Un'Europa cristiana?

Di Redazione Mercoledì 30 Giugno 2010 19:24 Stampa
L'errore di chi crede che l’esperienza religiosa sia un fatto residuale nella modernità comporta spesso, in chi lo ha commesso, l’idea sbagliata che le religioni contino per ciò che fanno (di progressista o di conservatore) e non per ciò che sono. In questo l’Italia patisce la mancanza di una teologia universitaria, cancellata dai curricula da un clericalismo che voleva che tutta la formazione dei preti si svolgesse in seminario e dall’anticlericalismo di chi intendeva escludere quella disciplina dalle materie di insegnamento degli atenei.
L'errore di chi crede che l’esperienza religiosa sia un fatto residuale nella modernità comporta spesso, in chi lo ha commesso, l’idea sbagliata che le religioni contino per ciò che fanno (di progressista o di conservatore) e non per ciò che sono. In questo l’Italia patisce la mancanza di una teologia universitaria, cancellata dai curricula da un clericalismo che voleva che tutta la formazione dei preti si svolgesse in seminario e dall’anticlericalismo di chi intendeva escludere quella disciplina dalle materie di insegnamento degli atenei. Per capire quanto alto sia stato il prezzo di quella scelta basta rileggere il dialogo del 2004 fra Jürgen Habermas e papa Ratzinger. L’assenza di questo tipo di sensibilità – che non riguarda solo l’Italia – ha avuto un ruolo importante nel fallimento nella costruzione di una costituzione europea: il papato domandava una menzione delle radici cristiane, alle quali si è risposto con un rifiuto ideologico, senza chiedersi – come avvenne in sede di Assemblea costituente della Repubblica italiana in merito all’articolo 7 – se non fosse più opportuno individuare una mediazione per garantire a istituzioni fragili un sostegno ideale e morale in grado di dare loro una maggiore solidità. Il dialogo fra istituzioni e fedi, fra politica e Chiese, deve quindi fare i conti con un grande analfabetismo, con una diffusa incapacità di comprendere la specificità dei “linguaggi” teologico-religiosi che talvolta spinge la politica a cercare il retroscena di posizioni che sono perfettamente allineate a tradizioni dottrinali lunghissime, e le Chiese a illudersi di poter agire come un sindacato valoriale, anche a costo di delegittimare le stesse istituzioni democratiche. L’elezione di Benedetto XVI al soglio pontificio ha costituito per l’Italia una sfida al fondo incompresa: il papa non è solo un teologo. È un teologo con una posizione precisa e articolata secondo la quale l’ellenizzazione della fede ha originato un «diritto perpetuo e inalienabile» di quella cultura nella dottrina. Da qui una valorizzazione della ragione intesa in un senso del tutto peculiare: come qualcosa che, anche in presenza della semplice ammissione della possibilità di Dio, è in grado di produrre orientamenti politici laici e virtuosi. La proposta del papa nella società pluralista che l’Europa è e sarà, è dunque chiara: valorizzare questo elemento di razionalità aperta come carattere costitutivo di una cultura europea nella quale altre fedi e appartenenze possano inserirsi, ma che non sia a disposizione di una relativizzazione radicale – avvenga essa ad opera di altre fedi ora minoritarie o di culture areligiose. Quale sia la proposta della politica è più difficile dirlo: a volte desiderosa di avere un precettore che le fornisca valori che sembra incapace di trovare da sé; a volte infastidita da prese di posizione ritenute incompatibili con i valori fondanti dei sistemi costituzionali nei quali opera e che considera ingerenze mentre sono invece lecite opinioni da valutare democraticamente. Deve essere chiaro che nel rapporto fra fedi e società appaiono persuasive solo due posizioni: in primo luogo l’esigenza ecclesiastica di enunciare e annunciare il proprio magistero, di prendere posizione in via diretta e mediata su tutti i temi della vita individuale e comunitaria, e di far sentire la sua voce in quello che il gergo europeo chiama il “dialogo strutturato”; in secondo luogo l’esigenza delle società democratiche di vagliare ogni richiesta – anche le richieste ecclesiastiche – con gli strumenti parlamentari della persuasione e della rappresentanza. È errato ritenere che, in assenza di un solido patrimonio valoriale, la politica debba chiamare le fedi a riempire il proprio vuoto di contenuti; contenuti che possano essere inclusivi o esclusivi e possano essere assunti così come sono. Le fedi sono grandi depositi di sapienza e di disinteresse in grado di diagnosticare quel vuoto, che possono concorrere a colmare solo se accettano di partecipare a quella che è la vocazione stessa della comunità politica: includere e rendere eguali gli inclusi. Partecipando di questo contesto la Chiesa ha appreso cose che ignorava (ad esempio la dignità eguale della donna, i diritti umani, la libertà di stampa). Ascoltando le posizioni ecclesiastiche anche la politica ha capito che la cultura dei diritti non poteva essere esclusivamente radicale, autofondata e unilaterale, ma che doveva essere fondata sulla “coscienza del limite”. Ed è il caso di sottolineare il contributo dato dalla dottrina sociale cattolica all’elaborazione di tale concetto. L’Italia, in questo campo, ha un compito speciale. La coabitazione col papato non è solo fonte di problemi che i cugini d’oltralpe, ad esempio, non hanno; è anche una chiave determinante di una politica internazionale che altrimenti terrebbe volentieri Roma fuori dai propri circuiti. Per non dire del valore che ha aggiunto storicamente, ai fini del sentire comune degli italiani, la presenza a Roma del governo mondiale della Chiesa cattolica. In altre parole, per l’elaborazione, nel tempo, dell’identità nazionale. Valorizzare il talento è uno degli obiettivi della nuova stagione della politica, e l’attuale sistema bipolare rende la “minoranza” cattolica potenzialmente decisiva nel caratterizzare il quadro generale delle culture politiche del paese.