Vi ricordate le riforme?

Di R. C. Domenica 02 Marzo 2008 17:40 Stampa

Per quasi 25 anni, dalla costituzione della Commissione bicamerale Bozzi in avanti, l’esigenza di riformare le istituzioni italiane è stata al centro del dibattito pubblico, dei programmi di governo e dell’agenda delle principali forze politiche del paese (e spesso anche delle forze minori, come la Lega). Oggi si ha l’impressione che la tensione intorno a questi temi sia improvvisamente calata. Poniamoci allora tre domande: perché le riforme istituzionali non sembrano essere oggi tra le priorità dell’agenda politica? Quali che siano le ragioni, è saggio accantonare questo tema, o non è oggi più che mai necessario affrontarlo? Se il tema deve essere affrontato, da dove ripartire per non rischiare l’ennesimo fallimento?

Sul primo punto, l’impressione è che la difficoltà a far ripartire il dialogo sulle riforme, dopo il referendum del 25 e 26 giugno 2006, abbia più di una causa. Prima di tutto, l’esito stesso del referendum: il centrosinistra ha gioito per lo scampato pericolo, e adesso almeno una parte della coalizione sembra lasciarsi tentare dall’idea di una (lunga) pausa di riflessione, evocata dal presidente della camera. Il centrodestra non ha ancora metabolizzato una sconfitta che ha messo in discussione l’asse fondamentale con la Lega e sembra più che altro preoccupato di impedire che l’attuale maggioranza riesca dove esso ha fallito.

In secondo luogo, pesa nelle valutazioni delle forze politiche il ricordo di una lunga stagione di fallimenti (o presunti tali), che ha generato scetticismo nella possibilità stessa di riformare le istituzioni italiane, unitamente a un giudizio non positivo – o talvolta decisamente negativo – ull’unica riforma di ampia portata che sia andata in porto: la trasformazione della forma di Stato mediante l’assunzione di un modello federalista, con la riforma del Titolo V della seconda parte della Costituzione. Dai giornali sembra di capire – ed è il terzo argomento contra – che vi sia chi, nell’alleanza di centrosinistra, guarda con preoccupazione all’ipotesi di una ripresa del dialogo sulle riforme. Un dialogo che potrebbe determinare convergenze tra singole forze della maggioranza e dell’opposizione, mettendo a rischio la tenuta del governo o addirittura creando i presupposti per un cambio di maggioranza.

Vi è infine un quarto argomento – tutto interno alle componenti riformiste del centrosinistra – che suona più o meno così: dopo la vittoria del 1996 abbiamo sperimentato (in campo istituzionale, ma non solo) i limiti di un riformismo senza popolo. Oggi dobbiamo evitare di ripetere quell’errore, rovesciando le priorità: il rinnovamento del quadro politico-istituzionale, prima che per le riforme approvate in parlamento, deve passare per la nascita di un nuovo, grande Partito Democratico, e per un analogo processo (si spera) nel campo opposto.

Vediamo allora quali controdeduzioni si possono opporre agli argomenti sin qui illustrati, e se per questa via si possa giungere a dare risposta alle domande sul «se» riprendere il cammino delle riforme e sul «come» ripartire.

Tanto per cominciare, il referendum non aveva ad oggetto la necessità delle riforme, ma una particolare proposta di riforma, sostenuta dal (solo) centrodestra e che aveva come «piatto forte» la cosiddetta devolution, ovvero, agli occhi della maggioranza degli italiani, la rottura dell’unità nazionale e il rischio di una divisione della nazione in cittadini di serie A e di serie B. Questa era, per gran parte dell’opinione pubblica, la posta in gioco, e ciò ha fatto premio su altri aspetti assai più seduttivi e ampiamente sbandierati, come la diminuzione del numero dei parlamentari e il (presunto) rafforzamento dei poteri del premier. Gli italiani, dunque, si sono in primo luogo opposti ai contenuti della riforma e la prima, ovvia lezione da trarre è allora molto semplice: le future proposte di riforma, per avere successo, dovranno avere contenuti profondamente diversi. Mai più, quindi, una riforma che metta radicalmente in discussione l’unità nazionale.

