Le religioni nella sfera pubblica in società con un debole pluralismo religioso

Di Nadia Urbinati Mercoledì 30 Giugno 2010 19:29 Stampa
L’affermazione delle teorie democratiche post secolari ha favorito la riabilitazione delle religioni nella sfera pubblica, riconoscendo loro anche una funzione di consolidamento dei valori etici che le società democratiche occidentali non sembrano in grado di coltivare da sole. Questa connota­zione positiva del ruolo pubblico della religione è valida pe­rò a condizione che la società in cui essa opera goda di un effettivo pluralismo religioso. Cosa accade, invece, nel ca­so di società, come quella italiana, nelle quali vi è un de bole pluralismo religioso?

 Ci si limiterà in questa sede a sollevare un problema, a richiamare l’attenzione sul contesto (storico e politico) come fattore essenziale nel valutare la democrazia post secolare. La teoria democratica ha recentemente, grazie principalmente a Jürgen Habermas, fatto passi importanti verso la riabilitazione delle religioni nella sfera pubblica, oltrepassando definitivamente i limiti imposti dalla concezione liberale classica ma correggendo anche il pensiero democratico classico, che dava comunque preminenza all’identità pubblica su quella privata. Le religioni, secondo la revisione habermasiana delle teorie politiche classiche, non solo possono prendere parte al dialogo pubblico, ma è positivo e auspicabile che lo facciano. Una posizione, questa, che rappresenta un superamento assai evidente dello Stato liberale classico, ma non è neppure completamente conforme a quello costituzionale democratico. Mentre, infatti, nel caso dello Stato liberale classico, la privatizzazione della religione faceva della sfera pubblica il luogo esclusivo del sovrano civile, nelle democrazie costituzionali ai cittadini religiosi era riconosciuta la libertà di partecipare, benché sempre cercando di tradurre gli argomenti sviluppati dall’interno della loro appartenenza religiosa in argomenti pubblici, ovvero fatti in accordo con i diritti civili fondamentali.[1] In sostanza, la società liberale classica picchettava i confini tra sfera religiosa e sfera pubblica, quella democratica consentiva il trapassamento ma soltanto ai cittadini ordinari (pur cercando di infondere loro il dovere civile di buona cittadinanza): per i giudici, i rappresentanti e i funzionari dello Stato valevano sempre le regole del rigido picchettamento.
L’idea guida della democrazia post secolare è che anche questo picchettamento sia in qualche modo obsoleto se correlato a quell’esorbitante “obbligo morale” richiesto ai cittadini ordinari (anche perché si tratta di un obbligo che grava fatalmente più su chi è religioso che su chi non lo è e quindi violerebbe la regola della reciprocità). Infatti, questo l’argomento habermasiano, nelle società democratiche occidentali le religioni hanno non soltanto accettato le regole del gioco democratico e le costituzioni, ma svolgono anche una funzione di consolidamento dei valori etici dei quali queste società hanno bisogno e che, sembra, non siano da sole capaci di coltivare. In sostanza, le religioni servono alla democrazia perché svolgono il lavoro etico, e la democrazia serve alle religioni perché dà loro libertà di operare nel pubblico.
A questa visione può però essere mossa una critica molto semplice: essa funziona a condizione che la società in questione goda di un effettivo pluralismo religioso – pluralismo non solo enunciato nella Costituzione e nelle norme, ma anche effettivo nella società. Diversamente, la presenza della religione nella sfera pubblica può essere un problema per la conservazione della eguale libertà. Ciò non significa che in società come quella italiana, nelle quali non c’è effettivo pluralismo religioso, non si debba consentire alla religione di svolgere il suo lavoro pubblico di critica o suggerimento, di partecipare cioè alla costruzione dell’opinione pubblica. Significa, molto più umilmente, che si dovrebbe essere coscienti dei problemi che ci stanno di fronte, problemi che la società democratica rende più, non meno gravi proprio per la sua disposizione ad essere aperta e accogliente. Per paesi mono-religiosi come il nostro (lo definiamo mono-religioso anche se vi sono al suo interno altre presenze religiose oltre a quella cattolica; si tratta, però, di un pluralismo non equipollente) la questione della eguale libertà – cioè di leggi che rispettino tutti indistintamente ed egualmente – è un problema forse più gravoso che in società nelle quali il pluralismo religioso è un fatto non solo giuridico ma anche etico e sociale. La teoria democratica post secolare è completamente muta di fronte a questo problema perché di fatto procede alla generalizzazione di esperienze che sono proprie di società protestanti e pluraliste.
