Omogeneità e divergenze nel Partito Democratico

Di Luciano Cafagna Venerdì 29 Febbraio 2008 20:27 Stampa
Tre faglie attraversano l’area del centrosinistra, con solchi, per la verità, discretamente profondi. Una riguarda la visione dei problemi internazionali, una seconda riguarda i problemi economico-sociali, e, infine, una terza riguarda la visione dei problemi «eticamente sensibili» o, se si vuol considerare la cosa da un altro punto di vista, il modo di concepire la laicità della politica. Queste «faglie» sono caratterizzate dal fatto di attraversare in maniera non sovrapponibile le frontiere organizzative delle formazioni che compongono la coalizione di cui consta il centrosinistra italiano.

L’area che è investita immediatamente dal progetto del Partito Democratico copre solo una parte, però maggioritaria, delle formazioni organizzative che costituiscono il centrosinistra: si tratta dei Democratici di Sinistra (sostanzialmente il grosso della eredità post comunista) e del partito della Margherita. Anche questo partito ha una derivazione che trova radice nella cosiddetta «prima Repubblica»: addirittura nella Democrazia Cristiana, però solo in quella parte (correnti di sinistra) che, dopo il terremoto che aveva investito il sistema politico italiano nella XI legislatura, aveva dato vita al Partito Popolare (ma per sviluppare poi una sua più complessa vicenda costitutiva). Quel che interessa qui sottolineare è che questa superficie politica appare, nella sua configurazione presente, abbastanza (benché non completamente) omogenea nel modo di concepire due dei tre temi tagliati dalle «faglie» di cui abbiamo detto in principio: la visione internazionale e il modo di concepire i problemi economico-sociali. Qui sembra esserci una buona convergenza di vedu te. E ciò permette di considerare l’area del Partito Democratico una maggioranza abbastanza omogenea della coalizione di centrosinistra. Per cui, su questa base si è pensato di poter tentare una svolta aggregativa, la formazione di un partito unitario chiaramente egemone nella coalizione, capace di affrontare la scommessa politica del passaggio – almeno dal lato del centrosinistra – da un bipolarismo coalizionale ad un più solido bipolarismo tendenzialmente bipartitico.

L’impressione, però, è che nel costruire questa prospettiva si sia probabilmente sottovalutata la serietà e l’importanza della terza «faglia», quella relativa ai problemi cosiddetti «eticamente sensibili». In questo campo l’omogeneità – o l’omologabilità – delle convinzioni degli elettorati (attuali o potenziali, secondo una distinzione di prospettiva che vale la pena di sottolineare) dei due partiti che dovrebbero andare a formare l’ossatura del Partito Democratico viene meno. Benché ci si renda conto pienamente della ben diversa forza attrattiva che può offrire una grande formazione unitaria, sorge il timore, però, che questa attrattiva non sia sufficiente se non è accompagnata da un forte richiamo ideale anch’esso adeguatamente unitario e aggregativo. Il socialismo socialdemocratico, di per sé, può esserlo, così come può esserlo una visione sociale cristiana. Le due cose possono, forse, anche convivere se l’una accetta di essere minoritaria e, in un certo senso, ospite, dell’altra. Il che non pare essere nelle intenzioni dell’uno e dell’altro dei due convergenti partiti, ciascuno dei quali ha un suo ben formato gruppo dirigente a livello nazionale come a livello locale. A ciò si aggiunge un’ulteriore considerazione, relativa anch’essa alla «faglia» dei problemi eticamente sensibili. Questa non solo coincide, abbastanza ancorché non del tutto, con le frontiere presenti delle due formazioni politiche che dovrebbero andare a costituire il Partito Democratico, ma, si è indotti a temere che i fattori di frattura che insidiano il terreno in questo ambito stiano attraversando una temperie storica che tende ad aggravarli e non a placarli. Poiché questo fatto non è né apprezzabile né desiderabile è opportuno dispiegare al riguardo, da ambo le parti, molta buona volontà e molta disposizione al compromesso. E perciò bisogna chiedersi se queste opportunità possano realizzarsi più facilmente in una formazione politica comune o non piuttosto in formazioni distinte e indipendenti, soltanto alleate e coalizionali. Il recente compromesso Bindi-Pollastrini sulla questione dei Dico è – al di là di tutti i suoi difet- ti o limiti – un bell’esempio di buona volontà di costruire un ponte attraverso la «faglia». Ma è un compromesso che consente a ciascuna parte di conservare la propria identità, le proprie convinzioni, le proprie speranze in un futuro che possa permettere soluzioni migliori. Ma se i soggetti del compromesso dovessero appiattirsi fra loro in modo da far mancare, da ciascun lato (in realtà la situazione sarebbe, da questo punto vista, asimmetrica), la possibilità di riferirsi ad una identificabile distinta soggettività, potrebbe verificarsi uno stallo ideale, un ulteriore aggravamento, anche in questa area specifica, del fenomeno, che oggi dilaga in Italia, della disaffezione per la politica. Questa curiosa situazione potrebbe non solo far perdere capacità attrattiva, su ambo i lati, al Partito Democratico, ma anche provocare perdite e alimentare persino la formazione di ulteriori fenomeni di proliferazione del «nanismo» partitico. C’è da chiedersi come mai, nell’area diessina del nascente Partito Democratico, vi sia stata una pervicace e singolare sottovalutazione dei problemi critici che poteva porre una unificazione politica fra un «popolo» post comunista e un «popolo» post democristiano. È ipotizzabile che questo fenomeno nasca, prima di tutto, dalla storia culturale stessa del vecchio Partito comunista. Ma vi è probabilmente, in aggiunta a ciò, una sottovalutazione delle recenti reazioni della Chiesa cattolica ai progressi della scienza e ai mutamenti recati dall’evoluzione sociale nei costumi.

