La riforma del bicameralismo: un nodo non più eludibile

Di Nicola Lupo Giovedì 08 Ottobre 2009 19:30 Stampa

La lacuna lasciata aperta, nel 2001, dalla riforma del Titolo V della Costituzione sull’adeguamento del Par­lamento alla riforma in senso federale va colmata al più presto. Il sistema delle Conferenze non è in gra­do di supplire all’assenza di una Camera delle auto­nomie e il bicameralismo perfetto appare incompa­tibile con una logica di tipo maggioritario. La cosid­detta bozza Violante, con qualche modifica, può costituire un buon punto di partenza.

 

 

La lacuna del Titolo V: i raccordi tra Stato e autonomie

La revisione del Titolo V della Parte seconda della Costituzione è nata con un limite, non piccolo ed esplicitamente dichiarato: quello di non essere riuscita a riformare il bicameralismo italiano per adeguarlo al nuovo assetto della forma di Stato, disegnata in senso più spiccatamente autonomistico. Lo riconosce l’ultima disposizione, collocata all’articolo 11 della legge costituzionale 3/01, quando preannuncia una «revisione delle norme del Titolo I della Parte seconda della Costituzione» (il titolo, appunto, relativo al Parlamento).

Tale limite deriva dal mancato accordo tra le forze politiche, all’interno della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali che operò nel corso della XIII Legislatura (in cui l’apposito comitato, denominato Parlamento e fonti normative, fu composto prevalentemente da senatori), sulla composizione e sulle funzioni della seconda Camera. Anche in seno agli stessi partiti che componevano l’allora maggioranza di centrosinistra, invero, non poche furono le divergenze su quale fosse l’assetto bicamerale da preferirsi. Infine, sul punto in questione non brillava, per ammissione degli stessi sostenitori, neppure il disegno di legge di riforma costituzionale approvato dalla maggioranza di centrodestra sul finire della legislatura successiva, ma poi respinto dal referendum popolare del 25- 26 giugno 2006: tant’è che anche coloro che avevano invitato a votare sì al referendum costituzionale riconoscevano che l’iter legislativo, come delineato in quel testo, era farraginoso e che il Senato, pur denominato federale, appariva «non pienamente rappresentativo delle Regioni e dotato di poteri decisionali che pregiudicherebbero la funzione di indirizzo del Governo».1 La gravità di tale limite è stata poi accentuata da almeno un paio di altri fattori. In primo luogo, dalla mancata previsione, nel nuovo Titolo V, di sedi e procedimenti di raccordo e di confronto tra Stato e autonomie territoriali, essendosi proceduto, anzi, all’eliminazione di quei pochi raccordi che erano delineati nel testo originario della Costituzione (si pensi al procedimento di rinvio delle leggi regionali, soppresso dalla riforma) e non essendosi riconosciuti nel testo costituzionale quelli che nel frattempo erano stati introdotti dal legislatore ordinario (il riferimento è, ovviamente, al sistema delle Conferenze). In secondo luogo, dalla mancata attuazione di molte delle previsioni contenute nel nuovo Titolo V della Costituzione, anzitutto di quelle rivolte alle stesse Camere,2 e, in particolare, del meccanismo che il legislatore costituzionale del 2001 aveva immaginato, appunto in attesa della riforma del bicameralismo, consistente nell’integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali con rappresentanti di regioni ed enti locali.3

Si può aggiungere, a quest’ultimo proposito, che la mancata attuazione dell’articolo 11 della legge costituzionale 3/01, lungi dall’essere dovuta all’insufficienza di tale meccanismo rispetto all’ipotesi di una Camera delle autonomie, sembra in realtà da attribuirsi – oltre che alle naturali resistenze all’innovazione, riscontrabili a livello sia parlamentare che governativo, e a qualche difficoltà, presto superata, circa le modalità di composizione della Commissione – alla notevole capacità di interdizione che un organo siffatto avrebbe potuto esercitare nel procedimento legislativo (per effetto della maggioranza assoluta, necessaria, ai sensi dell’articolo 11, comma 2, della legge costituzionale 3/01, per superare il parere contrario espresso da tale Commissione).