L’altra ragione della schiacciante vittoria del no al referendum può essere ravvisata nel rifiuto di una riforma ampia e pervasiva, che investiva l’intera seconda parte della Costituzione, varata dalla maggioranza senza e contro l’altra parte del paese. Questi due elementi – ampiezza della riforma e imposizione a maggioranza – si rafforzano a vicenda nel suscitare l’opposizione dei cittadini. Lo dimostra il fatto che nel 2001 il referendum popolare, che pure si tenne a pochi mesi dalla vittoria elettorale di Berlusconi, confermò la riforma varata dal solo centrosinistra quando era maggioranza. La ragione è che quella riforma esprimeva un’esigenza largamente diffusa anche nell’elettorato di centrodestra, era stata appoggiata dai «governatori» delle regioni di centrodestra e recuperava parte dei contenuti su cui, al termine dei lavori della Commissione per le riforme presieduta da D’Alema, si era registrata la convergenza di parte dell’opposizione. Ma anche che era una riforma ben più circoscritta, che non stravolgeva l’impianto della Costituzione né l’intero assetto istituzionale della Repubblica. Quello che indubbiamente si poteva considerare un limite della riforma, contribuì invece a determinarne il successo, come conferma la mobilitazione dell’elettorato che, in occasione del referendum del 2001, fu decisamente inferiore a quella dello scorso giugno. La seconda lezione che si può trarre dall’esito della consultazione referendaria (anzi, delle due consultazioni) è, allora, che le riforme si fanno, se possibile, ad ampia maggioranza, ma anche che i cittadini italiani sembrano preferire puntuali interventi di aggiornamento e messa a punto della Costituzione, rispetto all’idea della «grande riforma » complessiva e pervasiva. In altre parole, nel paese non c’è il sentimento di una crisi delle istituzioni tanto ampia e traumatica da giustificare l’apertura di una fase costituente. E questo suggerisce anche di lasciar cadere, nella fase attuale, le proposte che vanno nel senso della convocazione di una assemblea costituente – o, come sarebbe meglio dire, di una assemblea per la revisione della Costituzione, poiché dovrebbe essere a tutti evidente che il «fatto costituente», con il suo essenziale portato di tensioni, traumi e drammi è profondamente estraneo alla temperie e alla fase storica presente – e forse anche di una commissione per le riforme, in favore della ben più umile, ma per questo forse più sicura strada segnata dall’articolo 138 della Costituzione. Per quanto riguarda il secondo argomento, ovvero i numerosi fallimenti che hanno costellato venticinque anni di tentate riforme, bisogna intendersi.

