Interessi e valori: la politica estera italiana

Di Massimo D'Alema Domenica 02 Marzo 2008 16:58 Stampa
È ancora presto per giudicare i risultati della strategia di politica estera sviluppata dal governo Prodi. È presto per valutare se la svolta attuata rispetto agli anni di Berlusconi darà tutti gli effetti sperati, anzitutto sulla scena mediorientale. Ed è presto per dire quanto il nuovo ruolo internazionale dell’Italia riuscirà a contribuire – come vorrebbero le nostre aspirazioni – a una crescita del ruolo globale dell’Europa e a una ripresa di importanza delle Nazioni Unite.

Il tempo è uno dei giudici più severi dell’efficacia delle politiche estere. Ricordarlo serve anche a essere più consapevoli dell’importanza di un approccio equilibrato ai problemi internazionali: ambizione degli obiettivi e senso della responsabilità nazionale devono in ogni caso rientrare in una visione calibrata, misurata, delle nostre possibilità di azione. Del resto, se una maggiore dose di modestia fosse prevalsa, nella risposta occidentale alle sfide internazionali degli ultimi anni, parecchi errori sarebbero stati evitati.

Il contro-ciclo multilaterale

È già possibile, tuttavia, ripercorrere il modo in cui il governo ha impostato la propria azione internazionale e ha cominciato a svilupparla di fronte a prove difficili. Va premesso che l’Italia si è trovata in una situazione molto diversa rispetto a quella del 2003, segnata dalle fratture sull’Iraq e dalle divisioni fra «vecchia» e «nuova» Europa. La crisi della politica dell’Amministrazione Bush in Iraq e in Medio Oriente è il tema dominante della vita politica internazionale. Questa crisi è percepita in modo drammatico dalla stessa opinione pubblica americana, come testimonia il risultato delle elezioni di midterm, e apre un aspro conflitto nel sistema politico statunitense intorno alle scelte necessarie per uscire dall’impasse e aprire una nuova fase positiva. Si potrebbe dire che nella politica americana sono venute meno le certezze di questi anni e si alternano in modo contraddittorio atti testardamente volti alla ricerca di una «vittoria sul campo» ad iniziative più equilibrate che tendono a ricomporre un quadro di alleanze e di cooperazione con l’Europa e con il mondo arabo moderato. Anche la nazione «indispensabile» sembra aver capito di avere bisogno di alleanze stabili, piuttosto che di coalizioni ad hoc. La gestione della crisi libanese, nell’estate del 2006, ha confermato questa possibile inversione di tendenza: dopo anni di forzature unilaterali, siamo tornati alla concertazione multilaterale, che è poi l’unica condizione in cui l’Europa possa esercitare una influenza reale.

Si apre per l’Europa un grande campo di azione e nello stesso tempo si accrescono le nostre responsabilità. Le opportunità possono essere colte a due condizioni: a) l’Europa deve essere unita nelle scelte e nell’azione; b) l’Europa deve respingere l’illusione di potere agire da sola, senza un contributo americano che resta determinante per la soluzione del problema mediorientale e in genere dei problemi di sicurezza internazionali.

Quando parliamo di «multilateralismo efficace» – come principio generale che orienta la politica estera italiana – parliamo del bisogno di istituzioni internazionali rese più forti dal contributo determinante di tutti i maggiori paesi che ne fanno parte. Ed è chiaro che, senza un impegno americano in queste istituzioni, il multilateralismo non potrà essere davvero efficace.

Ci siamo insomma trovati, dopo la prima fase di ciò che è stato definito il «momento unipolare», all’inizio di un contro-ciclo della politica internazionale, che come Italia e come Europa abbiamo tutto l’interesse a consolidare.