Lo dimostra anche la recente scelta – compiuta dalla legge di delega 42/09 (di attuazione dell’articolo 119 della Costituzione sul federalismo fiscale) – di non avvalersi di tale Commissione integrata al fine di esprimere al governo i pareri sugli schemi di decreti legislativi che saranno predisposti in attuazione di tale delega, e di istituire, in sua vece, un’ulteriore Commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale, nell’ambito della quale, al fine di operare un “raccordo” con le autonomie territoriali, opera un apposito comitato, composto da dodici membri nominati dalla componente rappresentativa di Regioni ed enti locali in Conferenza unificata (articolo 3 della legge 42/09).

 

La supplenza del sistema delle Conferenze: pregi e difetti

In un contesto di questo tipo non può sorprendere che il sistema delle Conferenze tra Stato e autonomie territoriali, ancorché relativamente “giovane” (l’istituzione della Conferenza Stato-Regioni nell’ambito della Presidenza del Consiglio dei ministri risale all’inizio degli anni Ottanta, mentre l’assetto attuale si ha a partire dal 1997), abbia costituito, in questi anni, l’unica sede di confronto e di negoziazione tra i diversi livelli territoriali nell’esercizio di tutte le principali funzioni statali, non solo amministrative, ma anche legislative, in evidente supplenza rispetto ad una Camera delle autonomie.4

I pregi del coinvolgimento del sistema delle Conferenze sono evidenti: consente di immettere nel processo decisionale le indicazioni di Regioni, Province e Comuni e, al tempo stesso, spinge ciascuno di questi livelli territoriali a individuare una posizione comune al loro interno, ricercando necessariamente un qualche compromesso tra le diverse aree del paese. Meno evidenti, forse, ma comunque non lievi, appaiono anche i difetti: il principale dei quali consiste nel fatto che, in tal modo, la negoziazione avviene in forme sostanzialmente occulte, e perciò senza alcuna responsabilizzazione dei singoli soggetti istituzionali. Questi, non a caso, possono poi piuttosto agevolmente “smarcarsi” rispetto agli impegni assunti in quella sede: ad esempio impugnando davanti alla Corte costituzionale una legge che pure ha avuto il parere favorevole della Conferenza.

L’accrescimento di peso del sistema delle Conferenze fin qui registratosi può considerarsi, al tempo stesso, effetto e causa del processo di rafforzamento degli esecutivi che, a tutti i livelli territoriali, si è verificato negli ultimi due decenni. È un effetto, nel senso che il sistema delle Conferenze acquista un significato pieno solo se vi partecipano vertici degli esecutivi in grado di incidere efficacemente sull’indirizzo politico-legislativo al loro rispettivo livello territoriale (come ac cade, a livello nazionale, a partire dagli anni Ottanta e, con maggior decisione, dal 1993, e, a livello locale e regionale, a partire rispettivamente dal 1993 e dal 1995). È una causa, nel senso che in tal modo gli esecutivi, già dotati di una forma di legittimazione popolare, finiscono, grazie al confronto negoziale di cui sono protagonisti assoluti, per rafforzarsi ulteriormente rispetto alle assemblee elettive esistenti a ciascun livello territoriale (un po’ come accade anche in ambito statale, a seguito dell’azione, nell’ordinamento comunitario, dei Consigli dei ministri dell’Unione europea).

 

La necessità di superare il bicameralismo paritario e perfetto

Alla luce di quanto si è appena osservato, si comprende come sia necessario, in conformità alle indicazioni autorevolmente fornite dal Presidente della Repubblica, porre al centro del dibattito istituzionale la questione della riforma del bicameralismo. È infatti indispensabile superare la «anomalia di un anacronistico bicameralismo perfetto», come «coronamento dell’evoluzione in senso federale, da tempo in atto (…) con la istituzione di una Camera delle autonomie in luogo del Senato tradizionale »: «ne scaturirebbe anche una razionalizzazione del processo legislativo, e con essa quel “legiferare meglio” che viene giustamente sempre più spesso, e finora invano, invocato».5 Si tratta, dunque, di uno snodo assolutamente essenziale e ineludibile sia nell’ottica di chi intenda intervenire nuovamente sugli equilibri della forma di Stato, sia di chi voglia intraprendere qualsiasi serio tentativo di rivedere la forma di governo e i rapporti reciproci tra Parlamento e governo.