La Commissione De Mita-Iotti non fallì in se stessa, ma fu messa nell’impossibilità di concludere i suoi lavori a causa dello scioglimento anticipato delle camere, travolte dalla crisi del sistema partitico e dagli scandali giudiziari. Quanto alla Commissione D’Alema, com’è noto, non solo essa non fallì, ma approvò, a larga maggioranza, un testo, a cui il leader dell’opposizione ritirò il proprio sostegno solo successivamente, per ragioni di ordi- ne più politico che istituzionale. Parte del lavoro compiuto da quella Commissione confluì poi, come si è ricordato, nella riforma del Titolo V. In molti, è vero, giudicano anche questa riforma un mezzo fallimento, adducendo come principale argomento l’elevata conflittualità tra lo Stato e le regioni. In realtà, fatta la tara dei ricorsi alla Corte costituzionale puramente pretestuosi e di natura politica, nei quali si è particolarmente distinto il governo di centrodestra, e della conflittualità che inevitabilmente accompagna il passaggio dallo Stato centrale allo Stato federale – o fortemente regionalizzato, se si preferisce – rimane un testo certamente perfettibile e anche profondamente modificabile. E questo tuttavia, forse perché appare del tutto improponibile un semplice ritorno al passato, appare più un argomento a favore delle riforme che contrario. Senza dimenticare, poi, che molti dei problemi creati dal nuovo Titolo V si sarebbero potuti evitare, o almeno ridurre, se il governo di centrodestra, nella scorsa legislatura, non avesse precocemente abbandonato la strada dell’attuazione del federalismo, imboccata con la legge La Loggia, lasciando persino cadere diverse deleghe ivi contenute e dedicandosi ad una nuova e radicale proposta di riforma. Con quale esito, abbiamo avuto modo di constatarlo. Non bisognerebbe poi trascurare che, pur non essendo mai andato a buon fine alcun tentativo di «grande riforma» complessiva della Costituzione, essa non è certo, oggi, quella del 1948, e questo anche a prescindere dalla riforma del Titolo V. Riforme di ambito più circoscritto e puntuale si sono succedute nel tempo e, si noti, sono state tutte approvate con la procedura dell’articolo 138 e accompagnate da consensi ampi: dalla riforma dell’immunità parlamentare alle disposizioni in materia di concessione di amnistia e indulto, dalla revisione della forma di governo delle regioni all’introduzione dell’autonomia statutaria per le regioni a statuto ordinario, dalla costituzionalizzazione dei principi del giusto processo al voto degli italiani all’estero, dal rafforzamento delle previsioni in materia di pari opportunità alla riforma degli statuti delle cinque regioni ad autonomia speciale, oggetto, com’è noto, di legge costituzionale. Senza contare, al fuori dell’ambito strettamente costituzionale, l’elezione diretta di sindaci e presidenti di provincia e, soprattutto, le modifiche della legge elettorale per l’elezione di camera e senato. Questi interventi, letti contestualmente, non disegnano di per sé un quadro di ampia riforma delle istituzioni?

Allora forse, anche in questo caso, l’insegnamento che i successi e i fallimenti del passato ci consegnano, non è tanto la frustrazione di ogni tentativo e la sfiducia che ne consegue, quanto semmai l’opportunità di procedere un passo alla volta, scegliendo via via le questioni, o i gruppi di questioni, che sono mature e su cui si registra maggior consenso, mettendo da parte per il momento l’ambizione della «grande riforma», per la quale forse non esistono le condizioni, ma anche – e qui si deve mostrare la statura della classe politica – avendo in mente un modello complessivo di modernizzazione dello Stato, nel quale i singoli interventi prendano posto un po’ alla volta come tessere di un mosaico. Questa impostazione può forse contribuire a sdrammatizzare il terzo argomento, ovvero il rapporto tra maggioranza di governo e «maggioranza delle riforme». Sarebbe sbagliato, e per certi versi paradossale, che il centrosinistra abdicasse alla propria missione riformatrice, sul terreno per sua natura più aperto al contributo dell’opposizione, per i timori circa la propria tenuta: quale altra strada può infatti percorrere una maggioranza composita e (in un ramo del parlamento) risicata, per riuscire a modernizzare il quadro istituzionale, se non quella che passa per la ricerca di più larghe intese? O veramente si pensa che il tanto celebrato «timone riformista » del centrosinistra possa affermare la propria leadership rinunciando in partenza a verificare nella sede a ciò deputata, e cioè in parlamento, la possibilità di dialogare con l’opposizione, o con una parte di essa, almeno sulle regole del gioco?

Certo, non si può escludere che questo provochi qualche fibrillazione all’interno della maggioranza, come è avvenuto nelle precedenti occasioni in cui si sono delineate intese trasversali: si pensi, ad esempio, alla vicenda dell’indulto. Anzi, può senz’altro essere opportuno che il governo, pur senza rinunciare ad esercitare l’iniziativa legislativa in materia di riforme, resti «un passo indietro», lasciando che il confronto parlamentare segua il proprio corso: una distinzione di piani, quella tra indirizzo politico e confronto sulle regole, che è peraltro connaturata al nostro istema costituzionale. Ma sarebbe illusorio sperare che, rinunciando a mettere in campo iniziative forti, si riesca a governare meglio e a contenere le forze centrifughe della maggioranza: vale spesso anche in politica una legge fisica ben nota ai ciclisti in base alla quale quanto maggiore è la velocità, tanto più è facile restare in equilibrio. Il surplace è, notoriamente, la posizione più difficile da tenere, specie se se si viene strattonati da una parte e dall’altra.