Vediamo prima cosa possa collegarsi alla tradizione culturale derivata dalla storia del comunismo italiano. Non è un caso che qualcuno abbia chiamato la nuova formazione politica che si prospetta un «compromesso storico» bonsai. Questa unificazione, in effetti, ha un po’ l’aria di essere una tardiva realizzazione di un vecchio sogno politico, quello con cui Enrico Berlinguer credeva, a sua volta, di inverare la politica togliattiana verso i cattolici di due-tre decenni prima. Quella era stata, però, un’altra cosa, in un altro contesto: era una proposta – all’alba della travagliata nascita dell’Italia democratica – di armistizio comunista con l’Italia cattolica, per ottenere, dall’autorità particolarissima di questa, un diritto di ospitalità, una credenziale di legittimazione, in una situazione storica internazionale che per i comunisti di Togliatti era di ormai drammatica attesa, una attesa storica di probabile «lunga durata» à la Braudel. Per contro, invece, al tempo di Berlinguer – un quarto di secolo dopo – doveva essere chiaro che non c’era più da attendere niente e che si trattava, per i comunisti «italiani», ormai chiaramente e indubitabilmente orfani, soltanto di scegliere – mi si consenta di sintetizzare la cosa, allu- sivamente, in questi termini – fra Europa occidentale ed Europa orientale.

Il «compromesso storico» berlingueriano era soltanto un anacronismo, nel quale ci si attardava a simulare la ricerca di una sponda dall’altro lato del fiume da varcare, in termini ambigui e politicamente arcaici. Infatti, al tempo di Berlinguer, ormai, l’egemonica funzione, che potremmo chiamare «ricostruttiva», del cattolicesimo democratico nell’Italia del dopoguerra era in via di esaurimento. Di cosa si era trattato? Di una vicenda storicamente molto importante che si può riassumere rapidamente così. Dopo la sconfitta subita nella guerra fascista e la profonda sfiducia generata da quel trauma nell’identità nazionale degli italiani, l’Italia riuscì ad evitare una crisi analoga a quella del precedente dopoguerra proprio e soprattutto per il grande e responsabile rientro in scena – storicamente e politicamente parlando – dei cattolici, l’unica realtà eticosociale, nonché organizzativa, non devastata dai drammatici eventi. I cattolici democratici e liberali trovarono in De Gasperi un asciutto e abile regista capace di sfruttare la stessa divisione del mondo in due blocchi e di mettere insieme con pazienza l’aiuto (competitivamente) concesso dal vincitore americano e il bisogno – tra il tattico e lo strategico – di stazionare in un realistico «attendismo», in qualche modo legittimato, di una forte opposizione sociale interna, ideologicamente ed emotivamente rivoluzionaria (ma culturalmente guidata in modo accorto e prudentissimo).

Al tempo di Berlinguer questa situazione non c’era più. Non che mancassero elementi di tensione nella vita politica e sociale, ma le motivazioni per ricercare uno o più compromessi fra le parti erano assai diverse. La funzione ricostruttiva della Democrazia Cristiana degasperiana era ormai esaurita: la democrazia in Italia si era definitivamente affermata e, caso mai, soffriva di altri e diversi disturbi. Il rivoluzionarismo non riguardava più un grande esercito tutto da disciplinare ma solo frange di questo, se pur assai turbolente, sostanzialmente marginali e minoritarie. Per contro il popolo apprensivo del consenso cattolico non solo era venuto perdendo i suoi timori e le sue paure sociali ed etiche, ma era anche scosso, nei costumi e nella cultura diffusa, da una ondata di secolarizzazione. Dal tempo di Berlinguer queste caratteristiche dell’atteggiamento dei cittadini di fede cattolica si sono accentuate. Gli episodi più rilevanti a testimonianza di una propensione verso una scelta «secolare» di una parte dell’elettorato cattolico furono, come si sa, i referendum sul divorzio e sull’aborto. Questi referendum furono la spia di un mutamento diffuso della popolazione più o meno propensa a farsi guidare, nei comportamenti di costume e politici, dagli orientamenti della religione in materie tradizionalmente importanti per quest’ultima, come i rapporti sessuali e il controllo della procreazione.

Ma, anche a seguito del trauma recato da queste vicende, si sono venute, affermando, in tempi più recenti, due nuove tendenze nel rapporto fra il mondo cattolico e il sistema politico italiano: da un lato è cresciuto lo scorporo – se così si può dire – degli orientamenti politicamente conservatori dalla protezione di una politica motivata da orientamenti religiosi e si è così assistito alla sostanziale fine di un partito ufficialmente cattolico; e, dall’altro, si è venuta accentuando la propensione all’intervento politico diretto della Chiesa, attraverso le gerarchie ecclesiastiche, nelle materie «eticamente sensibili» implicanti decisioni politiche e legislative. Scelte siffatte tendono inevitabilmente ad accrescere l’ampiezza e la profondità di quella terza «faglia» cui si è accennato in principio, che è la più grave proprio fra quelle forze del centrosinistra che vorrebbero unirsi in un Partito Democratico. Vi è la tendenza, specialmente nell’area post comunista, a sottovalutare la portata di questo nuovo presenzialismo politico della Chiesa. Indipendentemente dal fatto che si consideri questo atteggiamento compatibile o meno con il rapporto concordatario esistente fra lo Stato italiano e la Chiesa, non può comunque negarsi che tale atteggiamento tende inesorabilmente a creare crescenti difficoltà alla convivenza fra soggettività politiche cattoliche e laiche, per quanto animate dalla migliore buona volontà reciproca, entro uno stesso partito.