Le priorità e gli interessi

Non c’è dubbio che una politica estera, al di là dei disegni preordinati e delle piattaforme annunciate, venga forgiata dai momenti di crisi: la risposta italiana alla crisi libanese, a un mese dalla nascita del governo Prodi, ha dato un segno alla nuova politica estera, garantendo all’Italia un forte credito internazionale. Ciò che conterà, nei prossimi mesi, è il modo in cui l’Italia utilizzerà questo credito per un’azione internazionale di cui vorrei subito ricordare le premesse politiche e concettuali. Le riassumo per punti sintetici, muovendo dal modo in cui interpretiamo gli interessi di fondo del nostro paese:

1. Sul piano politico e della sicurezza, le nostre priorità si identificano anzitutto con la stabilità delle aree che ci circondano, a Sud e Sud- Est: Balcani e Mediterraneo allargato, quindi. La geografia fa dell’Italia un paese particolarmente esposto, perché di frontiera rispetto a quella zona di instabilità che Zbignew Brzezinski ha definito da tempo l’«arco di crisi». Siamo un paese front-line rispetto alla regione europea meno integrata nel sistema euro-atlantico; siamo direttamente esposti alla pressione migratoria dell’Africa via Mediterraneo e alle crisi del Medio Oriente. Fondamentalismo, terrorismo e proliferazione nucleare sono una minaccia per tutti; per l’Italia sono anche una minaccia alle porte. La nostra priorità non può che essere quella di contribuire a disinnescare questi fattori di crisi. Alla fine degli anni Novanta, abbiamo cominciato a farlo nei Balcani, ma sapendo che una vera stabilizzazione verrà solo dall’adesione all’Europa. Oggi dobbiamo farlo soprattutto in Medio Oriente, assumendoci gli impegni relativi.

2. Come paese storicamente convinto dell’importanza dell’integrazione europea, l’Italia ha una seconda priorità: vuole contribuire a fare in modo che l’UE superi lo stallo generato dalla bocciatura del Trattato costituzionale e riesca così a garantirsi le condizioni interne per rafforzare la propria capacità decisionale e per continuare il processo di allargamento verso i Balcani occidentali e la Turchia. Ciò, del resto, coincide con gli interessi di sicurezza europei, così dipendenti dalle dinamiche del rapporto con il mondo islamico: mantenere aperte le porte dell’Unione europea alla maggiore democrazia islamica, la Turchia, è una fondamentale garanzia di sicurezza per gli europei nel loro insieme. Al tempo stesso, la forte dipendenza energetica dell’Italia e dell’Europa impone lo sviluppo di politiche di vicinato più efficaci verso la Russia e i paesi produttori del Mediterraneo.

3. Terza priorità: tornare ad allargare gli orizzonti della politica estera nazionale, dopo anni di concentrazione eccessiva su poche direttrici e dopo anni di relativa disattenzione per l’Asia orientale e l’America Latina. Ciò tiene conto del peso politico ed economico ormai assunto da nuove grandi potenze, emergenti o già emerse: Cina, India, Brasile. E rientra negli interessi di un’economia come quella italiana che ha bisogno di vivere e consolidarsi sui mercati globali. Si tratta di rovesciare l’approccio culturale e psicologico con cui la destra ha guardato le nuove sfide della globalizzazione, cioè con un misto di paura e di ostilità nei confronti dei nuovi grandi protagonisti sulla scena politica ed economica mondiale. Noi guardiamo a questi cambiamenti come ad una grande opportunità per il paese, per la sua economia, ma anche per la possibilità di accrescere il peso internazionale dell’Italia.

4. Infine, ma certamente non in ultimo, l’Italia vuole contribuire, insieme agli altri grandi paesi avanzati, a migliorare la gestione dei grandi squilibri globali – dalla lotta alla povertà alle questioni ambientali. Ciò richiede istituzioni internazionali più forti e impegni molto più concreti. L’aumento dei fondi italiani della cooperazione allo sviluppo, dopo una fase di declino degli aiuti e in un anno segnato da una finanziaria difficile, è un segno preciso della nostra volontà di agire in questo senso.