Il quarto e ultimo degli argomenti sopra ricordati, quello cioè che pone l’accento più sulla riforma dei soggetti politici (e, dunque, sul nuovo Partito Democratico) che sulla riforma delle istituzioni, appare come il più solido. Esso muove da un’analisi lucida, oltre che della storia delle principali culture riformiste italiane, anche dei limiti della precedente stagione di governo del centrosinistra. Una stagione di riforme – e di tentativi di riforma – impegnative e talvolta coraggiose, che tuttavia non sono riuscite a vivere e radicarsi nella società, che non hanno mobilitato consensi nel paese, e che persino a livello istituzionale hanno dovuto fare i conti con percorsi accidentati, privi di una forza politica e parlamentare di riferimento. Senza dubbio, questo è un formidabile argomento a favore della necessità di un nuovo soggetto politico, nel senso che il «riformismo dall’alto» in tanto si dimostra insufficiente, in quanto manca di un grande partito capace di incarnare l’asse politico di governo, di tenere saldo il baricentro della coalizione e di far vivere le riforme nella società: in altre parole, il riformismo senza popolo è anche (ed è stato, nell’esperienza italiana) un riformismo senza partito. È naturale allora, e politicamente opportuno, che oggi si ponga l’accento sul rinnovamento del quadro politico come condizione essenziale per il successo dell’azione di governo. Tuttavia, non si tratta di invertire il paradigma, riordinando le priorità (prima la riforma dei soggetti politici e poi la scrittura di nuove regole), quanto piuttosto di cogliere la reciproca essenzialità – e dunque l’auspicabile contemporaneità – dei due processi.

Per fuggire un errore, infatti, non si deve cadere nell’errore opposto. Se l’identità di un partito è data innanzitutto, come si ritiene, dalla sua funzione, sarebbe paradossale che il nuovo partito rinunciasse, proprio nella fase in cui è chiamato a definire se stesso e la propria funzione, a proporre al paese un progetto di modernizzazione nazionale, di cui la riforma del quadro istituzionale è parte essenziale. Rischieremmo di passare, altrimenti, da un riformismo senza partito, a un partito senza riformismo.

E ciò vale, mutatis mutandis, anche per lo schieramento avverso: non avremmo fatto un grande passo avanti se domani si confrontassero in Italia due forze politiche ampie, ciascuna delle quali fosse tuttavia priva di una chiaro progetto di modernizzazione degli assetti istituzionali del paese.

