Quando i nodi vengono al pettine: occupazione femminile e crisi economica in Italia

Di Chiara Saraceno Mercoledì 13 Ottobre 2010 17:38
Quando i nodi vengono al pettine: occupazione femminile e crisi economica in Italia Disegno: Serena Viola

In Italia la crisi si è verificata in un contesto già segnato da bassa partecipazione e persistente debolezza delle donne nel mercato del lavoro, e ha colpito queste ultime più duramente che negli altri paesi. A questa difficile situazione, i policy makers offrono risposte che sembrano rifarsi a una visione stereotipica dei rapporti di genere e della famiglia, senza tenere invece conto del profondo mutamento avvenuto nel comportamento femminile rispetto al mercato del lavoro. | di Chiara Saraceno


Pubblicato sul n. 4/2010 di Italianieuropei

Un aumento dell’occupazione lento, disuguale e lontano dalla parità

Anche prima della crisi, l’occupazione femminile in Italia continuava a presentare tassi relativamente bassi, tra i più bassi d’Europa. Solo Malta registrava un livello di occupazione femminile inferiore. L’aumento registrato negli ultimi quindici anni, benché relativamente consistente, non solo è partito da livelli mediamente bassi, ma è stato anche più contenuto che nella maggioranza dei paesi europei e, soprattutto, in quelli che a metà degli anni Ottanta presentavano tassi di occupazione femminile non dissimili e talvolta inferiori a quelli italiani. Il tasso di occupazione delle donne tra i 24 e i 54 anni, infatti, in Italia è aumentato dal 42,3% del 1985 al 57,9% del 2005, a fronte di quanto è avvenuto in Belgio, ove nello stesso periodo il tasso di occupazione femminile è salito dal 48,3% al 70,4%; in Olanda, ove si è passati dal 40,4% al 75,5% (sia pure prevalentemente part-time); in Irlanda, ove il tasso è più che raddoppiato salendo dal 30,3% al 67,3% nello stesso periodo; o in Spagna, ove si è passati dal 37% del 1990 al 61,5% del 2005.1

Più che in altri paesi, inoltre, esistono forti differenze nella partecipazione al mercato del lavoro non solo tra nubili e senza carichi familiari e coniugate con figli, ma anche tra donne con alta e bassa istruzione e tra diversi contesti territoriali.2 In primo luogo, l’inattività è particolarmente concentrata tra le donne con bassa istruzione e nel Mezzogiorno. In secondo luogo, è vero che l’aumento più significativo dell’occupazione femminile ha riguardato soprattutto le donne nella fase della vita e nella condizione familiare che a metà del Novecento erano le più lontane dal mercato del lavoro, ossia le coniugate con figli. Secondo i dati Istat, infatti, tra chi è tra i 35 e i 45 anni – di solito i più intensi sul versante del lavoro di cura e domestico per chi ha responsabilità familiari – quasi una donna su tre è occupata. Tuttavia, la quasi parità numerica con gli uomini è raggiunta solo tra le più giovani, non coniugate e senza figli, specie se con buona istruzione. Tra le 25- 54enni, infatti, la distanza nei tassi di occupazione rispetto a chi non ha figli è del 4% per le donne con un figlio, del 10% per quelle con due figli e del 22% per quelle con tre o più figli. In terzo luogo, la percentuale – circa un quarto – di occupate che lascia il lavoro dopo l’arrivo di un figlio è stabile da anni. Così come la mancata entrata nel mercato del lavoro, anche l’uscita a seguito di motivi familiari è particolarmente concentrata tra le donne con qualifiche più basse.