Idealismo e realismo in politica estera

Questa la griglia delle priorità e degli interessi dell’Italia. Va subito aggiunto che, nell’impostazione di politica estera del governo, interessi e valori si combinano strettamente. È nostra convinzione, infatti, che solo la promozione di valori essenziali – democrazia, diritti umani, diritto allo sviluppo – garantirà a lungo termine la sicurezza globale e quindi anche la sicurezza del nostro continente. È una visione che gli esperti chiamerebbero «idealistica», che deve però combinarsi, per essere efficace, a una buona dose di realismo. Prendiamo la lotta al terrorismo fondamentalista, come problema essenziale della sicurezza della nostra epoca. È decisivo dimostrare, per avere successo, che i valori per cui operiamo non appartengono soltanto all’Occidente – come vorrebbe la logica dello scontro di civiltà fra Occidente e Islam – ma che si tratta di valori universali, che appartengono all’umanità e quindi anche a quella parte del mondo arabo e del mondo islamico che dobbiamo sottrarre all’influenza fondamentalista. Solo seguendo questa logica, riusciremo a isolare il terrorismo e a costruire il più ampio schieramento possibile di forze democratiche, di forze progressiste e di forze moderate che pure sono presenti nel mondo arabo e musulmano. L’Italia si schiera con passione e coerenza dalla parte dei diritti dei popoli e dei diritti della persona. «Prosciugare le paludi dell’odio» è la vera risposta strategica al terrorismo e significa concretamente aprire un orizzonte di libertà, di emancipazione e di speranza a chi vive una condizione di umiliazione, di emarginazione, di negazione dei più elementari diritti.

Coerenza significa poi restare fedeli ai propri valori anche per quanto riguarda il rapporto fra mezzi e fini. L’uso della tortura, l’assassinio di civili inermi, la negazione di elementari diritti umani che hanno purtroppo caratterizzato la lotta al terrorismo nel corso di questi anni hanno finito talora per oscurare i valori nel nome dei quali combattiamo il terrorismo stesso. Questo non ci rende né più forti né più sicuri. È una delle lezioni di questi ultimi anni, di cui essere fino in fondo consapevoli.

Da questo punto di vista, l’accento posto dall’Italia sul rispetto del diritto internazionale e sulla legittimazione conferita dal sistema delle Nazioni Unite non è vuota retorica: esprime appunto la convinzione che solo una forte coerenza fra obiettivi e strumenti permetterà di promuovere soluzioni democratiche ed eque ai problemi globali. Multilateralismo efficace significa questo.

Europei e alleati degli Stati Uniti

Tali premesse spiegano anche perché la politica estera di questi mesi abbia smentito uno degli assunti polemici che hanno accompagnato la nascita del governo Prodi. L’assunto in base al quale l’Italia, decidendo di ritirare il proprio contingente dall’Iraq – peraltro in stretta concertazione con il governo iracheno, con modalità concordate con le forze anglo-americane e rimanendo impegnata nella ricostruzione civile – avrebbe irrimediabilmente leso storici rapporti di amicizia con gli Stati Uniti. Assunto completato dalla tesi secondo cui tornando a guardare verso le Nazioni Unite, scelta premiata con la nostra elezione nel Consiglio di sicurezza per il biennio 2007-08, e tornando a valorizzare il suo ruolo nell’Unione europea, scelta confermata dal rilancio dei rapporti con la Germania di Angela Merkel, l’Italia avrebbe perso per strada il legame con Washington. Così non è stato, a conferma di una vecchia regola aurea della politica estera italiana, trascurata negli anni di Berlusconi: europeismo e rapporto con gli Stati Uniti possono combinarsi e rafforzarsi a vicenda. E a dimostrazione che la coerente convinzione nelle proprie posizioni, anche quando divergano da quelle americane, è vista con attenzione e rispetto da Washington.

L’Italia di oggi, avendo recuperato peso sia in Europa che nel mondo arabo, potrà anzi giocare un ruolo internazionale più utile, anche agli Stati Uniti stessi. La risposta alla crisi libanese lo ha confermato: dimostrandosi pronta ad assumere responsabilità primarie – sia diplomatiche che sul terreno – l’Italia ha favorito un coinvolgimento dell’Europa nel suo insieme, di una serie di paesi arabi, di Russia e Cina. Le condizioni internazionali, in altri termini, per raggiungere un cessate-il-fuoco e per tentare di garantire sia la sicurezza di Israele che la sovranità libanese. La situazione interna del Libano rimane quanto mai critica, ma almeno per ora la rafforzata presenza internazionale nel sud del paese ha permesso di separare le dinamiche interne libanesi dal fronte esterno con Israele. Al tempo stesso, la reazione alla crisi libanese ha aumentato la credibilità dell’Europa nella regione, quale attore strategico e non come semplice erogatore di aiuti.

