Riforme economiche nell'area euro: esiste un'agenda comune?

Di Xavier Debrun Jean Pisani-Ferry Venerdì 29 Febbraio 2008 20:55 Stampa
Nonostante i recenti segni di ripresa, la situazione economica dell’area dell’euro rimane molto deludente. Per questa ragione, l’inderogabile priorità rimane quella di ideare e attuare politiche che abbiano l’obiettivo di accrescere la produzione potenziale attraverso un aumento dei posti di lavoro, una maggiore partecipazione delle maestranze e una maggiore produttività, e di fare in modo che la produzione reale non resti indietro rispetto ai miglioramenti della produzione potenziale.

Mentre molte voci dell’agenda delle riforme restano oggetto di discussione, l’orientamento generale e gran parte delle disposizioni concrete impongono sempre di più un accordo tra i politici dell’area euro.1

In cauda venenum, però: c’è molto meno consenso sulla strategia delle riforme, ovvero se collegare le riforme in piani generali o se se introdurle passo per passo, sul modo di gestirne gli effetti redistributivi e sui metodi cui si devono affidare i governi per superare i vincoli politici dell’economia. Il risultato è che le riforme nell’area euro tendono a essere frammentarie e disorganiche. Molti governi finiscono per dilapidare il già scarso patrimonio politico con riforme di scarsa efficacia e si scoprono incapaci di sfruttarne i primi vantaggi per sostenere lo sforzo e raggiungere risultati significativi. Nel peggiore dei casi (che non è quello meno raro) la scelta di un’agenda di riforme è determinata principal-mente da quanto del proprio capitale politico un governo è disposto a rischiare su un particolare progetto, senza tenere conto del ritorno che ci si aspetta di ottenere. Significa fare riforme di nascosto e la cosa non funziona. In questo contributo ci si concentrerà quindi su quattro questioni: a) Che specificità hanno le riforme in Europa e nell’area dell’euro? b) Che cosa sappiamo delle riforme fatte nei momenti di congiuntura favorevole? c) I governi devono cercare di individuare la giusta sequenza di riforme o è meglio sfruttare solidi rapporti di complementarietà (fra le diverse politiche o fra i vari momenti)? d) A quale livello si devono coordinare le riforme?

Perché l’Europa è speciale? Il molti paesi l’esigenza di riforme e la loro natura sono spesso oggetto di controversie politiche e sociali.

L’avversione popolare nei confronti delle riforme strutturali riguarda principalmente tre aspetti. In primo luogo l’incertezza, perché le riforme strutturali sono per loro natura complesse e non è facile per i politici prevederne e spiegarne gli effetti economici; in secondo luogo l’avversione per il rischio, poiché i singoli individui non sanno con certezza se avranno vantaggi dalle riforme o se invece ne saranno danneggiati; infine la distribuzione, perché le riforme market-oriented tendono a ridurre le rendite e/o a ridistribuirle, creando vincitori e perdenti. Mentre non è difficile identificare i perdenti, i beneficiari sono più difficili da individuare. L’incertezza dovrebbe riguardare tutti i paesi e tutti i politici del mondo; invece essa è una notevole fonte di preoccupazione nei paesi in cui vi è disaccordo circa i probabili effetti delle riforme (e quindi sulla loro auspicabilità).

Viene spesso ribadito che l’alta avversione al rischio presente nell’Europa continentale blocca la riforma del mercato del lavoro (per quanto riguarda, ad esempio, la protezione del lavoro o gli ammortizzatori sociali). In ogni caso non si dovrebbe dimenticare che la domanda di protezione riflette anche oggettivamente la presenza di rischi molto alti. Poiché un fallimento nella riforma di un mercato del lavoro rigido aumenta il rischio che vi siano shock occupazionali, ci può essere una battuta d’arresto nel processo di riforma indipendentemente dal grado di avversione al rischio tra chi resiste alle riforme. Le società differiscono anche per il valore che danno all’equità. In quelle dove esiste un forte senso di uguaglianza, tendono a formarsi facilmente coalizioni ostili alle riforme, anche se il gruppo dei perdenti è poco numeroso e politicamente non molto ben organizzato.

Questi tre ordini di ragioni, sommati fra loro, spesso rafforzano l’op-posizione alle riforme. In realtà, se è chiaro che l’incertezza riguardo agli effetti distributivi delle riforme è un elemento centrale che rafforza la tendenza favorevole al mantenimento dello status quo (o l’ostilità alle riforme),2 una maggiore avversione al rischio e le preoccupazioni rispetto al principio di equità contribuiscono insieme ad aumentare ulteriormente tale inclinazione.

