Le fondazioni di origine bancaria e la "promessa dimenticata" della vigilanza

Di Giulio Napolitano Giovedì 01 Luglio 2010 17:12 Stampa
A vent’anni dalla legge Amato, il ruolo economico e socia­le delle fondazioni di origine bancaria appare sempre più importante. Considerate come investitori istituzionali di lun­go periodo, capaci di stabilizzare il mercato finanziario e nel contempo di collaborare positivamente a iniziative di inte­resse collettivo, le fondazioni hanno contribuito alla buona tenuta complessiva del sistema creditizio italiano durante la crisi. La promessa di passare dalla vigilanza ministeriale a quella di un’apposita autorità indipendente sul terzo setto­re, da istituire nell’ambito di un’organica riforma delle per­sone del libro primo del Codice civile, però, sembra essere stata dimenticata. Eppure, la vigilanza ministeriale appare oggi, al tempo stesso, poco efficace e poco trasparente. L’adozione di misure di autoregolamentazione e il coinvol­gimento di Banca d’Italia, Autorità antitrust e Agenzia per le onlus nel sistema di vigilanza potrebbero contribuire a migliorare l’accountability delle fondazioni.

 Con il ventennale della legge Amato del 1990 sulla trasformazione degli enti pubblici creditizi, anche per le fondazioni di origine bancaria si celebra un importante anniversario. In realtà, in quel testo legislativo ancora non si parlava esplicitamente di fondazioni. Le strane creature chiamate a scorporare l’azienda bancaria per attribuirla ad apposite società per azioni, infatti, venivano chiamate, in modo cacofonico, seppur tecnicamente puntuale, «enti conferenti». Secondo l’opinione allora prevalente, gli enti conferenti, sottoposti alla rigida vigilanza del ministero del Tesoro, avevano natura pubblica. Funzione fondamentale di tali enti era garantire il controllo delle banche appena scorporate. Fu anzi la discussione parlamentare, contrariamente a quanto originariamente previsto dal governo, a impedire loro di liberarsi della maggioranza delle azioni, se non previo assenso del Consiglio dei ministri. Tale vincolo, tuttavia, verrà progressivamente allentato, poi rimosso e sostituito da obblighi e incentivi alla dismissione delle partecipazioni bancarie.[1]
Nel frattempo, cominciava a manifestarsi la «crisi d’identità» degli enti conferenti, le cui radici, prima della pubblicizzazione delle casse di risparmio e degli operatori creditizi, affondano nell’autonoma iniziativa dei privati.[2] Il sostrato sostanziale del fenomeno fondazionale emergeva così dietro la anodina forma giuridica dell’ente conferente (soprattutto una volta che il conferimento dell’azienda bancaria si è perfezionato). Bisognerà tuttavia attendere il 1999 perché il legislatore attribuisca esplicitamente agli enti conferenti la natura di fondazioni di diritto privato, chiamate a operare in molteplici campi di utilità sociale, grazie alle ingenti rendite finanziarie di cui possono disporre.[3]
La disciplina speciale, tuttavia, introduce un articolato sistema di controllo amministrativo. Questo, già nella legge del 1999 e poi, ancor più, in quella del 2001 adottato dal successivo governo, non si limita alla verifica ex post di regole e condotte delle fondazioni alla luce di parametri predeterminati, ma prevede anche strumenti di conformazione ex ante ampiamente discrezionali.[4] Sarà allora la Corte costituzionale, portando avanti un indirizzo interpretativo già tracciato dal Consiglio di Stato, a preservare l’autonomia dalle fondazioni, squalificando le norme miranti a riconoscere all’autorità governativa un potere di direzione generale nei confronti delle fondazioni.[5]