Va vista in una logica simile – la responsabilità nazionale come modo per contribuire a migliorare la gestione europea e internazionale delle crisi – la scelta di restare solidamente impegnati in Afghanistan, proponendo al tempo stesso un ripensamento della strategia di stabilizzazione adottata fino ad oggi, che sta chiaramente incontrando notevolissime difficoltà. La nostra tesi è che la presenza della NATO, sotto mandato delle Nazioni Unite, resti indispensabile; ma non sia di per sé sufficiente a garantire progressi sul piano della ricostruzione civile. È con questo obiettivo – conseguire più solidi progressi nel campo della ricostruzione civile – che abbiamo proposto una conferenza internazionale per la pace che coinvolga l’intera comunità internazionale e in particolare i paesi della regione. Guardando al bilancio di questi primi mesi, l’Italia ha esercitato un ruolo nazionale attivo in un’area cruciale per la propria sicurezza e in una logica volta a rafforzare il peso internazionale dell’Europa. La posizione italiana è che la relazione transatlantica sarebbe a sua volta consolidata, non indebolita, da un aumento di coesione europea. Vanno quindi rafforzati i legami diretti fra Washington e Bruxelles, fra gli Stati Uniti e l’Unione europea in quanto tale. Ciò vale anche sul piano economico: l’accento posto dalla presidenza tedesca sulla necessità di rafforzare l’integrazione dei mercati finanziari, creando nel tempo una sorta di mercato unico per gli investimenti transatlantici, è appoggiato con convinzione dall’Italia.

Una partnership economica più solida, che tenga sotto con-trollo le tentazioni protezionistiche esistenti su entrambi i lati dell’Atlantico, avrà effetti positivi anche sul piano politico. Se guardiamo di nuovo alla sfida mediorientale, nessuna risposta occidentale sarà efficace se Stati Uniti ed Europa torneranno a dividersi e se non riusciranno a coagulare attorno a sé una più vasta coalizione di forze.

Appoggiare i democratici in Medio Oriente

Idealismo e realismo devono anche in questo caso guidare le nostre scelte. Il conflitto libanese ha dato indicazioni importanti sulle dinamiche mediorientali a tre anni dall’intervento in Iraq: in primo luogo, Israele ha capito che la propria sicurezza può essere difesa meglio da una garanzia internazionale – ormai anche europea – piuttosto che attraverso il ricorso esclusivo a risposte militari nazionali; in secondo luogo, la questione palestinese ha assunto una nuova dimensione strategica, dal momento che la vecchia agenda nazionalista è ormai utilizzata strumentalmente da forze fondamentaliste; in terzo luogo, il vecchio equilibrio nel Golfo, per decenni fondato sul reciproco contenimento fra Iraq e Iran, è stato scardinato dall’intervento in Iraq, che di fatto ha finito per consolidare le ambizioni regionali di Teheran; in quarto luogo, i regimi arabi cosiddetti moderati cominciano a temere, di fronte all’ascesa del radicalismo sciita, per la propria stessa sopravvivenza. E sono dunque interessati, quanto noi, a due obiettivi: impedire che movimenti nazionalisti e movimenti islamici radicali si saldino; contenere l’ascesa regionale dell’Iran, impedendo che Teheran e Damasco consolidino quella che per ora appare soprattutto come un’alleanza tattica e disegnando un nuovo assetto di sicurezza regionale.

Questa l’agenda potenziale della «grande coalizione » di cui avremmo bisogno per pacificare il Medio Oriente e che dovrà intanto appoggiare Fouad Sinora in Libano e Abu Mazen a Gaza nelle rispettive e difficili prove interne. Ma che dovrà anche fare leva su governi arabi – Egitto, Giordania, Arabia Saudita – di cui vorremmo al tempo stesso promuovere una graduale evoluzione democratica.

L’alternativa è un Medio Oriente fuori controllo, caratterizzato dal declino dell’influenza americana, dall’ascesa dell’Iran come nuova potenza «imperiale», da un certo numero di «failed States» in preda a tensioni interne crescenti, dal consolidamento di attori sub-statali armati e appoggiati dall’esterno, dalla probabile decisione di paesi come l’Egitto e l’Arabia Saudita di avviare a loro volta programmi nucleari. Sarà possibile evitare che tendenze del genere – già parzialmente in atto – si consolidino, solo stabilizzando l’Iraq con il contributo dei paesi confinanti, stabilizzando il Libano e sottraendo alle forze fondamentali-ste il grande pretesto della questione palestinese. In questi anni si è sostenuto che la questione palestinese non fosse centrale. La tesi della diplomazia italiana, così come di larga parte della diplomazia europea, è opposta: risolvere la questione palestinese è semmai diventato più urgente.