Se la resistenza alle riforme nei principali paesi dell’area dell’euro è davvero motivata da questi fattori, quali sono le conseguenze che dobbiamo trarne? Spesso si sente affermare che le situazioni di stallo come questa possono essere sbloccate solo da una crisi profonda. Eppure una delle conseguenze dell’introduzione dell’euro è una riduzione nella probabilità delle crisi, perché le crisi valutarie sono scomparse e il vincolo esterno è diventato meno vincolante. Inoltre, l’unico interrogativo di rilevanza pratica nella situazione attuale riguarda il modo in cui si possono introdurre riforme nel contesto di un ambiente economico favorevole. Questo dovrebbe spingere i politici a pensare strategie di riforma per le fasi di congiuntura favorevole, in grado di contrastare tutte e tre le ragioni di opposizione alle riforme stesse.

Riforme nelle fasi di crescita economica Riformare nei momenti di congiuntura favorevole rappresenta una sfida, perché il bisogno di riforme non è evidente come quando le performance economiche non sono buone. Ma quando l’economia va bene, i redditi crescono rapidamente e, proprio come l’inflazione confonde i segnali dei prezzi relativi, i cambiamenti indotti dalle riforme nella distribuzione dei redditi sono meno visibili e la resistenza alla loro introduzione è meno accentuata. Quando le risorse di bilancio sono meno scarse è anche più facile trova-re forme di compensazione per chi viene danneggiato dalle riforme. Gli stessi costi di transizione sono contenuti, perché la manodopera può più facilmente essere riallocata in un altro settore, riducendo il rischio di disoccupazione. Infine, le riforme che aumentano la produzione potenziale contribuiscono a prolungare la fase positiva del ciclo e ritardano quella di flessione. Le riforme ben ragionate, pertanto, indurrebbero le autorità monetarie ad esitare prima di dare inizio ad una stretta monetaria.

Bisogna anche tenere conto del fatto che i pacchetti di riforme sono destinati a essere diversi da quelli attuati nelle fasi negative, e che c’è più bisogno e ci sono maggiori opportunità di affrontare direttamente gli aspetti che più interessano (soprattutto attraverso un impiego intelligente della politica fiscale). In particolare, l’Unione europea può svolgere un ruolo importante nel contribuire a ridurre l’incertezza circa le conseguenze delle riforme. Un’attenta valutazione delle esperienze di riforma che hanno avuto successo in altri paesi con caratteristiche simili può contribuire a ridurre le resistenze dovute principalmente all’incertezza.

Per contrastare l’avversione al rischio, misure che abbiano la possibilità di limitare il rischio e di accrescere le opportunità dovrebbero essere sia un importante elemento del pacchetto sia un argomento importante quando si «vendono» le riforme. Per esempio, i riformatori nelle società più ostili al rischio devono ragionare più a fondo sui metodi per trovare un sostituto per le funzioni di garanzia legate a certe «rigidità» del mercato. Il modello danese della flex-security è un perfetto esempio di questo ragionamento.

Per fare fronte alle preoccupazioni riguardo alla distribuzione, la risposta politica efficace è quella di compensare i perdenti attraverso trasferimenti espliciti (fino al valore netto scontato dei costi futuri). Conta invece il fatto che, quando le condizioni macroeconomiche sono migliori, l’importo della compensazione può essere più basso ma la domanda di compensazione da parte dei perdenti è probabile che sia più pressan-te. Nella misura in cui i benefici saranno più distribuiti nel tempo, sembra legittimo finanziare questi costi (almeno in parte) con un aumento del debito pubblico.

Il risultato è che, a differenza delle riforme attuate in congiunture sfavorevoli, è più probabile che quelle attuate in tempi buoni confliggano con il consolidamento fiscale e che i riformatori debbano decidere dove desiderano allocare il loro capitale politico.3

Questo fatto spinge a ritenere che l’ampiezza dei pacchetti di riforme, anche quelle con implicazioni di bilancio dirette e individuabili, debbano essere prese sul serio e che vadano affrontate esplicitamente nell’attuazione del nuovo Patto di stabilità e sviluppo.

Una conclusione pratica è che i paesi che prendono in considerazione programmi ambiziosi di riforme dovrebbero avere la possibilità di avviare una discussione generale sugli aspetti di bilancio dei propri programmi. Questa discussione potrebbe svolgersi nell’ambito dell’Eurogruppo, anticipando l’esame del programma di stabilità del paese.