Da un lato, è sempre più evidente che il rafforzamento del ruolo delle autonomie territoriali richiede una sede in cui queste siano chiamate a “fare sistema” e a confrontarsi, pubblicamente, sulle questioni di interesse nazionale. 6 Dall’altro, si va diffondendo la consapevolezza dell’inconciliabilità del nostro bicameralismo paritario e perfetto con sistemi elettorali ad esito maggioritario (quali possono ritenersi senza dubbio quello della Camera e, in qualche misura, anche quello del Senato): i difetti legati al bicameralismo paritario e perfetto, infatti, erano tollerabili nella vigenza di leggi elettorali proporzionali, che rendevano sostanzialmente irrilevanti le differenziazioni degli esiti elettorali tra le due Camere e, grazie all’azione di un forte sistema di partiti, finivano comunque per omogeneizzarne i comportamenti. Essi appaiono, invece, assai aggravati nell’assetto istituzionale attuale, sia per l’elevato rischio di differenziazione tra le maggioranze in essere nelle due Camere,7 sia perché le diversificazioni tra le istanze fatte proprie dai deputati e quelle avanzate dai senatori finiscono per risultare slegate da ogni concreto legame con il quadro partitico (e concorrono così a incoraggiare il ricorso, da parte del governo, a strumenti di drastica semplificazione dell’iter legislativo, quali la questione di fiducia su maxiemendamenti). In qualche misura, anche il dibattito, riavviatosi all’inizio della XVI Legislatura8 sulle riforme dei regolamenti parlamentari ben difficilmente potrà conseguire effetti di tipo sistemico in assenza di una coerente revisione del sistema bicamerale: tematiche quali i tempi garantiti per l’esame di alcuni disegni di legge del governo, la rivalutazione della funzione di controllo parlamentare, un nuovo assetto delle commissioni permanenti, così come quella – annosa – della configurazione di uno statuto dell’opposizione parlamentare, ben difficilmente possono essere sciolte, in forma definitiva o quanto meno durevole, nella persistenza di Camere dotate dei medesimi poteri (e, al tempo stesso, di regolamenti, al momento, non poco differenziati).

Si aggiunga a ciò, incidentalmente, che il ricorso ad una revisione costituzionale è inevitabile ove – come pressoché tutte le forze politiche dichiarano di voler fare – si intenda ridurre in misura significativa il numero dei parlamentari e magari, con l’occasione, eliminare quell’autentico nonsense istituzionale che è la limitazione dell’elettorato attivo per il Senato ai soli cittadini che hanno compiuto il venticinquesimo anno di età (con una differenziazione di ben sette anni tra gli elettori dei due rami del Parlamento, priva di ogni corrispondenza nelle democrazie contemporanee).

 

Ripartire dalla bozza Violante, ma in fretta

Con ogni probabilità, il punto di partenza per affrontare la riforma del bicameralismo può essere rappresentato dalla bozza Violante, da più parti giudicata il miglior tentativo di riforma del bicameralismo fin qui definito in un testo approvato in sede parlamentare.9 Meritano, secondo chi scrive, di essere confermate, infatti, due scelte di fondo che tale testo opera con chiarezza: lo sganciamento del Senato federale dal circuito fiduciario e la sua elezione indiretta, ad opera dei Consigli regionali e dei Consigli delle autonomie locali.

Rispetto alla bozza Violante sembrano però suscettibili di un’ulteriore riflessione almeno due ordini di questioni: 10 da un lato, la scelta di appoggiare le competenze legislative del Senato federale agli elenchi materiali di cui all’articolo 117 della Costituzione (che produrrebbe l’effetto, nefasto, di trasferire sul procedimento legislativo tutte le incertezze che caratterizzano il riparto della funzione legislativa tra Stato e Regioni), essendo preferibile rendere sempre eventuale e a richiesta la partecipazione di questo ramo del Parlamento nel procedimento legislativo (con la sola eccezione delle leggi costituzionali, chiaramente differenziate anche sul piano formale dalle leggi ordinarie); dall’altro, l’opzione di negare ogni coinvolgimento nel Senato federale (anche) dei vertici delle Regioni (nonché forse dei sindaci delle città metropolitane).