Va considerata una priorità assoluta dei prossimi mesi. E conviene essere sensibili al giudizio di re Hussein di Giordania, secondo cui resta poco tempo a disposizione per la creazione di uno Stato palestinese; mentre il rischio, in assenza di un accordo israelo-palestinese entro il 2007, è di scivolare verso tre guerre civili parallele: in Iraq, nei territori palestinesi e in Libano. Nell’interesse di Israele, nell’interesse di una popolazione palestinese che vive da tempo una grave crisi umanitaria, ma anche nell’interesse della sicurezza regionale, dobbiamo quindi sostenere e incoraggiare un accordo di pace in tempi rapidi, fondato sull’esistenza di due Stati. La questione palestinese e cioè la lunga ingiustizia sofferta dai palestinesi e la sofferenza di quel popolo costituisce anche dal punto di vista simbolico la questione centrale del rapporto tra mondo arabo e Occidente. La causa palestinese è stata a lungo la bandiera e anche talora il pretesto sia di battaglie giuste che di movimenti estremistici o terroristici. Se vogliamo spezzare il sentimento antioccidentale e indebolire l’estremismo in tutto il Medio Oriente la via maestra è quella di affrontare con coraggio la ricerca di una soluzione rapida del conflitto israelo-palestinese. È anche evidentemente interesse di Israele accelerare la ricerca di una pace, dopo che la tragica esperienza del Libano e il caos a Gaza hanno dimostrato che una strategia unilaterale come quella pensata da Ariel Sharon non produce risultati.

Il ruolo della comunità internazionale, del Quartetto in particolare (USA, EU, ONU e Russia), è a mio giudizio chiaro: favorire la riuscita di un negoziato diretto fra le parti, superando la logica del «processo» permanente, che ha finito per snaturare la Road map, per entrare in quella della ricerca di un accordo di pace definitivo. Il che significa affrontare i nodi irrisolti delle frontiere dello Stato palestinese, del destino dei rifugiati palestinesi in tante parti del mondo arabo e dello status di Gerusalemme. Parallelamente, dobbiamo puntare a creare un contesto regionale più favorevole, che permetta di normalizzare i rapporti fra Israele e i suoi vicini.

La diplomazia italiana, così come quella europea, sta applicando le sanzioni all’Iran decise dal Consiglio di sicurezza dopo il fallimento del dialogo condotto dagli europei sui programmi nucleari di Teheran. Ma ritiene anche che, per modificare i comportamenti di due dei principali attori regionali, vada insieme tentata la strada di un coinvolgimento con-dizionato: riconoscimento delle esigenze di sicurezza di Israele, rinuncia all’appoggio dei movimenti fondamentalisti, contributo alla stabilità di Iraq e Libano. Se ci fossero sviluppi in questo senso, anche una conferenza internazionale sul Medio Oriente diventerebbe pensabile. La convinzione dell’Italia è di potere esercitare un ruolo utile, nelle dinamiche israelo-palestinesi in particolare, grazie anche ai suoi rapporti con le parti. In altri termini: siamo persuasi di potere contribuire a garantire la sicurezza di Israele senza sacrificare, ma anzi utilizzando i tradizionali rapporti di amicizia con il mondo arabo e palestinese. L’Italia ha le ambizioni e i margini di manovra che ho appena descritto nei fatti: le ambizioni di uno dei principali paesi europei particolarmente impegnato nel Mediterraneo e con relazioni diplomatiche diversificate; i margini di manovra di un paese che non avrà grandi strumenti di potenza, ma che ha certamente una expertise consolidata e apprezzata nel campo della gestione delle crisi e delle operazioni di peace-keeping. Come ovvio, lo schieramento di forze di peace-keeping, anche se a volte indispensabile, non sostituisce la strategia di politica estera; serve a rafforzarla. E nessuna politica estera nazionale avrà vera possibilità di incidenza senza iscriversi in un’azione collettiva europea.