La Corte, in primo luogo, protegge le fondazioni dalla dominanza della politica, dichiarando costituzionalmente illegittimo l’obbligo di una prevalente presenza negli organi fondazionali di soggetti indicati da regioni ed enti locali. È, però, fatto salvo il vincolo relativo alla composizione dell’organo di indirizzo, che conferisce un potere di designazione a enti pubblici o privati comunque «espressivi delle realtà locali». La decisione della Corte, in secondo luogo, determina la caducazione del potere di indirizzo generale dell’autorità di vigilanza, perché tale potere non trova fondamento in alcuna previsione della legge delega. Il giudice costituzionale, in terzo luogo, elide il potere autoritativo di revisione dei settori di attività. In proposito, la Corte osserva che le singole previsioni legislative dei settori ammessi sono sostanzialmente «riproduttive, per la loro ampiezza e varietà, di tutte le possibili attività proprie e caratteristiche delle fondazioni»; pertanto, non possono ritenersi lesive della autonomia, gestionale e statutaria, di tali enti. È anzi corretto, secondo la Corte, evitare che gli ingenti mezzi finanziari di cui le fondazioni dispongono siano utilizzati secondo «sollecitazioni contingenti, indipendentemente da una qualsivoglia programmazione pluriennale». Il giudice costituzionale, però, afferma l’illegittimità costituzionale della previsione secondo cui i settori nei quali le fondazioni sono chiamate ad operare possono essere ridefiniti dall’autorità di vigilanza, perché la discrezionalità amministrativa di quest’ultima non è circoscritta dalla predeterminazione di criteri che risultino «compatibili con la natura privata delle fondazioni e con la loro autonomia statutaria». Il giudice costituzionale, infine, configura in termini meramente indicativi qualsiasi intervento pubblico in ordine all’equilibrata destinazione delle risorse. Una lettura della norma costituzionalmente adeguata porta ad escludere la censura della disposizione secondo cui le fondazioni assicurano «singolarmente e nel loro insieme l’equilibrata destinazione delle risorse». La disposizione, infatti, deve essere interpretata nei termini di una «mera indicazione di carattere generale». Da ciò, dunque, non può derivare alcuna impropria e illegittima eterodeterminazione riguardo all’uso delle risorse di cui dispongono tali enti. Sono pertanto ammesse soltanto quelle «forme di coordinamento compatibili con la natura di persone private delle fondazioni».
Il riconoscimento della natura autenticamente privatistica delle fondazioni, intese quali espressione delle «libertà sociali», conduce dunque a espellere dall’ordinamento i poteri più intrusivi di direzione amministrativa; fallisce, così, il tentativo di una loro “funzionalizzazione” alle politiche pubbliche di promozione dello sviluppo economico e di intervento nel sociale. Stralciati dalla Corte costituzionale gli interventi di direzione pubblica, le fondazioni di origine bancaria rimangono però soggette al potere di vigilanza assegnata in via transitoria al dipartimento del Tesoro.[6] La vigilanza ministeriale ha per scopo «la verifica del rispetto della legge e degli statuti, la sana e prudente gestione delle fondazioni, la redditività dei patrimoni e l’effettiva tutela degli interessi contemplati negli statuti». Dal punto di vista strutturale, i poteri di vigilanza sono simili, da un lato, a quelli esercitati dalla Banca d’Italia nei confronti degli operatori bancari; dall’altro, a quelli operanti per le persone giuridiche del libro primo del Codice civile. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, risultano più intensi sia degli uni sia degli altri.
L’autorità amministrativa, innanzitutto, esercita la vigilanza regolamentare, diretta soprattutto all’adozione di norme tecniche. Essa, infatti, emana il regolamento relativo alle modalità di redazione dei bilanci; può disporre, anche limitatamente a determinate tipologie o categorie di fondazioni di maggiore rilevanza, che i bilanci siano sottoposti a revisione e certificazione; stabilisce le forme e le modalità per la revisione sociale dei bilanci. Inoltre, l’autorità determina, con riferimento a periodi annuali, sentite le organizzazioni rappresentative delle fondazioni, un limite minimo di reddito in relazione al patrimonio, commisurato ad un profilo prudenziale di rischio adeguato all’investimento patrimoniale delle fondazioni. All’autorità amministrativa compete poi la vigilanza informativa e ispettiva. Essa, infatti, ha