Riforme complessive o graduali Quali riforme sono prioritarie? Troppo spesso gli aspiranti riformatori adottano un metodo che Ricardo Hausmann, Dani Rodrik e Andrés Velasco4 definiscono della «lista della lavandaia», che «si basa implicitamente sull’idea che a) qualsiasi riforma sia buona; b) quanti più campi tocca, tanto meglio è; c) quanto più a fondo incide, tanto a meglio è». Questi autori sostengono, a ragione, che una strategia del genere può dilapidare un intero patrimonio politico e addirittura che, in presenza di notevoli distorsioni, non è affatto detto che migliori il welfare.

Quale deve essere, allora, la strategia di riforme? A questo proposito vi sono due tesi. La prima si fonda sulle complementarietà delle riforme in diversi settori per sostenere l’attuazione di un pacchetto di misure che si sostengano a vicenda per coprire un ambito molto vasto. Ciò non vuol dire che sia necessario attuare tutte le riforme subito e per intero, ma piuttosto che i politici devono darsi delle priorità tenendo conto delle complementarietà più solide. La seconda ipotesi non parte dalla prospettiva delle complementarietà economiche, ma dai vincoli politici, e sostiene che è meglio partire da riforme che possono creare un elettorato favorevole a riforme future più ambiziose e ridurre quello contrario a tali riforme, anche a costo di un’efficacia più limitata nel breve periodo. Questo metodo propone di cominciare con riforme che siano meno costose (per esempio nel settore finanziario), ma che possono accrescere i vantaggi delle riforme future (per esempio quelle del mercato dei prodotti e di quello del lavoro).

Entrambi gli approcci hanno i loro pro e i loro contro e la scelta tra uno o l’altro non deve essere fatta in astratto. Ma essi non possono essere trattati simmetricamente nell’attuale contesto dell’area euro. In primo luogo, è probabile che ci siano ormai pochi frutti a portata di mano sull’albero delle riforme, perché molte di quelle a basso costo sono già state attuate o almeno tentate. In secondo luogo, nella misura in cui tali riforme sono pensate per ridurre l’opposizione a quelle future, è probabile che i gruppi sociali che ne verrebbero a soffrire si muovano in anticipo e si oppongano alle riforme fin dall’inizio. La controversia sulla direttiva sulla liberalizzazione dei servizi ha rappresentato in tal senso un esempio lampante poiché, sebbene il progetto riguardasse i mercati dei prodotti, ha incontrato un’opposizione soprattutto per il fatto che avrebbe avuto ricadute indesiderabili sul mercato del lavoro. L’ultimo e più importante aspetto è che una strategia gradualista che tenga conto dei vincoli politici può essere definita solo su una base caso per caso, mentre l’individuazione di solide complementarietà (che riguardino sia le politiche nazionali sia quelle comunitarie) è argomento di discussione e di scelte comuni.

Ciò induce a individuare un nucleo d’insieme di misure complementari per l’area euro che si ritenga abbiano la possibilità di accrescere il prodotto potenziale e al quale si debba dare la priorità nei programmi di riforma. Tali misure dovrebbero logicamente riguardare le politiche nazionali (soprattutto quelle relative all’istruzione, ai mercati del lavoro e alcune norme sui servizi), come pure quelle di dimensione comunitaria (in particolare rispetto ai mercati finanziari e a quelli dei prodotti).

L’interrogativo principale riguarda se un coordinamento esplicito delle riforme strutturali debba essere assunto a livello dell’area euro e, se è così, come lo si debba attuare.

L’ambito del coordinamento Il caso tipico di coordinamento internazionale delle politiche si fonda su effetti di spillover (politiche nazionali che incidono sulle performance all’estero) ed economie di scala (certe politiche si attuano con più efficacia se sono decise e attuate a livello soprannazionale). L’argomento corrente contro il coordinamento afferma che la progettazione e l’attuazione di riforme strutturali andreb-bero lasciate nelle mani delle autorità nazionali perché il contenuto dell’agenda di riforme ha per sua natura una specificità nazionale. Ma anche perché si ritiene che gli effetti di ricaduta delle politiche dal lato dell’offerta siano limitati e forse negativi. È probabile, per esempio, che un paese che migliora la propria competitività attraverso riforme che favoriscono l’offerta guadagni quote di mercato a spese dei paesi suoi partner. Una competizione sulle riforme è quindi salutare. Di converso, il coordinamento può portare al formarsi di una coalizione di governi ostili alle riforme, che probabilmente limiterebbe l’impegno riformatore invece di favorirlo.

Queste sono argomentazioni rilevanti, ma ci sono anche contro-argomentazioni favorevoli ad un approccio di tipo cooperativo.