Infine, dalle considerazioni suddette sembra discendere un’osservazione sulla tempistica della riforma del bicameralismo. Se è vero che – come si ripete ormai stancamente – è difficile far accettare la riforma dall’assetto bicamerale ai parlamentari attuali (da cui la comprensibile tendenza a differire l’entrata in vigore dei principali progetti di riforma almeno alla legislatura successiva), è altrettanto innegabile che l’esigenza di un organo siffatto si fa, nel nostro sistema istituzionale, sempre più indifferibile. In caso contrario, il “sistema Italia” ne continuerà a pagare il prezzo, dovendo fare i conti con un quadro istituzionale per molti versi lacunoso e squilibrato.

 


[1] Così l’appello dell’8 giugno 2006 di alcuni costituzionalisti e studiosi vicini alla Fondazione Magna Carta.

[2] Cfr. T. Groppi, Il Titolo V, cinque anni dopo: ovvero, la Costituzione di carta, in “Le regioni”, 3-4/2007, pp. 421 e sgg.

[3] Cfr., con posizioni contrapposte, V. Lippolis, Le ragioni che sconsigliano di attuare l’articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, in “Rassegna parlamentare”, 1/2007, pp. 61-70, N. Lupo, Sulla necessità costituzionale di integrare la Commissione parlamentare per le questioni regionali, in “Rassegna parlamentare”, 2/2007, pp. 357-77.

[4] Per un quadro dell’azione delle Conferenze si veda G. Carpani, La Conferenza Stato-Regioni. Competenze e modalità di funzionamento dall’istituzione ad oggi, Il Mulino, Bologna 2007. Per alcuni aggiornamenti: G. Busia, Verso la riforma delle Conferenze, in “i Quaderni di Italianieuropei”, 1/2009, pp. 116-26. Nella logica dell’alternativa tra sistema delle Conferenze e Camera delle Regioni si muove I. Ruggiu, Contro la Camera delle Regioni. Istituzioni e prassi della rappresentanza territoriale, Jovene, Napoli 2006.

[5] Le espressioni citate sono tratte dalla lezione del presidente Napolitano in occasione della prima edizione di “Biennale Democrazia”, tenutasi a Torino il 22 aprile 2009, disponibile su www.quirinale.it.

[6] Cfr. A. Manzella, Questo Senato è da cambiare, in “la Repubblica”, 24 maggio 2007.

[7] Cfr. C. Fusaro, La lunga ricerca di un bicameralismo che abbia senso, Paper del Forum di Quaderni Costituzionali, 6 febbraio 2008, disponibile su www.forumcostituzionale.it.

[8] Cfr. Lupo, Qualche indicazione per una riforma dei regolamenti parlamentari, in F. Bassanini, R. Gualtieri (a cura di), Per una moderna democrazia europea. L’Italia e la sfida delle riforme istituzionali, Passigli Editori, Firenze 2009, pp. 159 e sgg. e, per un esame dei diversi progetti presentati, E. Gianfrancesco, N. Lupo (a cura di), La riforma dei regolamenti parlamentari al banco di prova della XVI Legislatura, Luiss University Press, Roma 2009.

[9] Il riferimento è a A.C., XV Legislatura, n. 533 e abb-A. Per la sua valutazione positiva cfr. A. D’Atena, Finalmente un Senato “federale”, intervento al seminario di Astrid “Il disegno di legge di riforma costituzionale approvato dalla Commissione Affari costituzionali della Camera”, Roma, 18 ottobre 2007 (in www.astrid-online.it), P. Caretti, Bicameralismo e autonomie: un’altra ipotesi all’esame del Parlamento, in “Le regioni”, 5/2007, pp. 657 e sgg. e Fusaro, La lunga ricerca di un bicameralismo, op. cit., pp. 18 e sgg. Tale testo è giudicato un buon punto di partenza anche da C. Tucciarelli, Last but not least: la riforma del sistema bicamerale, in “Percorsi costituzionali”, 1/2009, pp. 201 e sgg.

[10] Le segnalano, rispettivamente, U. De Siervo e A. Manzella nei loro interventi al già ricordato seminario di Astrid del 18 ottobre 2007.