Una recente indagine longitudinale svolta dall’Istat con il ministero del Lavoro3 ha riscontrato che il 26,2% delle donne che lavoravano al momento della prima intervista, nel 2003, e che successivamente hanno avuto un figlio, ha interrotto il proprio lavoro e nel 2007 non lavorava più. Il 56,8% attribuisce la causa dell’interruzione proprio alla maternità (26,5% in corrispondenza del primo figlio, 32,7% del secondo figlio). Si tratta di una tendenza osservata già da tempo, ormai strutturale e che non accenna a ridursi nonostante l’aumento della partecipazione femminile al mercato del lavoro nelle generazioni più giovani. In altri termini, il numero delle donne che sono entrate nel mercato del lavoro è continuato ad aumentare da una coorte all’altra negli ultimi due decenni, facendo così crescere anche il numero assoluto di quelle che vi rimangono anche quando mettono su famiglia. Ma la quota di coloro che ne escono a causa dell’arrivo di un figlio continua a rimanere la stessa, sia che le motivazioni siano di tipo valoriale sia che siano invece connesse a difficoltà di conciliazione. Va inoltre considerato quel 43% circa che non attribuisce alla nascita del figlio il proprio abbandono del lavoro. O meglio, non lo spiega come una propria decisione legata a questo evento. Accanto ad altri motivi familiari, pesano le condizioni contrattuali. I contratti a termine o co.co.pro. non sempre sono rinnovati dopo una maternità. E gli stessi contratti a tempo indeterminato, di fatto, anche se non di principio, non sempre tutelano dalla perdita del lavoro a seguito della maternità. A questo proposito non va dimenticato che in diversi casi l’abbandono del lavoro dopo la nascita di un figlio, lungi dall’essere una scelta della madre lavoratrice, è una imposizione, più o meno accompagnata da incentivi economici, del datore di lavoro.

Le difficoltà di conciliazione tra responsabilità e piaceri materni e lavoro remunerato non devono tuttavia indurre a ritenere che la scelta di maternità sia più difficile per le lavoratrici rispetto alle casalinghe. La citata indagine longitudinale dell’Istat, ad esempio, ha rilevato che tra coloro che nel 2003 avevano manifestato il desiderio di avere un figlio avevano dato seguito a questo desiderio più le occupate che non le casalinghe. Anche in Italia, quindi, sembra stia avvenendo ciò che da tempo era emerso nelle indagini sugli altri paesi: lo status di casalinga costituisce un ostacolo alle scelte di fecondità maggiore di quello di occupata. Tra le occupate, a conferma di quanto si diceva sopra circa le disuguaglianze nelle risorse di conciliazione disponibili, hanno dato seguito più spesso alle proprie intenzioni quelle con qualifiche più alte e con posizioni professionali migliori. La combinazione tra istruzione e occupazione delle donne sta divenendo nel nostro paese un’inedita forma di disuguaglianza sociale, tra donne e tra famiglie: non solo rispetto alla partecipazione al mercato del lavoro, alla possibilità di rimanervi, al reddito che se ne deriva, ma anche rispetto alla possibilità di realizzare i propri progetti familiari, in particolare di fecondità.

Le criticità della presenza femminile nel mercato del lavoro, tuttavia, non riguardano solo le questioni della conciliazione.4 Vi sono anche problemi di discriminazione e di mancata valorizzazione e riconoscimento delle competenze. La citata ricerca Istat segnala che nell’arco di tre anni solo il 46% delle lavoratrici con contratto a tempo determinato neha conquistato uno a tempo indeterminato, a fronte di due uomini su tre. I divari salariali, a parità di orario e di qualifica, rimangono più elevati che nella maggior parte dei paesi europei, specie ai livelli più alti. Secondo i dati Eurostat, una donna manager in Italia guadagna il 35% in meno di un pari grado uomo, a fronte del 15% della media nell’Unione europea. Anche le possibilità di fare carriera sono consistentemente inferiori a quelle degli uomini con qualifiche simili. Non vi sono pressoché donne tra gli alti dirigenti pubblici e non va molto meglio nel privato, dove le eccezioni riguardano quasi sempre imprese di tipo opposto: di famiglia, o multinazionali di origine non italiana. Anche se una ricerca di Alessandra Casarico e Paola Profeta5 segnala che, nelle aziende di famiglia, tra i familiari sono preferiti i maschi alle femmine. Inoltre, le aziende familiari sono le più ostili alle donne dipendenti, ovvero fanno più resistenze ad assumerle.