il potere di chiedere alle fondazioni la comunicazione di dati e notizie e la trasmissione di atti e documenti con le modalità e nei termini dalla stessa stabiliti. L’organo di controllo interno alla fondazione, quindi, è tenuto a informare senza indugio l’autorità di tutti gli atti o i fatti, di cui venga a conoscenza nell’esercizio dei propri compiti, che possano costituire un’irregolarità nella gestione ovvero una violazione delle norme che disciplinano l’attività delle fondazioni. L’autorità amministrativa, inoltre, ha il potere di effettuare ispezioni presso le fondazioni e di richiedere alle stesse l’esibizione dei documenti e il compimento degli atti ritenuti necessari per il rispetto delle finalità della vigilanza. L’autorità pubblica, infine, dispone di una serie di poteri amministrativi puntuali, per alcuni versi simili a quelli previsti per le fondazioni di diritto comune: autorizza le operazioni di trasformazione e fusione; approva le modificazioni statutarie; adotta i provvedimenti straordinari di scioglimento degli organi e di liquidazione dell’ente, che possono, però, essere emanati soltanto dopo aver sentito gli interessati. Infine, l’autorità può sospendere temporaneamente gli organi di amministrazione e di controllo e nominare un commissario per il compimento di atti specifici necessari per il rispetto delle norme di legge e regolamentari, nonché dello statuto: ciò al fine di assicurare il regolare andamento dell’attività della fondazione.
Chiusa nel 2004 la grande partita sull’ambito dell’autonomia loro spettante sul perimetro della vigilanza pubblica, le fondazioni di origine bancaria festeggiano così il ventennale della legge Amato in un clima istituzionale almeno apparentemente sereno. Il quadro normativo, infatti, sembra ormai essersi stabilizzato, nel duplice segno di un «provvidenziale ripensamento» e di una «promessa dimenticata».
Il «provvidenziale ripensamento» risiederebbe nell’esaltazione delle fondazioni come investitori istituzionali di lungo periodo, capaci di stabilizzare il mercato finanziario e nel contempo di collaborare a iniziative di interesse collettivo, come quelle assunte dalla Cassa depositi e prestiti e da speciali fondi operanti nei settore delle infrastrutture e del social housing.[7] Si tratta di uno sviluppo ulteriormente suffragato dalla crisi finanziaria ed economica del 2008, per effetto della quale l’affidabilità delle fondazioni, anche nella veste di saggi azionisti delle maggiori banche, risulta notevolmente accresciuta, grazie alla buona tenuta complessiva del sistema creditizio italiano[8].
Al «provvidenziale ripensamento» si accompagna però una «promessa dimenticata». Questa riguarda il passaggio dalla vigilanza ministeriale a quella affidata ad un’apposita autorità indipendente sul terzo settore, da istituire nell’ambito di un’organica riforma delle persone del libro primo del Codice civile. Il disegno riformatore di associazioni e fondazioni, infatti, è ancora sospeso in un limbo, mentre appare superato il favore legislativo per le autorità indipendenti, rendendo così improbabile l’istituzione di nuovi organismi di questo tipo.[9] Eppure soltanto un soggetto istituzionalmente forte e autorevole sarebbe in grado di esercitare efficacemente l’attività di vigilanza nei confronti di soggetti che hanno accumulato patrimoni così rilevanti. A ciò si aggiunga che, contrariamente a quanto originariamente immaginato, le fondazioni, anche laddove abbiano dismesso il controllo, continuano in alcuni casi a esercitare un’influenza non irrilevante sulle società bancarie conferitarie. Tale influenza anzi viene considerata positivamente, proprio per la capacità di frenare gli animal spirits della finanza privata. Ma ciò inevitabilmente pone qualche dubbio circa la possibilità di parificare integralmente i controlli sulle fondazioni di origine bancaria a quelli di diritto comune.[10]
