Il futuro prossimo del sistema televisivo, tra internet e digitalizzazione

Di Marco Manuele Paolini Mercoledì 10 Febbraio 2010 14:22 Stampa
Il sistema televisivo è interessato da grandi trasformazioni, economiche e non soltanto, che hanno modificato e sempre più modificheranno le modalità di fruizione del prodotto televisivo. In questo processo un ruolo di rilievo è giocato da internet e dalla digitalizzazione; la combinazione di questi due fattori sarà responsabile nel mediolungo periodo della metamorfosi dell’essere editore e delle modalità di produzione. Se è forse eccessivo parlare di morte della TV così come la conosciamo, certo è che essa non può più essere considerata “il” medium, ma uno dei media, ancora universale ma non più l’unico.

Il sistema televisivo ha sempre avuto una doppia anima; da un lato, costituisce una vera e propria industria, dall’altro, è parte, e non secondaria, dell’insieme di mezzi e attività che contribuiscono alla formazione della coscienza civile di questo paese. Il peso e la relazione di queste due anime sono andati costantemente modificandosi negli anni, seguendo l’evoluzione che ha caratterizzato tale sistema.

È utile fornire qualche dato sull’evoluzione industriale del sistema che, a differenza dell’altro aspetto, quello di protagonista nella “formazione della coscienza”, ha il pregio di essere quantomeno misurabile.

Nel 2009, tra raccolta pubblicitaria (3,5 miliardi di euro), ricavi diretti dalle famiglie – ovvero abbonamenti pay TV e spesa per la pay per view (3,3 miliardi di euro) – e il canone RAI (1,6 miliardi di euro), si stima un valore complessivo del mercato televisivo di circa 8,4 miliardi di euro. Per il 2012 la previsione per il totale è di 10 miliardi di euro, più o meno così ripartiti: pubblicità 38%, spesa delle famiglie per le diverse forme di pay 45%, canone 17%. Nel 2004 il valore complessivo del mercato ammontava a 6,4 miliardi di euro (pubblicità 3,7 miliardi; canone 1,5 miliardi; pay 1,2 miliardi)

In poco meno di dieci anni si registrerà dunque una crescita del 56%, con una importante redistribuzione del peso delle diverse componenti.

Non solo. Si è passati da un sostanziale duopolio a una situazione in cui vi sono tre gruppi editoriali di peso equivalente, che comunque non assorbono il 100% delle risorse.

Ciò che si chiedeva a un sistema con poche televisioni e pochi editori è oggi evidentemente superato. Inoltre, ma non è il caso di approfondire il tema in questa sede, questi incrementi e redistribuzioni rispecchiano anche la crescita degli investimenti nella produzione italiana (intrattenimento, fiction, news), nelle coproduzioni internazionali e nell’acquisizione dei diritti dei prodotti esteri; essi hanno quindi determinato la nascita e la crescita di tutto l’indotto di cui gli editori televisivi hanno bisogno per estendere l’offerta (basti pensare alle cifre che RAI e Mediaset investono nel cinema e nella fiction italiana).

Dietro le variazioni dei valori economici del mercato vi sono ovviamente le modifiche intervenute nel consumo e nell’approccio al mezzo TV da parte del pubblico.

E questo introduce il discorso più interessante: non cosa è oggi la televisione (o cosa è stata), bensì cosa sarà tra qualche anno.

Passare da 2,5 milioni di famiglie abbonate alla pay TV nel 2000 a quasi 10 milioni nel 2012 determina, oltre che un impatto economico, anche un effetto sulla stessa domanda di prodotto televisivo a cui i diversi editori devono rispondere; in altre parole comporta un ripensamento radicale della stessa offerta TV.

Ancora, riferendosi alla differenza tra 2000 e 2012, ad esempio, anche un individuo che non possieda alcuna forma di pay TV si troverà a scegliere non tra sole sette reti nazionali (più le emittenti locali) ma tra quasi trenta canali (più, di nuovo, le emittenti locali). Per non parlare dell’eventuale abbonato alle pay TV che potrà scegliere tra molte decine di canali (e tra diverse offerte commerciali). Si può calcolare che a switch-off completo saranno potenzialmente disponibili tra i sei e gli otto multiplex, ovvero circa 40-60 canali in standard definition, con copertura nazionale.

Questa nuova situazione, tra l’altro, rende preistorici alcuni dei capisaldi del dibattito politico più o meno recente sulla televisione: la questione della scarsità delle frequenze, del numero di canali, del duopolio più o meno perfetto.

Lentamente la struttura industriale, sia degli editori sia dei loro fornitori, dovrà modificarsi: dovrà prevedere più ore di produzione, per tutte le tipologie di prodotto, ma a costi inferiori non soltanto di qualche punto percentuale, soprattutto per alimentare le reti che non hanno o non avranno l’obiettivo della grande audience.

Ma anche i canali che manterranno un profilo generalista (ovvero diretti al grande pubblico e caratterizzati da un mix di prodotti), in un contesto dove gli ascolti saranno per definizione frammentati e quindi il “grande ascolto” sarà comunque inferiore a quello che oggi si intende con tale espressione, dovranno rivedere dove e quanto investire per mantenere l’equilibrio economico e/o la redditività.

Si richiede, insomma, il salto da un prodotto artigianale a uno industriale. E questo implicherà ripensare i processi produttivi, le figure professionali, l’impianto di certi programmi ancora stile varietà anni Sessanta ecc.