Infine, una istruzione elevata, se facilita la permanenza nel mercato del lavoro, per le donne conta molto meno che per gli uomini per quanto riguarda i differenziali retributivi. Ciò è vero anche in altri paesi ma, di nuovo, in Italia il fenomeno si presenta in modo più accentuato. Nel nostro paese, infatti, una laureata guadagna in media solo il 3% (media UE 12%) in più di una con la licenza di scuola media superiore, a fronte del 58% (media UE 63%) in più spuntato da un laureato.6 Il fatto che, nei confronti internazionali, il divario di genere nelle remunerazioni in Italia appaia, viceversa, comparativamente contenuto è l’esito della più forte (auto-)selezione delle occupate in Italia, che sono fortemente concentrate tra le donne con istruzione e qualifiche più elevate. Il confronto tra donne e uomini è quindi più disomogeneo che altrove. Ma se si confrontano lavoratori e lavoratrici con qualifiche simili appare che le differenze retributive sono maggiori nei livelli più alti, a conferma della carriera più “schiacciata” e del range di opzioni più ridotto disponibile per le donne.

L’impatto della crisi

A prima vista, in Italia come in Europa, sembra che le donne siano state relativamente meno colpite degli uomini dalla crisi. Dato che la crisi occupazionale ha riguardato prevalentemente l’industria, in particolare quella automobilistica, non solo in numeri assoluti, ma anche in percentuale, la riduzione maggiore ha riguardato gli uomini (–2%, rispetto al –1,1% delle donne). Anche in questo caso, tuttavia, ci sono alcune specificità che confermano la maggiore debolezza delle donne nel mercato del lavoro italiano.7 In primo luogo, in Italia la crisi occupazionale ha causato una riduzione dell’occupazione femminile, specie tra i giovani, superiore a quella degli altri paesi dell’Unione, con un ulteriore allargamento del divario nei tassi di occupazione. È accaduto il contrario per gli uomini italiani, che hanno registrato cali occupazionali inferiori a quelli registrati nel resto d’Europa. In secondo luogo, anche nell’industria, ove è avvenuto il grosso dell’esodo maschile, l’occupazione femminile è calata più del doppio di quella maschile (–7,5 contro –3%). Un fenomeno analogo è avvenuto nel lavoro autonomo, dove la perdita relativa per le donne è quasi doppia di quella degli uomini (–3,3% rispetto a –1,8%), anche se, in valori assoluti, il calo riguarda per tre quinti gli uomini. La diminuzione dell’occupazione femminile ha colpito anche il lavoro atipico, dove negli ultimi anni si era concentrata la maggior parte della crescita. Gran parte della perdita di occupazione si concentra infatti qui, per lo più nella forma di mancato rinnovo del contratto, incidendo soprattutto sui giovani di ambo i sessi e, appunto, sulle donne di ogni età. La concentrazione della perdita di lavoro tra queste figure di lavoratori/lavoratrici ha consentito, in larga misura, di attutire gli effetti della crisi attraverso i due grandi ammortizzatori sociali funzionanti in Italia: la cassa integrazione, che protegge i lavoratori centrali, che sono anche i percettori di reddito principali in famiglia, e la famiglia stessa, che redistribuisce reddito e risorse a chi non ne ha (più, o ancora). Ciò può acuire le dipendenze familiari, restringendo l’autonomia individuale dei giovani/figli, ma anche delle donne/mogli.8 Nel caso delle donne con responsabilità familiari, ha anche comportato, nei ceti economicamente più modesti, una sorta di compensazione tra reddito mancante e intensificazione del lavoro familiare, riducendo il ricorso al mercato (con effetti potenzialmente negativi sul mercato del lavoro stesso). Peraltro, l’intensificazione del lavoro domestico/familiare può divenire una necessità per tutte le donne con responsabilità familiari a prescindere dalla riduzione del reddito da lavoro, nella misura in cui Stato ed enti locali tentano di far fronte alle crisi di bilancio riducendo i servizi – dal tempo pieno a scuola ai nidi d’infanzia, alla assistenza domiciliare per le persone non autosufficienti, ai servizi mensa e così via.9