Si può proporre il caso di un coordinamento soft a livello di Unione europea, sul tipo di quello utilizzato per la Strategia di Lisbona, in particolare per la determinazione degli obiettivi, lo scambio di informazioni, la discussione sui risultati. Il coordinamento favorisce l’apprendimento delle esperienze altrui e contribuisce a limitare l’incertezza circa gli effetti delle riforme. Un altro argomento si basa sulle complementarietà tra le riforme dei mercati finanziari e dei prodotti da un lato (la cui responsabilità spesso spetta all’Unione) e quelle del mercato del lavoro dall’altro (che resta tra le competenze degli Stati membri). In questo caso il coordinamento dovrebbe incrementare il rendimento delle riforme. Infine, potrebbero esserci economie politiche di scala, agendo insieme sul fronte delle riforme («lo facciamo perché non vogliamo restare indietro » oppure «lo facciamo anche se i nostri governi appartengono a famiglie politiche diverse, e quindi questa non è una scelta di parte»).

Le ricadute politiche positive, e il caso corrispondente del coordinamento, sono presumibilmente più forti nell’area euro. Questo perché un governo che attua una riforma destinata a ridurre la pressione inflattiva esercita un effetto sui paesi vicini attraverso lo strumento della politica monetaria comune. Per questo, nell’area euro solo le riforme coordinate favoriranno il compito della Banca centrale europea e ne susciteranno una reazione. Per le stesse ragioni, un approccio coordinato alle riforme e la relativa risposta della BCE potrebbero limitare la pressione sulle politiche fiscali, per un maggiore supporto alle riforme, che è un aspetto impor-tante, dato lo stato deplorevole della finanza pubblica in molti paesi.

Un migliore coordinamento può anche evitare che si attuino politiche configgenti all’interno dell’area euro. Certe riforme strutturali, per esempio (taglio di sussidi, aumento dei prezzi controllati), possono trovarsi per un certo tempo in conflitto con gli obiettivi macroeconomici. In assenza di un dialogo con la BCE, si avrebbero riforme diverse da un paese all’altro e non un’azione congiunta. D’altro canto, il coordinamento orizzontale sulle riforme potrebbe favorire alcune forme di coordinamento verticale con la BCE e con chi determina i livelli salariali.

Come deve essere organizzato questo coordinamento? La proliferazione di procedure e la fatigue che ne deriva inducono alla prudenza nei confronti dell’adozione di un’altra procedura generale. Piuttosto ci si dovrebbe orientare verso situazioni nelle quali ci sia una ragione dimostrabile per un intervento unitario.

In particolare, la Commissione e la BCE potrebbero essere invitate a delineare quelli che considerano gli ambiti di priorità delle riforme strutturali nell’area euro e i paesi membri dovrebbero rispondere indicando quali azioni intendono intraprendere entro un dato limite di tempo. Un campo possibile per un intervento del genere è quello della risposta alle iniziative dell’Unione sui mercati dei prodotti e finanziari. Allo stesso modo, le discussioni nell’Eurogruppo dovrebbero individuare le ricadute potenzialmente importanti di certe riforme nazionali (o la loro mancata attuazione) e discutere delle possibili risposte caso per caso. Per reagire alle differenze potenzialmente dannose di performance in un paese dell’area euro, il presidente dell’Eurogruppo e il commissario agli affari economici e finanziari dovrebbero avere il potere di dare il via alle discussioni con le autorità di quel particolare paese. Nel contesto attuale, dovrebbero per esempio ottenere un mandato per discutere di competitività con l’Italia e di mercato immobiliare con la Spagna.5

[1] Philippe Aghion riassume le componenti essenziali di un pacchetto di politiche che puntano alla crescita basata sull’innovazione. Cfr. P. Aghion, A Primer on Innovation and Growth,in «Bruegel Policy Brief», 6/2006, disponibile su www.bruegel.org.

[2] R. Fernandez e D. Rodrik, Resistance to Reform: Status Quo Bias in the Presence of Individual- Specific Uncertainty, in «American Economic Review», 5/1991, pp. 1146-55.

[3] X. Debrun e A. Annett, Implementing Lisbon: Incentives and Constraints, in Euro Area. Selected Issues, Country report n. 04/235, IMF, Washington 2004.

[4] R. Hausmann, D. Rodrik e A. Velasco, Growth Diagnostics, ciclost., Harvard University 2005.

[5] Una prima versione di questo intervento è stata presentata nell’ottobre 2006 al gruppo di lavoro Eurogroup del Comitato politico europeo della UE. La versione in lingua inglese di questo articolo è stata pubblicata con il titolo Economic reforms in the euro area: Is there a common agenda?, in «Bruegel Policy Contribution», 5/2006, www.bruegel.org. Le opinioni espresse sono quelle personali degli autori.