Si dovrà affrontare la più grande discontinuità che il sistema televisivo abbia conosciuto dalla sua nascita: vale a dire il passaggio dalla TV di flusso, lineare, a quella discontinua, non lineare. Un esempio per tutti: non si sarà più costretti a scegliere il telegiornale da guardare all’ora in cui viene trasmesso, ma si potrà rivedere, quando lo si vorrà, qualsiasi telegiornale. Verranno quindi azzerate le barriere di orario (non è detto che si sia a casa quando viene trasmesso quel TG) e di rete (due telegiornali saranno trasmessi contemporaneamente). Certo, in questo passaggio è determinante che lo spettatore si trasformi da passivo in attivo.

In definitiva si avrà, in parte già si ha, una segmentazione naturale del pubblico in base alle offerte a cui questo può accedere (free TV, pay TV, servizi non lineari) e alla sua “attitudine attiva o passiva” all’utilizzo del mezzo (che non riguarda solo l’esempio della fruizione non lineare dei contenuti, ma anche della volontà di andare più in là del settimo tasto del telecomando).

Dato questo livello di complessità, ha poco senso parlare di mercato televisivo in modo generico.

Esistono canali che si finanziano attraverso i mezzi più diversi: con la sola pubblicità, con canone pubblico e pubblicità, con pubblicità e abbonamento, e si è visto che questa pluralità di modelli tenderà ad aumentare. Così come aumenterà il numero degli editori che perseguiranno contemporaneamente modelli di business differenti.

Saper leggere questa complessità non è semplice, ma è compito della politica farsi carico di questa incombenza sia sul versante del pubblico sia su quello economico; è certo che la visione di un sistema televisivo come un unicum senza soluzione di continuità e di un pubblico indistinto che ne fruisce non ha più senso. Si parla molto di digital divide ma in futuro si dovrà parlare anche di TV divide.

Fino a questo punto si sono affrontate alcune problematiche – dalle modalità di finanziamento, a quelle produttive, alla necessità di avere un’offerta indirizzata a tutti – e lo si è fatto come se quello televisivo fosse un sistema chiuso. Lo scenario, comunque complesso, descritto sinora potrebbe benissimo adattarsi a un mondo analogico, senza contatti diretti con altri sistemi.

Non sarà sfuggito, però, al lettore, che non sono ancora state nominate due parole “magiche”: internet e digitalizzazione.

Internet, se visto come strumento di distribuzione, consente di poter inviare e ricevere file. Digitalizzare significa “ridurre” il prodotto televisivo a un file. È una “riduzione”, però, che avrebbe fatto felice il cappellaio matto di Lewis Carroll. Un file infatti si può trasferire, editare (ovvero modificare, ridurre ecc.), scaricare (sia legalmente sia illegalmente), linkare, taggare (per poterlo ritrovare con un motore di ricerca), renderlo disponibile a chi si vuole nel momento che si vuole.

Tutto il prodotto televisivo diventa, così, niente altro che un enorme archivio digitale. Archivio che a sua volta potrà essere alimentato con file non prodotti direttamente dall’editore che lo origina (il quale potrà però selezionare quali inserire e quali no).

La combinazione internet/riduzione sarà nel medio-lungo periodo l’aspetto responsabile della trasformazione radicale dell’essere editore e delle modalità di produzione.

Perché per l’editore televisivo il problema (o l’opportunità) rappresentato da internet non è certo come fare il proprio sito, bensì come vivere in questo nuovo ecosistema.

L’editore, ad esempio, non sarà più soltanto l’organizzatore del flusso di questi file, ovvero il compilatore del palinsesto così come oggi lo vediamo, perché la TV di flusso non sarà che una particolare maniera di aggregare file, ma sarà soprattutto colui che deciderà tempi e modalità della messa a disposizione del prodotto (non solo il proprio) per gli usi più differenti da parte degli utenti.

Queste nuove modalità frammenteranno ovviamente ancora di più la fruizione tradizionale e faranno nascere nuovi segmenti di pubblico.

È qui che si sviluppa la vera competizione tra la televisione tradizionale e i cosiddetti nuovi media per la conquista del tempo delle persone; è vera competizione perché condotta con gli stessi oggetti audio-visuali. Ed è una competizione in cui nuovi soggetti si proporranno come aggregatori-distributori di materiale audiovisivo: dalle compagnie telefoniche, ai produttori di software, ai “facilitatori” (tipo Google) di uso della rete.

Per semplificare un po’ le cose a questi “nuovi utenti televisivi” (ma ovviamente per complicarle agli operatori e ai regolatori) anche il televisore sta trasformandosi, collegandosi direttamente alla rete ed entrando in competizione con il PC come dispositivo principale per la fruizione dei prodotti audio-video.

Oltre alla ridefinizione, come già detto, del ruolo dell’editore, tutto ciò comporterà anche una seria regolamentazione del diritto d’autore, che, come le restanti norme sul settore, non potrà limitarsi a fotografare e disciplinare una situazione stabile ma dovrà invece fare propria la stessa flessibilità del mercato.

Ci si trova di fronte, dunque, alla morte della televisione come conosciuta fino ad oggi? In parte sì, in parte no. Alcuni contenuti, soprattutto quelli originali e live, non saranno espropriabili. E continueranno a costituire il filo che tiene unite persone altrimenti isolate nel mare magnum della frammentazione o che addirittura ne sarebbero respinte. Certo è che la televisione vecchio stile, soprattutto per quella generazione definita come “nativa” del mondo digitale, non è più “il” medium, ma uno dei media, ancora universale ma non più l’unico.