola comune ha destinato alle aree rurali iberiche.

Nel complesso, la Spagna ha ricevuto dall’Unione europea circa 150 mi- liardi di euro in venti anni, tra politiche strutturali, agricole, di formazione e di coesione. Di questi, circa 40 miliardi sono stati convogliati sull’adeguamento delle infrastrutture, ed è qui che si sono ottenuti i risultati più brillanti. Dal 1986 al 2006, la rete autostradale è passata da 800 a 6.200 chilometri, con il 40% del finanziamento delle opere a valere sui fondi UE. La stessa percentuale di risorse comunitarie ha coperto gli investimenti nelle nuove tre linee ferroviarie ad alta velocità. Ma l’aspetto anche simbolicamente più rilevante è l’utilizzo dei Fondi di coesione, previsti dall’Unione per finanziare progetti su scala nazionale e non regionale: un esempio su tutti, la ferrovia ad alta velocità Madrid-Barcellona, costruita grazie a 3,5 miliardi di euro di contributo comunitario. Il Fondo di coesione venne creato negli anni Ottanta per sostenere non le singole regioni in ritardo di sviluppo, ma le economie nazionali più arretrate. Vi attinsero i paesi iberici, la Grecia e l’Irlanda. La vicenda è interessante perché con il Fondo di coesione si potevano finanziare progetti interregionali, e nonostante la forte spinta autonomistica delle Comunidad si riuscì a collegare materialmente (ma anche simbolicamente) le regioni spagnole. Vale la pena di ricordare che il governo italiano dell’epoca, guidato da Bettino Craxi, non spinse per l’accesso al Fondo di coesione, perché impegnato a sostenere – anche con revisioni statistiche del nostro PIL – la tesi del “sorpasso” italiano nei confronti del Regno Unito (solo i paesi sotto il 90% del reddito medio della Comunità europea potevano accedere al Fondo). Una vera nemesi, visto che allora “la nave andava” mentre ora siamo nel mezzo di polemiche, anche un po’ risibili, sul “sorpasso” spagnolo nei confronti dell’Italia.

Il “miracolo” e il prossimo futuro

Dal 1997 al 2001 il PIL della Spagna è cresciuto di più del 4%, e dal 2002 ad oggi di circa il 3%: uno o due punti sopra la media europea, il che spiega la convergenza del prodotto pro capite verso la media dell’Unione a 25 (rispetto all’Unione a 15 c’è ancora un divario di 8-10 punti percentuali). Il “miracolo” dell’era di José María Aznar e José Luis Rodríguez Zapatero – il secondo, perché il primo “miracolo” economico spagnolo è degli anni Sessanta, come ha argomentato Michele Salvati – è figlio delle trasformazioni intercorse nel decennio precedente e del crinale del 1992-93. La gran parte della crescita del reddito e dell’occupazione è da attribuire ai settori finanziario, dell’edilizia, del turismo, mentre i consumi privati hanno trainato la domanda più degli investimenti o dell’export. Il debito pubblico si è consolidato al di sotto della soglia del 60% del PIL, ma è cresciuto il debito privato, delle famiglie e, soprattutto, delle imprese. Il deficit delle partite correnti sfiora il 10% del PIL nelle previsioni per il 2008, assai elevato anche se si considera l’afflusso recente di immigrati (che necessitano di capitale per lavorare e che esportano parte dei loro redditi nei paesi d’origine). A differenza dell’inflazione italiana seguita all’introduzione dell’euro che ha compresso i consumi privati, l’inflazione da asset in Spagna (i prezzi delle abitazioni sono quasi triplicati dal 1997 ad oggi) ha stimolato i consumi, mentre gli investimenti esteri hanno finanziato il deficit. Le previsioni hanno oscillato tra il pessimismo di alcuni osservatori, che ritengono la Spagna il prossimo candidato alla recessione nell’area-euro,6 e l’ottimismo obbligato del governatore della Banca di Spagna, che confida in un rallentamento dei consumi interni e in un aumento dell’export che possano ricondurre la crescita su un sentiero più equilibrato.7 Molto dipenderà dalla congiuntura internazionale. La “promessa europea” si è in gran parte realizzata per l’economia spagnola e – fatte salve le nuove risorse comunitarie – i suoi effetti in termini di progressi e di nuovi (e vecchi) squilibri sono affidati alle politiche nazionali.

[1] Michele Salvati mi ha fornito preziose indicazioni su alcuni aspetti chiave della vicenda spagnola.

[2] V. Pérez-Díaz, La lezione spagnola, Il Mulino, Bologna 2003, p. 382.

[3] S. Manzocchi, M. Cavallo, L’economia spagnola da Franco ad oggi, Carocci editore, Roma 2005.

[4] K. Midelfart, H. Overman, Delocation and European Integration: Is Structural Spending Justified?, in “Economic Policy”, 35/2002, pp. 321-59.

[5] S. Sosvilla Rivero, J. Herce, European Cohesion Policy and the Spanish Economy: Macroeconomic Evaluation and Prospects for Convergence, FEDEA Working Paper 20/2004, Madrid 2004, disponibile su www.fedea.es.

[6] O. Blanchard, Portugal, Italy, Spain, and Germany: The Implications of a Suboptimal Currency Area, MIT paper, aprile 2006, disponibile su www.mit.edu/files/758.

[7] M. F. Ordóñez, Testimony of the Governor of the Banco de España to the Parliamentary Budget Committee, Madrid, 9 ottobre 2007, disponibile su www.bde.es/informes/be/boleco/2007oct/art2.pdf.