Le difficoltà di costruzione del nuovo regime non possono però far sottacere i limiti del vigente assetto della vigilanza. Basta, infatti, una rapida navigazione telematica per ricavare l’impressione che la vigilanza sulle fondazioni di origine bancaria presenti caratteri esoterici. Sul sito internet del ministero dell’Economia e delle finanze vi è un’apposita sezione dedicata alle fondazioni di origine bancaria, ma questa contiene soltanto i testi legislativi e regolamentari (l’ultimo del 2004) loro dedicati e gli atti di indirizzo adottati negli ormai lontani 1999 e 2001. Per il resto, non vi è traccia alcuna degli atti con cui tale vigilanza si eserciti: non è chiaro se perché tale vigilanza di fatto non sussiste, oppure se perché si esercita in modo informale. A ciò si aggiunga l’anomalia derivante dal fatto che vigilante e vigilati figurano come consoci della Cassa depositi e prestiti. L’antica opacità dei rapporti tra vigilante e vigilati, a fatica superata nell’ordinamento del credito, rischia così di riproporsi nell’ambito delle relazioni tra dipartimento del Tesoro e fondazioni di origine bancaria.
Eppure, il disegno istituzionale della governance e dell’attività erogativa delle fondazioni sembra disporre ancora di sensibili margini di miglioramento. Sul primo versante, si pensi all’annosa questione della composizione degli organi di indirizzo e di gestione e dei criteri per farvi parte. Oppure, ancora, alle modalità di designazione da parte delle fondazioni dei soggetti chiamati a rappresentarle negli organi delle banche partecipate. Sul secondo versante, va segnalata la persistente ampiezza e latitudine dei campi di intervento e la mancata determinazione, in molti casi, dei criteri in base ai quali sono concessi finanziamenti e contributi.[11] Le singole fondazioni, però, possono non essere incentivate a fare passi avanti in questa direzione. Legarsi le mani, d’altra parte, finirebbe per restringere il potere di decisione dei soggetti designanti, così come dei titolari degli organi di indirizzo e gestione. Il ministero dell’Economia e delle finanze, allo stesso tempo, sembra esitare ad esercitare appieno i poteri di vigilanza, in quanto naturalmente sospetti di impiego per finalità politiche. L’impasse appare destinata a protrarsi. E, nel frattempo, la soluzione non può certo essere costituita dal passaggio delle singole fondazioni dalla vigilanza ministeriale speciale a quella prefettizia esistente per le fondazioni di diritto comune.[12] Quest’ultima, infatti, sarebbe, allo stesso tempo, troppo invasiva sulla carta e troppo debole nella sostanza, perché priva delle competenze tecniche specifiche.
Una prima via d’uscita dall’attuale fase di stallo potrebbe allora essere aperta da una lungimirante iniziativa collettiva delle stesse fondazioni. Si potrebbe pensare, come altri hanno già suggerito, all’adozione di misure di autoregolamentazione sulla falsariga del codice Preda adottato per le società quotate. A ciò potrebbe aggiungersi l’istituzione di un organismo privato indipendente, guidato da soggetti rappresentanti dei vari stakeholders, a garanzia della trasparenza dell’attività di grant-making.[13]
Una seconda soluzione potrebbe consistere nell’assegnazione di un potere di iniziativa alle autorità e alle agenzie operanti nell’ordinamento in base alla loro specifica competenza. Banca d’Italia e Autorità garante della concorrenza e del mercato avrebbero così la facoltà di sollecitare modifiche della governance e verifiche in ordine al possesso dei requisiti soggettivi di onorabilità e di professionalità. L’Agenzia per le onlus, invece, sarebbe intitolata a chiedere una migliore definizione dei criteri di erogazione delle risorse, anche a tutela dei potenziali beneficiari. Sulla base di queste diverse iniziative, spetterebbe poi al ministero dell’Economia e delle finanze adottare formalmente gli atti di vigilanza nei confronti della generalità delle fondazioni oppure di alcune di esse. A quel punto, però, sarebbe difficile muovere a tali atti l’accusa di indebita interferenza politica.
Una promessa opportunamente «aggiornata», invece che «dimenticata» o, peggio, «tradita», sarebbe forse un buon modo di onorare il ventennale della legge Amato.