Il peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro, inoltre, imprime una battuta d’arresto alla crescita femminile anche nelle professioni più qualificate. Ad esempio, nelle regioni del Nord, in altre parole in quelle a più alto tasso sia di attività sia di occupazione femminile, nell’ultimo trimestre del 2009 si è osservata una diminuzione del 2,5% tra le occupate laureate, specie tra le coorti più giovani.10

Un’altra criticità italiana (condivisa per intensità solo con Malta) riguarda il tasso di inattività, che nel 2009 ha superato di oltre 9 punti percentuali quello medio UE per le donne. Il fenomeno delle lavoratrici scoraggiate che, soprattutto nel Mezzogiorno (dove si è concentrata circa la metà delle occupate che hanno perso il lavoro), aveva già da qualche anno rallentato l’aumento dei tassi di attività femminile, con la crisi occupazionale di questi anni si è accentuato, coinvolgendo anche le più giovani. Le donne sono infatti la maggioranza tra i cosiddetti NEET (Not in Employment, Education or Training), ossia quei giovani tra i 15 e i 29 anni che non sono né in una fase di formazione né nel mercato del lavoro. Si tratta di una condizione problematica sia per gli uomini che per le donne, ovviamente, dato che il suo protrarsi rende più difficile l’accesso al lavoro. Nel caso delle donne, il connubio tra bassa istruzione e lontananza dal mercato del lavoro rischia di creare una situazione più radicalmente senza uscita.

Strategie miopi?

La crisi occupazionale di questi anni ha accentuato molte delle tradizionali criticità che caratterizzano il lavoro femminile in Italia: il basso livello di partecipazione al mercato del lavoro delle donne meno scolarizzate, la diseguale distribuzione dell’occupazione femminile nei diversi settori e professioni, i forti squilibri territoriali e, non ultima, la difficoltà di conciliare lavoro e famiglia. Le risposte dei vari attori – datori di lavoro, governo, partiti politici, sindacati, in parte le famiglie e le donne stesse – sembrano rispecchiare una concezione vecchia della divisione del lavoro e delle responsabilità tra uomini e donne, oltre che della famiglia, dei suoi bisogni e delle sue possibilità. Sembra che continui a valere l’idea che il lavoro delle donne sia una sorta di lusso di cui aziende e famiglie possono fare a meno nei periodi di crisi e su cui, come aziende, non vale la pena di investire. Il sistema imprenditoriale ed economico italiano sottoutilizza sistematicamente il capitale umano disponibile, specie se è di sesso femminile. Le laureate hanno un’occupazione al di sotto della propria qualifica in percentuale maggiore dei laureati. Forse parte della non competitività delle aziende italiane sta anche qui, in questa cecità rispetto alle risorse disponibili, in questa incapacità di innovazione innanzitutto culturale, nella stanca ripetizione dell’idea di un maggior costo del lavoro femminile che la ricerca si è incaricata di ridimensionare ampiamente.11

Anche il fatto che molte donne, come molti giovani di ambo i sessi, perdano occupazioni che godevano di poche o nessuna protezione non diviene un problema politico (e neppure sindacale) e non induce a modificare un sistema di protezione sociale molto squilibrato. Piuttosto ci si consola con il fatto che la solidarietà familiare tenga, senza interrogarsi sul futuro di giovani che non arrivano mai all’autonomia economica e di giovani e donne che rischiano una vecchiaia con pensioni miserrime. Senza considerare che l’occupazione femminile è un potente elemento di contrasto alla povertà delle famiglie e degli individui, come dimostrato ormai da molte ricerche nazionali e internazionali e documentato anno dopo anno dall’Indagine europea sulle condizioni socio-economiche delle famiglie (EU-Silc). Tantomeno sembra esserci consapevolezza del fatto che sempre più spesso l’instabilità coniugale rompe l’unità economica della coppia, per il presente ma anche per il futuro (pensione). Le famiglie monoreddito non sono certo la migliore garanzia economica nel medio e lungo termine per il coniuge – per lo più la donna – privo di reddito proprio. E poco serve che questo coniuge abbia investito nella famiglia e abbia contribuito sostanziosamente al benessere di questa tramite il proprio lavoro familiare.