Sbloccare l’Europa: l’Italia e la presidenza tedesca

L’Unione europea vive indubbiamente una stagione difficile, sul piano sia delle riforme interne che del processo di allargamento. Nei suoi primi mesi di attività, il governo italiano è in ogni caso riuscito a fare sentire la sua voce per sensibilizzare gli altri Stati membri sulla necessità di salvaguardare il core del Trattato di Roma, relativo alle riforme istituzionali dell’Unione. Questa è anche la condizione – la capacità di decidere – perché l’Europa possa avere una politica estera più efficace. Sul volet dell’allargamento ai Balcani e alla Turchia, siamo riusciti a esprimere una linea chiara, senza ambiguità, e che «pesa» all’interno dell’Unione. Abbiamo infatti operato affinché ai Balcani occidentali fosse conferma-ta la prospettiva europea (oltre a quella atlantica, confermata dalla ammissione di Belgrado nella Partnership for Peace al vertice di Riga della NATO) e perché il nodo irrisolto di Cipro non generasse una crisi irreversibile nei negoziati con la Turchia. Queste prime scelte compiute dall’Italia rispondono a una convinzione precisa: combinare integrazione e allargamento continua a rientrare negli interessi strategici dell’Europa.

L’essenza del Trattato costituzionale firmato a Roma nel 2004 resta indispensabile perché l’Unione allargata possa funzionare. Nessun accordo definitivo verrà credibilmente preso prima del 2008, dopo l’esaurimento del lungo ciclo elettorale che si aprirà in Francia nell’aprile prossimo. Ma dobbiamo compiere progressi concreti già con la presidenza tedesca, definendo – come propone di fare il cancelliere Angela Merkel – le tappe di un percorso che possa produrre un «patto» costituzionale per le elezioni europee del 2009. L’Italia darà tutto il suo appoggio a questo tentativo, che Berlino guiderà nei prossimi mesi.

Per l’Italia, così come del resto per i paesi che hanno già ratificato il Trattato del 2004 (18 su 27), «patto» significa un Trattato fondamentale (che si chiami o no costituzione è meno rilevante) che salvaguardi le riforme essenziali su cui gli Stati membri avevano già raggiunto un difficile accordo proprio a Roma. Le riassumo: la creazione di un ministro degli affari esteri, che presieda il Consiglio e faccia parte della Commissione; la designazione di un presidente stabile del Consiglio europeo; l’estensione del voto a maggioranza qualificata sulla base del principio della doppia maggioranza; l’introduzione di meccanismi di democrazia diretta e di un più chiaro sistema della ripartizione di competenze e delle fonti legislative; il conferimento di forza giuridica vincolante alla Carta dei diritti. Avremmo così salvato l’essenza del Trattato costituzionale: si tratterebbe di un «core Treaty» più che di un «mini-Treaty», secondo l’espressione di Nicholas Sarkozy.

Sbloccare il processo costituzionale permetterà all’Europa di restare aperta a nuove adesioni. Dopo l’inclusione di Romania e Bulgaria, i confini dell’Unione democratica dovranno progressivamente includere i paesi dei Balcani occidentali, a cominciare dalla Croazia e, in uno scenario più lungo e delicato, la Turchia. Questi dovrebbero essere i confini futuri dell’Unione europea – perlomeno per una fase prevedibile. Nelle altre direzioni, l’Europa dovrà invece sviluppare politiche di vicinato molto più credibili, anzitutto verso l’Ucraina, lo spazio ex sovietico, i paesi della riva sud del Mediterraneo.

È indubbio, del resto, che l’Europa riuscirà a rispondere alle sfide che ha di fronte – competizione economica e sicurezza – solo se non si chiuderà all’interno ma se riuscirà a proiettarsi e a competere sul piano globale. Questa è la svolta da compiere. Nel mezzo secolo scorso, l’Europa è stata costruita sull’integrazione interna, dal mercato unico alla moneta; nel prossimo mezzo secolo, l’Europa esisterà solo se saprà agire all’esterno.

Trasformare l’Europa in un attore strategico del sistema internazionale risponde al bisogno di costruire un sistema efficace di governo delle sfide globali. In questa logica, gli europei dovrebbero avere il coraggio di compiere insieme, nel prossimo decennio, scelte che oggi sembrano irrealistiche: unificare la loro rappresentanza nel Fondo monetario e nella Banca mondiale, agire a nome dell’Europa nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – secondo una prospettiva di valorizzazione in chiave europea dei seggi nazionali che l’Italia comincerà concretamente a costruire nel prossimo biennio – perseguire una politica comune dell’energia e definire un approccio unitario verso gli altri grandi attori, a cominciare dalla Russia vicina. Anche da quest’ultimo punto di vista, l’Italia intende appoggiare l’impostazione della presidenza tedesca: ridefinire la partnership strategica con la Russia, basandola su principi di reciprocità e di trasparenza.