E non ci si riferisce soltanto alla necessità di ripristinare un sistema elettorale almeno tendenzialmente maggioritario, senza il quale sarebbe oggettivamente più difficile riorganizzare il sistema partitico intorno a due grandi soggetti unitari. Del resto, negli anni Novanta fu proprio la modifica della legge elettorale – forse impropriamente, ma con indubitabile efficacia – a consentire quel tanto di modernizzazione della forma di governo e di semplificazione del quadro politico che abbiamo conosciuto e che la riforma elettorale del centrodestra ha cercato di cancellare. Ci si riferisce invece al cuore del problema, cioè all’ampio dibattito sull’identità culturale del nuovo partito. Un dibattito che, se non vuole essere pretestuoso e vuole evitare le secche dell’astrazione e dell’ideologismo, dovrebbe ancorarsi a un presupposto «realistico»: l’identità culturale di un soggetto politico, se non si riduce a speculazione intellettualistica, non è altro che la sua funzione storica appresa in concetti. Una funzione, beninteso, che è tanto data, quanto autonomamente definita: lungi, cioè, da ogni determinismo. E pur tuttavia una funzione storica inserita nel vivo di un processo, non lineare, di sviluppo e modernizzazione del paese, di cui la modernizzazione del quadro politico-istituzionale è insieme parte essenziale ed esigenza insopprimibile: la definizione di questa funzione in termini di proposta politica è essenziale all’identità del nuovo soggetto almeno quanto la decisione sulla sua collocazione internazionale e forse più della riflessione sull’alchimia delle culture politiche tradizionali. Anche perché solo una proposta politica innovativa è in grado di mobilitare quelle energie che sono essenziali alla costruzione di un nuovo soggetto, a cominciare dalle giovani generazioni, le quali forse si appassionano più facilmente al futuro che non al dibattito, pur importante, sulle culture democratiche e riformiste del nostro paese. Riforma dei soggetti politici e riforma delle istituzioni sono insomma aspetti complementari di un medesimo processo di innovazione politica, e senza un autentico slancio riformatore in campo istituzionale il nuovo partito avrebbe rinunciato in partenza a un pezzo della sua identità. Le considerazioni svolte sin qui, in particolare sulle riforme e sui tentativi di riforma degli ultimi venticinque anni e sull’esito dell’ultimo referendum confermativo, dovrebbero non solo consentire di rispondere positivamente alla domanda sul «se» delle riforme istituzionali, ma anche, almeno nelle intenzioni di chi scrive, fornire qualche indicazione sul «come». Esse sembrano suggerire l’opportunità di prendere le mosse dalle «riforme possibili», quelle cioè della cui urgenza tutti o quasi sono convinti e sulle quali, pertanto, si può registrare la convergenza di buona parte dell’opposizione.

Va detto subito che la riforma dell’articolo 138, prevista nel programma dell’Unione per mettere la Costituzione al riparo dalla volontà di maggioranze politiche contingenti, non è sembrata riscuotere (per fortuna), almeno sino a questo momento, una tale ampiezza di consensi. Occorre infatti riflettere a lungo prima di «ingessare» la Costituzione, introducendo ulteriori aggravi procedurali in una procedura che il costituente del 1948 volle insieme garantista e moderna, dando prova di grande saggezza ed equilibrio. Tanto è vero che, in quasi sessant’anni, nessun «colpo di mano» è andato a buon fine, e anche quando la sola maggioranza parlamentare è riuscita a modificare profondamente e ampiamente la Costituzione, come nel caso del Titolo V, ciò è stato possibile per l’esistenza di un consenso nel paese che andava ben al di là di quella maggioranza.

A giudicare dal primo scorcio di legislatura, sembra invece che vi sia tra le forze politiche un consenso assai ampio sulla necessità di porre nuovamente mano, per correggerla e completarla, proprio alla riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione: è di qui, allora, che vale forse la pena di ripartire.

Si tratta in parte di dare attuazione, con legge ordinaria, a quello che la Costituzione già prevede, a cominciare dal federalismo fiscale, che nei cinque anni di governo del centrodestra (e della Lega) è rimasto lettera morta.

L’attuale governo ha dichiarato di voler procedere con decisione nell’attuazione dell’articolo 119 (il quale, si noti, non veniva modificato neanche dal tentativo di riforma del centrodestra) e anche la finanziaria per il 2007 contiene qualche spunto interessante. Si tratta di un’urgenza reale, se si vuole cogliere il duplice obiettivo di responsabilizzare regioni ed enti locali rispetto agli obiettivi generali di finanza pubblica e, al contempo, di metterli in condizione di finanziare integralmente le funzioni loro attribuite, mediante l’autonomia di entrata e di spesa e attraverso la compartecipazione al gettito erariale riferibile al loro territorio. Del resto, gli stessi contrasti tra governo ed enti locali, che si ripropongono ormai ad ogni finanziaria, confermano l’urgenza di un intervento che, tra l’altro, avrebbe il pregio di far entrare il federalismo nelle tasche dei cittadini, mettendoli in condizione di giudicare i servizi offerti in cambio dei tributi che sono loro imposti.