Le donne italiane hanno molto cambiato i loro comportamenti rispetto al mercato del lavoro. Spesso il loro reddito è indispensabile per il bilancio familiare. Anche il mercato del lavoro, a sua volta, è cambiato moltissimo, purtroppo non nella direzione di una maggiore amichevolezza nei confronti di chi non può lasciare ad altri le responsabilità familiari. È anzi avvenuto il contrario. E i policy makers continuano a pensare e ad agire come se i cambiamenti nei comportamenti femminili non richiedessero sostanziose innovazioni nei contenuti e priorità nelle politiche pubbliche, per affrontare la riorganizzazione del tempo e la redistribuzione delle responsabilità che quei cambiamenti comportano. E di fronte alla crisi sembrano mossi (si veda anche il documento congiunto dei ministeri del Lavoro e delle Pari opportunità “Italia 2020. Programma di azioni per l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro”) da un’idea quasi ottocentesca della famiglia e dei ruoli di genere e generazionali: dove permane forte la divisione del lavoro e delle responsabilità tra uomini e donne, le donne lavorano solo se strette dalla necessità, oppure per passare il tempo, i matrimoni durano per sempre, la famiglia allargata è la norma e così via.

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[1] Commissione europea, Demography Report 2008: Meeting social needs in an Ageing Society, Commission Staff Working Document, SEC(2008)2911, Bruxelles 2008.

[2] Si vedano A. Rosina, C. Saraceno, Interferenze asimmetriche. Uno studio sulla discontinuità lavorativa femminile, in “Economia & Lavoro”, 2/2008, pp. 149-67; Istat, Rapporto Annuale 2009, Istat, Roma 2010; A. Righi, Donne e crisi, il lavoro sprecato, disponibile su www.ingenere.it.

[3] Istat-Ministero del Lavoro, della salute e delle politiche sociali, Le difficoltà nella transizione dei giovani allo stato adulto e le criticità nei percorsi di vita femminili, Roma, 28 dicembre 2009, disponibile su www.istat.it.

[4] Si veda anche Saraceno, Politiche di conciliazione in Europa. Uno strumento importante ma insufficiente, in “Italianieuropei”, 4/2009, pp. 120-27.

[5] A. Casarico, P. Profeta, Donne in attesa. L’Italia delle disparità di genere, Egea, Milano 2010.

[6] Eurostat, The Life of Women and Men in Europe. A Statistical Portrait, Lussemburgo 2008.

[7] I dati che seguono sono tratti da Istat, Rapporto annuale 2009, Roma 2010; Righi, op. cit.

[8] Si veda anche P. Villa, La difficile strada verso l’indipendenza economica per le donne in Italia: dalla protezione nella famiglia al lavoro retribuito, in “Economia e Lavoro”, 2/2009, pp. 37-58.

[9] Si veda anche F. Bettio, M. Smith, P. Villa, Women in the current recession. Challenges and Opportunities, paper presentato alla conferenza “What does gender equality mean for economic growth and employment?”, Stoccolma, 15-16 ottobre 2009, disponibile su www.ingenere.it.

[10] Istat, op. cit.; Righi, op. cit.

[11] Si veda, ad esempio, S. Cuomo, A. Mappelli, Maternità quanto ci costi? Un’analisi estensiva sul costo di gestione della maternità nelle aziende italiane, Guerini e Associati, Milano 2009.