Partiamo da un caso concreto. Lo scorso anno, nel corso del dibattito sui temi relativi alla regolamentazione del diritto di procreazione, il presidente della Camera Gianfranco Fini ricordò ai deputati e ai cittadini che «Il Parlamento deve fare leggi non orientate da precetti di tipo religioso». Immediata fu la risposta di monsignor Elio Sgreccia, presidente emerito della Pontificia accademia della vita: «Non si tratta di precetti religiosi ma di argomenti basati sulla ragione e il diritto: il fatto che vengano portanti avanti dal clero o da organismi cattolici non deve consentire a nessuno di considerarli come prodotto di una razionalità minore». Come questo scambio di opinioni dimostra, il Parlamento italiano e la Chiesa cattolica romana sono impegnati in un confronto politico che alla base è radicale perché pertiene alla sovranità. Contrariamente alle antiche polemiche tra Stato e Chiesa, nella democrazia costituzionale il conflitto sul controllo dell’autorità civile è condotto con stile deliberativo, attraverso cioè il metodo del ragionamento e il linguaggio dei diritti. Questa nuova forma di confronto ha aperto la sfera pubblica alla presenza dei cittadini religiosi in un modo che è nuovo e che apre nuove sfide alla laicità – dove per laicità è da intendersi una concezione della giustizia (della legge) che si auto-limita di fronte a concezioni filosofiche o religiose per essere egualmente rispettosa di tutte le concezioni delle quali i cittadini possono essere portatori.
Vediamo quindi di comprendere la laicità. La laicità è un atteggiamento di problematicità, non di dogmatismo. Presume la tensione tra sfere di vita – quella religiosa e quella politica, per esempio; anzi, costruisce l’ambiente pubblico all’interno del quale quella tensione può essere articolata e provvisoriamente risolta (provvisoriamente, perché la provvisorietà è la condizione temporale delle decisioni democratiche). Laicità significa, pertanto, la liberazione dello Stato o della legge civile dall’abbraccio con la legge religiosa e le Chiese. Dal divorzio tra sovranità sulle anime e sovranità sui corpi è disceso sia il potere limitato dello Stato, sia la separazione tra ciò che è giusto (legge) e ciò che è buono (precetti della fede o di una dottrina). In sostanza, questo divorzio ha comportato in primo luogo la rinuncia dello Stato a esprimere le proprie preferenze per una religione o contro un’altra o molte altre; e la rinuncia delle Chiese costituite a ogni prerogativa sul controllo della legge civile.
La separazione della legge civile da quella religiosa (in Europa si trattò essenzialmente di separazione tra legge civile e legge canonica) fu un processo tormentato che raggiunse il suo culmine con il riconoscimento da parte delle costituzioni degli Stati che la fondazione di legittimità della legge civile è immanente (il consenso di cittadini liberi ed eguali) e non trascendente (la volontà divina).
Il Diciottesimo secolo e le Rivoluzioni americana e francese rappresentano il punto di arrivo di questo processo di liberalizzazione che era cominciato dopo la Riforma protestante, cioè con la fine della Europae Concordia Christiana. Cerchiamo di comprendere questo punto attraverso alcuni riferimenti storici.
In un articolo molto importante pubblicato nel 1966 sulla storia dell’idea di “libertà di coscienza”, Joseph Lecler mostrò che questa libertà, intesa come libertà della singola persona e non come libertà del cristiano, avanzò insieme al riconoscimento del pluralismo religioso.[2] Detto in breve, la formula cuius regio, eius religio fu il risultato (benché non la formulazione esplicita) della Pace di Augusta del 1555 e fece la sua comparsa nell’Europa protestante prima che in quella cattolica. Il risultato pratico di quella formula era duplice: la fine dell’unità religiosa e di quella imperiale e l’inizio del pluralismo degli Stati sovrani. Il suo significato fu che un monarca che esprimeva la sua preferenza religiosa non poteva essere indotto a cambiare idea da un altro sovrano. Circa i sudditi – benché in teoria la formula non dicesse nulla contro la loro libertà di coscienza – la loro libertà di fatto cessava se la loro fede non coincideva con quella dei loro sovrani. La rottura della Concordia a livello imperiale non si tradusse nella fine della Concordia ma nel suo trasferimento nel principio dell’eguale sovranità e nell’identificazione del sovrano con il monarca e poi di questo con il territorio e i sudditi a lui soggetti (la Concordia come unità trasmigrò dall’impero allo Stato). L’esito immediato fu la monarchia assoluta; quello futuro sarebbe stato lo Stato costituzionale.
Questo processo di ricollocazione della Concordia implicò in primo luogo che la libertà di coscienza fosse goduta prima dai sovrani e che la sua affermazione cominciasse come affermazione della sovranità dello Stato; e in secondo luogo che la libertà di coscienza divenisse un principio di libertà individuale, e quindi anche di libertà religiosa, quando i soggetti rivendicarono la loro libertà non soltanto contro una Chiesa o contro il papa, ma anche contro il loro sovrano, per avere cioè la libertà di credere nel loro Dio. In questo senso è corretto legare la storia della libertà di religione e della secolarizzazione della norma civile alla storia della democratizzazione e della trasformazione costituzionale degli Stati moderni europei.[3]