Sempre in termini di attuazione di norme costituzionali vigenti, questa volta attraverso i regolamenti parlamentari, si pone la questione relativa all’articolo 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001 (la stessa che riformava il Titolo V). Questo articolo, in un contesto di bicameralismo perfetto in cui manca un luogo istituzionale di mediazione tra lo Stato e il sistema delle autonomie (a meno di non considerare esaustivo il sistema delle Conferenze), stabilisce quanto meno che i regolamenti parlamentari possano prevedere la partecipazione di rappresentanti delle regioni e degli enti locali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali: anche questa previsione è rimasta lettera morta, il che, sia detto per inciso, non è davvero un grande contributo alla costruzione di quel federalismo leale e cooperativo che tutti, a parole, invocano.

Ma naturalmente si tratta anche di sottoporre a verifica lo stesso Titolo V, alla luce dell’esperienza maturata nei primi anni di applicazione e della giurisprudenza costituzionale che, nel frattempo, si è andata formando. Da questo punto di vista, sarebbe utile approfondire il programma di riforme istituzionali della grosse Koalition, contenuto nel cosiddetto patto di coalizione (Koalitionsvertrag), che lo scorso luglio si è concretizzato in un primo, ampio intervento di modifica del Grundgesetz, la legge fondamentale tedesca: sia perché, com’è noto, il sistema federale che in Germania si è sentito il bisogno di riformare aveva servito, solo pochi anni fa, da modello per la riforma del Titolo V, sia perché alcuni dei problemi che lì hanno cercato di risolvere, ad esempio abolendo la Rahmengesetzgebung (che, a dispetto del nome, è assai più vicina alla nostra legislazione concorrente di quanto non lo sia la konkurrierende Gesetzgebung, che invece è stata mantenuta), presentano non poche analogie con quelli che hanno accompagnato i primi passi del nostro Titolo V. È noto infatti come buona parte del contenzioso che ha contrapposto Stato e regioni abbia tratto origine dal meccanismo della legislazione concorrente, dall’oggettiva difficoltà a determinare, in alcuni casi, la nozione di principi fondamentali, la cui determinazione è riservata allo Stato, e dal ricorso agli elenchi di materie ai fini del riparto delle competenze legislative. A questo si può aggiungere una riflessione sulla necessità di restituire alcune materie (se l’impianto per materie venisse mantenuto) alla competenza legislativa esclusiva dello Stato – un esempio su tutti, l’energia – e sull’opportunità di una clausola di salvaguardia ispirata alla tedesca Erforderlichkeitsklausel, che consenta l’intervento dello Stato quando siano in gioco imprescindibili esigenze unitarie, magari limitandolo alla definizione di obiettivi e procedure. Sono aspetti problematici che sarebbe sbagliato pretendere di risolvere sbrigativamente, ma rispetto ai quali esistono probabilmente significativi margini di miglioramento oltre che, come si diceva, le condizioni per un confronto costruttivo tra maggioranza e opposizione. È difficile dire se questo approccio pragmatico e gradualista possa condurre a ridiscutere finalmente il bicameralismo perfetto, non per complicare ulteriormente il procedimento di adozione delle leggi, come faceva la riforma del centrodestra, ma completando il disegno federalista mediante la distinzione tra una camera che esprime l’indirizzo politico e approva le leggi, e un’altra nella quale si realizza la mediazione dell’interesse nazionale con quello delle regioni e delle autonomie, ma che non ha l’ultima parola sulla generalità delle leggi. Tuttavia, se anche il dialogo sulle riforme dovesse limitarsi alle «sole» questioni appena ricordate, o a poche altre di portata analoga, ciò costituirebbe, di per sé, una grande prova di maturità del bipolarismo italiano e un contributo di non poca importanza alla modernizzazione istituzionale del paese. Speriamo, allora, che l’Unione veda in questa sfida una componente non secondaria della propria missione e che il centrodestra, ora che è stata approvata la finanziaria, smetta di stare sulla sponda del fiume aspettando che passi il cadavere del governo, per sedersi finalmente al tavolo delle riforme.