In conclusione, l’Europa ha bisogno – per ripartire e per gestire un non facile adattamento alle sfide globali – di trovare un accordo sui nuovi contorni del progetto di integrazione: sulle regole di funzionamento interno e sui confini esterni.

Con l’aumento dei membri dell’Unione, dovrà aumentare anche la capacità di gestire differenze e diversità. È scontato che l’Europa funzionerà a più velocità; il punto è che vada nella stessa direzione. Lo scenario ideale, per lo sviluppo politico dell’Unione, è che un nucleo trainante di paesi – fra cui il nostro – faccia parte di tutte le forme di cooperazione o integrazione ulteriori: nelle politiche di sicurezza interna, ad esempio, nella politica estera e di difesa.

In una visione euro-idealista aggiornata, avremo un’Europa delle regole comuni e del mercato interno, che coinciderà con lo spazio allargato; e insieme avremo gruppi europei più ristretti, come del resto già avviene con l’euro. Gestire l’insieme di questo disegno, e insieme adattare le politiche economiche alle pressioni globali, non sarà facile; ma resta l’unico modo perché gli europei possano competere con successo nel mondo del XXI secolo.

L’agenda del 2007

I prossimi mesi metteranno l’Italia di fronte a non facili decisioni. Mi fermo brevemente su tre sfide importanti che ci attendono: gli impegni in Consiglio di sicurezza (CdS), la questione dello status finale del Kosovo, la problematica energetica nel duplice contesto europeo e del rapporto con la Russia. È una lista evidentemente non esaustiva. Al centro restano le sfide «permanenti» che ho già trattato (Medio Oriente ed Europa), mentre ne emergono di nuove, come la stabilizzazione della Somalia, rispetto a cui ci troveremo ad esercitare responsabilità particolari.

L’elezione dell’Italia a membro non permanente del CdS per il biennio 2007-08 è un evidentemente riconoscimento del ruolo del nostro paese sulla scena internazionale. Saremo chiamati, per i prossimi due anni, ad intensificare il nostro già notevole impegno per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, a prendere decisioni difficili sui dossier nucleari (Iran e probabilmente Corea del Nord) e insieme a fornire un contributo di idee alla riforma dell’ONU. L’Italia, come già anticipato, intende sfruttare le potenzialità di coordinamento offerte dall’articolo 19 del Trattato UE – offerte sulla carta, ma non valorizzate – per aumentare la concertazione con i partner europei. Il tentativo sarà di utilizzare il nostro seggio nazionale nel CdS anche per favorire posizioni comuni europee sui nodi della sicurezza globale. Condurremo anche una battaglia di principio sulla moratoria sulle pene capitali.

Sul Kosovo è di nuovo in palio la stabilità nei Balcani, così faticosamente conquistata in questi anni. Una soluzione dello status finale nei primi mesi dell’anno è nell’interesse di tutti, sia della maggioranza albanese, sia delle forze democratiche serbe, che non credo possano trarre vantaggio dal perpetuarsi di un problema che rischia di incancrenirsi e di ritardare l’avvicinamento di Belgrado all’Europa. Il raggiungimento di una soluzione condivisa sullo status del Kosovo – basata su una forma di indipendenza condizionata – è nell’interesse anche della comunità internazionale e dell’Italia, che non possono sostenere ad infinitum gli oneri di un protettorato che alla lunga rischia di produrre soltanto dipendenza e insoddisfazione da parte della popolazione locale. Infine, la questione energetica è troppo importante e vitale per l’Italia per non essere al centro della nostra agenda di politica estera del 2007. Abbiamo, negli ultimi mesi del 2006, fatto progressi sul piano della sicurezza degli approvvigionamenti, grazie alle nostre iniziative bilaterali (accordo ENI-Gazprom, accordi con la Sonatrach algerina). Ma è evidente che la tematica energetica non può essere gestita soltanto bilateralmente.