Circa il carattere dello Stato moderno come stato laico, ciò che Max Weber chiamò privatizzazione della religione non implicava semplicisticamente che la religione fosse confinata nel cuore del credente senza poter avere visibilità sociale o esterna, o che la libertà di religione e di coscienza imponesse la segretezza della fede e la sua invisibilità. C’è da dubitare che questo possa essere possibile perché la religione si compone non solo di precetti per il credente o di dogmi di fede, ma anche di pratiche e riti.[4] Ma secolarizzazione non significa nemmeno che i codici civili e quelli religiosi cessino di interagire nel momento in cui i primi diventano autonomi dai secondi (secondo Harold Berman secolarizzazione significa che la loro relazione, dall’essere una relazione di subordinazione, è diventata una relazione di “separazione” e “competizione” e in questo senso di “interazione”).[5]
Secolarizzazione ha significato quindi che i contenuti e i principi religiosi sono stati espulsi dagli apparati degli Stati, e in particolare dai codici civile e criminale (per fare un esempio, dopo la Rivoluzione francese, in molti paesi europei l’istituzione del matrimonio cominciò ad essere codificata dall’autorità civile per essere quindi sottratta alla regolamentazione religiosa). Silvio Ferrari ha citato le parole usate da Pierre Lafitte nel 1893 per spiegare il senso della secolarizzazione: «Dio ha cessato di essere una questione di pertinenza della legge ed è solo una questione di legge privata» ovvero è una questione di morale individuale e di personale credenza, non di sovranità o di obblighi giuridici.[6]
Il significato e le implicazioni della separazione fra la legge civile e quella religiosa furono ben colti nel 1938 da R. G. Renard, un domenicano e professore di diritto all’Università di Nancy: «I codici civili francese, italiano, spagnolo e perfino giapponese, benché diversi tra loro, camminano nella stessa direzione, che è molto diversa da quella presa dalla legge canonica. Infatti, mentre la legge civile disciplina la società secondo una prospettiva e all’interno di un orizzonte che è temporalmente limitato, la legge canonica tratta la società mondana come la casa della società spirituale, il cui destino è l’eternità. La comparazione [tra legge civile e legge religiosa] è possibile a condizione che comprendiamo questa differenza». Renard aveva ragione nel pensare che la divisione andava diritto al fondamento della legittimità: in un caso, il fondamento era all’interno dell’umanità stessa e la sua temporalità era finita, limitata; nell’altro caso, il fondamento è Dio, che è all’esterno della temporalità e della storia umana. Questa differenza acquista effettiva espressione con la democratizzazione degli Stati e cioè con l’erosione di tutte le forme di trascendenza rispetto alla coscienza e al giudizio umano (come per esempio i residui del passato medievale, la nobiltà o l’onore).[7] Le procedure democratiche presumono una mutabilità permanente delle legge perché presuppongono la fallibilità umana e la consapevolezza che le decisioni siano sempre emendabili. L’ordine politico democratico non può tollerare alcun fondamento ultimo che sia situato fuori di sé, benché questo non significhi affatto che i cittadini religiosi non possano esprimere pubblicamente la tensione tra la loro identità pubblica e la loro identità privata. Questo aiuta a comprendere il carattere secolare come quello immanentemente in fieri della politica democratica.
Dunque, il processo che ha portato alla separazione dell’autorità secolare da quella religiosa ha dato vita a una società nella quale la religione non è stata affatto confinata alla sfera intima o privata della persona, come alcuni sociologici hanno suggerito molto semplicisticamente (contribuendo a creare una confusione tra carattere secolare della legge civile e ideologia del secolarismo).[8] Al contrario, questo processo ha portato a una società nella quale, per restare al caso del menzionato domenicano Renard, a un giudice è imposto di far tacere la propria fede religiosa quando deve pronunciare un giudizio in tribunale. Al giudice non deve essere concesso che la tensione tra il foro interno e il foro externo si risolva in una vittoria del primo sul secondo. Ma nello stesso tempo, la società democratica è una società nella quale la tensione tra questi due dominii non è mai repressa e, soprattutto, mai definitivamente risolta. Il problema è dove metterla in vista, dove esprimerla: certo non nelle istituzioni, come ha ricordato il nostro presidente della Camera. La dialettica tra civile e religioso è quindi permanente. Questo è il senso dell’età del secolarismo. La sua permanenza – non la sua repressione né la sua privatizzazione – è ciò che rende secolare il carattere democratico della nostra società.
