I confini «civici» dell'Europa unita

Di Mario Zucconi Domenica 02 Marzo 2008 20:43 Stampa
Nella vecchia Europa a Quindici, le incertezze e insicurezze emerse da una intensa fase di sviluppi istituzionali, quali la moneta unica, l’allargamento ad Est e lo stesso, ambizioso tentativo di costringere venticinque paesi in un’unica cornice costituzionale, negli ultimi due anni hanno trovato un punto di coagulo principale nell’opposizione a e anche accuse verso l’allargamento – tra quegli sviluppi, evidentemente, il più immediatamente misurabile. Non ha aiutato il fatto che l’accesso dei paesi ex comunisti sia arrivato in una fase di stagnazione economica nella gran parte dell’Europa a Quindici
La «stanchezza dell’allargamento» Nella vecchia Europa a Quindici, le incertezze e insicurezze emerse da una intensa fase di sviluppi istituzionali, quali la moneta unica, l’allargamento ad Est e lo stesso, ambizioso tentativo di costringere venticinque paesi in un’unica cornice costituzionale, negli ultimi due anni hanno trovato un punto di coagulo principale nell’opposizione a e anche accuse verso l’allargamento – tra quegli sviluppi, evidentemente, il più immediatamente misurabile. Non ha aiutato il fatto che l’accesso dei paesi ex comunisti sia arrivato in una fase di stagnazione economica nella gran parte dell’Europa a Quindici (il vertice dell’Unione del giugno 2005 risultava particolarmente polemico e rancoroso, con la parte più consistente del bilancio tornata a favorire vecchi interessi precostituiti, ossia gli agricoltori francesi e le regioni povere della Spagna). Né ha aiutato che la coesione istituzionale degli europei venisse gravemente compromessa dalla politica mediorientale dell’amministrazione statunitense. In due anni dall’allargamento, le accuse di social dumping e di concorrenza sleale nella tassazione delle imprese rivolte ai nuovi membri sono andate solo intensificandosi. Alle incertezze politiche derivate dal passato, si è sommata la pressione di una politica ancora aperta a nuovi, futuri accessi. E, siccome gli effetti di stabilità politica di lungo periodo prodotti dall’allargamento sono meno percepibili, al momento, delle centinaia di migliaia di operai polacchi o rumeni già immigrati nella vecchia Europa, risulta più pagante, politicamente, unirsi alla protesta contro l’allargamento che non spiegare l’importanza strategica, presente e futura, di tale politica.

Naturalmente, quelle resistenze alla politica di allargamento hanno motivazioni diverse: vanno dai pregiudizi culturali a preoccupazioni più concrete e tecniche sulla capacità di assorbimento istituzionale. Confini non limitati geograficamente, si teme, determinano una sorta di effetto domino: dopo la Romania vorrà entrare l’Ucraina (già fortemente appoggiata dalla Polonia), e così in altri casi. Va ricordato qui che preoccupazioni analoghe (tralasciando le resistenze basate su pregiudizi storici e culturali) venivano avanzate anche prima dell’allargamento a Est e si riferivano al possibile antagonismo fra due pressioni politiche coesistenti: quella all’allargamento e quella all’approfondimento istituzionale, con quest’ultima vista, quanto meno, come precondizione della prima. Quali che siano le motivazioni che li sostengono, gli argomenti contrari all’allargamento non sono mai stati particolarmente complessi. In qualche modo ricordano la fisica di un palloncino, che ha una certa elasticità, ma se vi si immette troppa aria il palloncino non c’è più. Sicuramente, con il previsto allargamento alla Turchia, si immagina che il palloncino scoppi. L’Europa unita viene data come una costante, e i nuovi accessi come unica variabile. E l’elasticità massima dell’Europa è definita in termini di geografia politica tradizionale. Nella mancanza di chiarezza, per l’opinione pubblica, circa il progetto europeo e la natura stessa che l’Europa ha acquisito, la richiesta principale diviene quella di limitare i confini possibili. Nella stessa logica, il prolungarsi della Turchia oltre il Bosforo e verso l’Asia centrale è quello che esclude questo paese, molti sostengono, dal poter far parte dell’Unione (mentre per il distacco di Cipro dall’Asia deve valere ancora, evidentemente, la sua annessione attuata dalla Gran Bretagna all’indomani della prima guerra mondiale).

Le pagine che seguono offrono una critica di quegli argomenti a cominciare dall’analisi troppo statica della natura dell’Unione su cui poggiano. Innanzi tutto, si sostiene, la geografia non è mai stata un criterio fisso, determinante per i passi successivi dell’Unione. Piuttosto, nel passato, la crescita di questa istituzione è avvenuta per ragioni funzionali e in risposta a sviluppi storici di particolare importanza. Sia guardando al passato e sia al presente, poi, è fondamentale riconoscere come la natura dell’Unione abbia subito una evoluzione in relazione, da una parte, con lo stesso processo di allargamento e, dall’altra, in relazione a dinamiche di ordine globale. Pur rimanendo ampiamente aperto il problema delle capacità istituzionali dell’Unione di fronte al processo di allargamento, si cercherà qui di chiarire in quali termini, oggi, quel problema vada posto.