Saranno quindi determinanti gli appuntamenti della primavera del 2007 con il vertice dell’UE per l’adozione di un Piano d’azione energetico europeo, le iniziative in questo settore del G8 (con la presidenza tedesca), l’impostazione di un rapporto di maggiore fiducia tra l’UE e una Russia di cui preoccupano gli aspetti involutivi.

Conclusioni

Quanta politica estera deve e può fare un medio paese europeo che, come l’Italia, ha interessi non solo regionali ma anche globali? Il crollo dell’assetto bipolare, nel 1989, e la fluidità di un sistema internazionale per molti versi «anarchico», rendono meno automatiche di un tempo le scelte di politica estera. Esiste una maggiore libertà di azione, dimostrata dalle posizioni diverse assunte dai paesi europei – o dai successivi governi di uno stesso paese – rispetto all’intervento in Iraq. Ma aumentano anche le responsabilità nazionali. Fino al 1989, l’appartenenza alla NATO aveva permesso all’Italia di essere sostanzialmente un consumatore di sicurezza generata altrove, dagli Stati Uniti anzitutto, per concentrarsi sullo sviluppo economico. Dopo il 1989, i paesi europei, per avere sicurezza, devono anche contribuire a produrla, assumendosi oneri specifici. Mentre sfumano i confini fra sicurezza esterna e sicurezza interna; e mentre la politica estera diventa il filtro principale fra le grandi tendenze globali e la società italiana.

D’altra parte, nessun paese europeo può più pensare di difendere efficacemente i propri interessi solo con scelte nazionali. La ricerca di un giusto equilibrio fra impegni bilaterali e azione multilaterale è una prima condizione per una strategia di politica estera efficace. Convinzione dell’Italia è che un aumento del peso internazionale dell’Europa darebbe anche più forza alle politiche estere dei suoi singoli membri, e insieme permetterebbe di «socializzare» risorse scarse per il perseguimento di obiettivi comuni. Da questo punto di vista l’europeismo è al tempo stesso una scelta ideale e politica e una necessità. Così come un multilateralismo che funzioni presuppone un solido legame fra Europa e Stati Uniti, in grado anche però di rispettare e valorizzare il ruolo di altri attori che via via assumono un peso crescente sulla scena internazionale. Seconda condizione, per una politica estera efficace, è la coerenza fra obiettivi e strumenti. Rischio storico dell’Italia, nelle fasi di attivismo internazionale, è stato in genere il velleitarismo. Tale rischio può essere ridotto non solo definendo una scala di priorità limitate e realistiche – come ho cercato di indicare all’inizio di questo articolo – ma anche rafforzando gli strumenti a disposizione per conseguirle. Per l’Italia di oggi, alle prese con un ciclo certo non espansivo del bilancio pubblico, si tratta essenzialmente di razionalizzare le risorse a disposizione della politica estera, di riformare una parte degli strumenti (i prossimi due anni vedranno un serio tentativo di riforma della politica di cooperazione allo sviluppo) e di migliorare il coordinamento nella proiezione internazionale del paese. In un quadro fluido, e in cui spesso sembrano mancare riferimenti certi, diventa anche cruciale un giusto equilibrio fra realismo e idealismo: trovare la giusta miscela consente maggiore spazio di manovra rispetto alle due alternative estreme, entrambe troppo schematiche. E consente la creatività politica indispensabile per cogliere le opportunità senza trascurare la portata dei rischi.

Terza condizione è che l’azione internazionale di un paese goda di appoggio e consenso interno. La fine degli automatismi legati al bipolarismo hanno anche reso le scelte di politica estera sempre più esposte allo scrutinio delle forze politiche interne, dei parlamenti e delle opinioni pubbliche. Questo significa che il consenso bipartisan sulla politica estera – che in ogni caso la rende più solida – è sempre meno scontato. Mentre il dibattito pubblico sugli interessi e i valori, come componente vitale delle democrazie mature, investe ormai pienamente anche la sfera dell’azione internazionale di un paese.

Difendere all’interno le proprie scelte di politica estera, diventa quindi, per i singoli governi, una condizione chiave della propria stabilità. D’altra parte, solo quando credibilità interna e credibilità internazionale dell’azione di un governo si combinano, la politica estera poggia su basi solide. È l’occasione che si offre all’Italia di oggi, e che dovremo confermare con le scelte dei prossimi mesi.