In sostanza, il fatto che la religione non abbia direttamente un ruolo politico non significa che essa non abbia un ruolo pubblico, o che non influenzi indirettamente il processo di formazione delle opinioni. Come ha scritto Charles Taylor (ma Karl Marx era giunto alla stessa conclusione già nel 1843), l’età secolare ha fatto posto alla religione anziché eliminarla, perché disimpegnando la religione dalla politica e dallo Stato ha aperto nuove condizioni per la fede e fatto della religione una permanente condizione di ricerca della perfezione spirituale e del significato della vita, di trascendimento della vita quotidiana, con effetti a un tempo liberatori e critici. Se non che è importante per una prospettiva laica non ripetere l’errore delle conclusioni che trae Taylor, ovvero che la liberazione della politica dalla religione ha avuto la non premeditata conseguenza di rendere la ragione e l’autonomia (i prodotti più importanti dell’età secolare) anche strumenti al servizio della fede. Poiché, se questo fosse il caso, allora la società democratica si chiuderebbe alla eguale libertà, diventando l’espressione della libertà di alcuni e servendo fini che sono trascendenti, situati cioè oltre il consenso politico. Che la società aperta abbia l’effetto di glorificare invece di avvilire la fede religiosa è un fatto da preservare e lo si preserva solo tendendo la sfera della legge civile autonoma da quella della legge religiosa.[9]
Le conclusioni da trarre da quanto illustrato sono due: storicamente, la formazione della sfera civile ha avuto luogo con la distinzione o differenziazione tra codice civile e codice religioso; in aggiunta, in una società democratica, l’azione di legislazione non è un lavoro fatto in isolamento dalla società, perché ai rappresentanti eletti è richiesto sì di legiferare nel nome della nazione intera, mantenendo però il contatto con i loro elettori. Nella democrazia rappresentativa la politica è il frutto di una relazione ininterrotta tra quanto è all’interno e quanto è all’esterno delle istituzioni. I movimenti e le associazioni della società civile, i gruppi politici, i media, i partiti sono voci attive nel processo di formazione dell’opinione e della decisione, benché solo in forma indiretta. In conclusione, nella società democratica, la secolarizzazione della sfera pubblica non comporta che questa escluda i discorsi religiosi. Ma proprio per questo la società democratica va percepita non tanto come la conclusione di un processo ma come l’inizio di nuove sfide o problemi.
Si comprende allora perché le teorie democratiche cosiddette post secolari – quelle che vedono nella presenza delle religioni nella sfera pubblica un fatto positivo – siano in qualche modo inadeguate e troppo semplicistiche, poiché proprio questa presenza della religione, come di altre ideologie, nella dimensione del pubblico dovrebbe portare a riflettere su quali nuove strategie siano da approntare per difendere la regola aurea della eguale libertà. Partire da una sfera pubblica aperta ai discorsi religiosi, dunque, ma per essere consapevoli che ciò può avere un impatto diretto sulla libertà individuale di religione e sulla pace sociale, soprattutto in società nelle quali predomina una sola religione. Ecco perché la revisione post secolare della teoria democratica non dovrebbe essere intesa come un principio universale. Si tratta cioè di fare uno sforzo pragmatico e correre su e giù dalla norma al fatto concreto; in una società dove è presente una forte maggioranza religiosa, dove il pluralismo non è fatto di fedi equipollenti per estensione e forza di rappresentatività, quello che in società pluraliste può essere un fattore di estensione di libertà qui può essere un fattore di decurtazione della libertà.
Il pluralismo delle religioni è quindi una condizione essenziale nel discorso sul ruolo delle religioni nella sfera pubblica. Senza pluralismo (come fatto sociale e come pluralità di religioni, non solo come formale dichiarazione del diritto) una democrazia costituzionale può generare decisioni che non sono più liberali e tolleranti di quelle generate in società non democratiche. L’osservazione del presidente della Camera con la quale si è aperta questa riflessione ha perciò un senso per nulla ideologico. Poiché l’Italia è una paese a larghissima maggioranza cattolica è presumibile che la libera presenza religiosa nella sfera pubblica, non essendo condivisa con altre fedi, produca un potere di ascolto da parte delle istituzioni che è formidabile e senza freni. Questa empirica condizione di maggioranza può rendere il lavoro di separazione di cui parlava il domenicano Reinard molto difficile, se non impervio. Il caso italiano è esemplificativo della debolezza del post secolarismo come ricetta dedotta da un ideale di democrazia deliberativa costruito su società che vivono di pluralismo religioso.