[1] Per una ricostruzione dei passaggi avvenuti si veda F. Merusi, Dalla banca pubblica alla fondazione privata. Cronache di una riforma decennale, Giappichelli, Torino 2000.

[2] Per riprendere la formula a suo tempo utilizzata in G. Napolitano, La «crisi d’identità» delle Fondazioni Casse di Risparmio di fronte al giudice costituzionale, in “Giurisprudenza italiana”, 1/1994.

[3] Su questo approdo si veda M. Clarich, A. Pisaneschi, Le fondazioni bancarie. Dalla holding creditizia all’ente non-profit, Il Mulino, Bologna 2001.

[4] Per una censura di queste operazioni normative si veda F. Merusi, La privatizzazione per fondazioni, ora in Merusi, Sentieri interrotti della legalità, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 75 e sgg.

[5] Ci si riferisce alla sentenza 301/2003 della Corte costituzionale. Per un commento si rinvia a Napolitano, Le fondazioni bancarie nell’«ordinamento civile»: alla ricerca del corretto equilibrio tra autonomia privata e controllo pubblico, in “Corriere giuridico”, ??/2003.

[6] Per un quadro si veda S. Amorosino, I poteri pubblici di vigilanza sulle fondazioni bancarie, in S. Amorosino, F. Capriglione (a cura di), Le “fondazioni” bancarie, Cedam, Padova 1999, pp. 161 e sgg.; Napolitano, I controlli amministrativi sulle fondazioni di origine bancaria, in G. Ponzanelli (a cura di), Le fondazioni bancarie, Giappichelli, Torino 2005, pp. 121 e sgg.

[7] Così, in termini problematici, R. Costi, intervento al Convegno dal titolo “Fondazioni bancarie e governance delle banche”, San Miniato, 23 ottobre 2009.
[8] Per una valorizzazione del ruolo delle fondazioni si veda F. Bassanini, Le Fondazioni di origine bancaria nella crisi e oltre la crisi, intervento al XXI Congresso dell’ACRI, Siena, 10 giugno 2009, disponibile su www.astrid-online.it; A. Benessia, Le fondazioni bancarie di fronte alla crisi finanziaria: prime riflessioni, intervento alla II Conferenza “Angelo Colocci” di diritto, economia, banca e finanza, Jesi, 17 ottobre 2009, consultabile su www.astrid-online.it.

[9] Sulle prospettive di riforma si veda Amorosino, Le fondazioni di origine bancaria tra potere pubblico e autonomia privata: un’ipotesi futuribile, in M. Giusti, M. Passalacqua (a cura di), Quale fiscalità per le fondazioni di origine bancaria, Cedam, Padova 2010, pp. 43 e sgg.

[10] Per un’analoga perplessità si veda G. della Cananea, La vigilanza sulle fondazioni bancarie: percorsi, prospettive, in Giusti, Passalacqua (a cura di), op. cit., pp. 115 e sgg.

[11] Su alcuni di questi problemi aperti si veda V. Calandra Buonaura, Le fondazioni bancarie come investitori di lungo periodo, 17 febbraio 2010, disponibile su www.astrid-online.it.

[12] Lo chiarisce ora l’articolo 52 del decreto legge 78/10.

[13] Napolitano, I controlli amministrativi, cit.