 


[1]John Rawls ha sviluppato questa concezione nel saggio intitolato Public Reason Revisited, indicando i limiti e gli “obblighi morali” (moral duty of civility) della traduzione.

[2] J. Lecler, Liberté de Conscience. Origines et sens divers de l’expression, in “Recherches de Science Religieuse”, 54/1966, pp.370-406. Si veda anche R. Forst, Pierre Bayle’s Reflexive Theory of Toleration, in M. S. Williams, J. Waldron (a cura di), Toleration and Its Limits. Nomos XLVIII, New York University Press, New York e Londra 2008, pp. 78-113.

[3] J. Lecler, Histoire de la tolérance au siècle de la Réforme, Éditions Aubier-Montaigne, Parigi 1955. Si veda anche M. Turchetti, Religious Concord and Political Tolerance in Sixteenth- and Seventeenth- Century France, in “The Sixteenth Century Journal”, 1/1991, pp. 15-25.

[4] Sulla tesi della privatizzazione della religione come carattere saliente della modernità si veda J. Casanova, Rethinking Secularization. A Global Comparative Perspective, in “The Hedgehog Review”, 1-2/2006.

[5] H. J. Berman, Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, Il Mulino, Bologna 1998, p. 107.

[6] S. Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi. Ebraismo, cristianesimo e Islam a confronto, Il Mulino, Bologna 2002, p. 46.

[7] Ferrari, op. cit., pp. 46-47.

[8] Per una reinterpretazione critica del secolarismo si veda J. Casanova, Public Religions in the Modern World, University of Chicago Press, Chicago 1994; per una analisi del significato del termine “secolare” come differente e in qualche modo anche in tensione con “secolarismo” come ideologia e “secolarizzazione” come progetto politico si veda anche J. Keane, Secularism?, in D. Marquand, R. L. Nettler (a cura di), Religion and Democracy, Blackwell, Oxford 2000, pp. 5-7.

[9] C. Taylor, A Secular Age, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, Mass. 2007, pp. 1-21.