 

I limiti funzionali dell’allargamento dell’Europa Il riferimento geografico all’Europa, come condizione per l’accesso alla Comunità/Unione, è presente nei trattati, da quello di Roma al recente (e non ratificato) Trattato costituzionale. Tuttavia, si diceva, non è la geografia il fattore che ha condizionato o stimolato sia l’origine dell’Europa unita negli anni Cinquanta, sia le sue successive espansioni. Quella condizione è solo stata richiamata, in alcuni casi, in appoggio a considerazioni politiche e culturali più importanti, come nel caso della domanda di accesso del Marocco respinta dal Consiglio europeo del dicembre 1997 (Consiglio che, al contrario, ammise come possibile la candidatura della Turchia). Piuttosto, le condizioni e gli stimoli che hanno determinato le principali fasi di crescita dell’Unione sono sempre stati eminentemente politici: riposte a sviluppi storici e a modifiche del quadro internazionale in cui i principali paesi europei si inserivano. La geografia è sempre rimasta una condizione ipotetica e astratta.

Val la pena ricordare che gli stessi primi richiami al concetto di Europa si sono sempre avuti in un contesto appunto funzionale, di esigenza di mobilitazione politica: papa Pio II (Enea Piccolomini) che chiama a raccolta «la nostra Europa cristiana» per liberare Bisanzio dai turchi. E, come ha documentato lo storico Iver Neumann anni fa, è soltanto in base all’identificazione di un «altro» (il più delle volte i turchi, appunto, dal Quindicesimo secolo in poi) che l’Europa riusciva a definirsi come identità specifica.[1]

Nei decenni della guerra fredda, con il processo di unificazione già avviato, la linea di demarcazione Est-Ovest risultava molto più cogente, nel determinare il futuro europeo, di qualunque richiamo alla geografia comune (pur in presenza di primi, limitati quadri istituzionali comuni con i paesi dell’Est europeo), mentre molto più intensa era la comunanza di valori e di norme con l’altra parte dell’Atlantico e la stessa rete di istituzioni che legava le due sponde di questo oceano. L’accesso di Grecia, Spagna e Portogallo, negli anni Ottanta, assieme all’ancoraggio politico dei singoli paesi, serviva ad un consolidamento complessivo sempre di questa sponda della comunità atlantica.

Ancora dopo il 1989, pur in presenza di una fortissima gravitazione dei paesi del Centro e Centro-Est europeo verso l’Unione europea e dei primi programmi di aiuti da parte di questa istituzione a supporto della transizione democratica in quei paesi, rimaneva difficile anche solo ipotizzare la loro integrazione nell’Unione. Il primo programma di intervento europeo, PHARE (Poland-Hungary: Assistance for Recostructing their Economy, del settembre 1989, poi esteso a Bulgaria, Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania) si limitava a premiare la conversione verso l’economia di mercato e un regime politico caratterizzato da pluralismo, elezioni politiche e rispetto dei diritti umani. Se poi nella fase successiva, a partire dall’agosto 1990, l’Europa comunitaria offriva a quei paesi ex comunisti degli Accordi di associazione, tuttavia, alla fine del relativo negoziato, la Commissione respingeva ancora la richiesta di includere, nel testo, un qualunque riferimento ad un possibile, futuro accesso istituzionale. Molto più limitati perfino dell’accordo del 1963 con la Turchia (che prevedeva la costituzione di un’unione doganale e parlava di accesso della Turchia come possibile punto di arrivo finale), per l’Europa comunitaria quegli accordi dovevano essere un processo fine a sé stesso e con un traguardo finale che non andava oltre la creazione di una zona di libero scambio.

Sono state piuttosto, come si accennava sopra, le pressioni derivanti da sviluppi storici successivi a far accettare in Europa l’utilità di integrare quei paesi nell’Unione. Incalzata dalla domanda di accesso proveniente dai paesi ex comunisti (nel settembre 1991, il primo ministro ungherese Jozef Antall definiva l’accesso all’Unione una «questione di vita o di morte» di fronte al Parlamento europeo), l’Unione si apriva a tale possibilità per la prima volta con il Consiglio europeo di Copenhagen del giugno 1993. Successivamente definiva dettagliatamente le procedure di accesso con la sua «Agenda 2000» del 1997.

Le date qui sono particolarmente importanti. Indicano, infatti, che l’evoluzione della posizione europea avviene sopratutto nel contesto della crisi jugoslava, della guerra in Bosnia e delle fortissime pressioni istituzionali, umanitarie e finanziarie (alcune decine di miliardi di euro, si è calcolato) prodotte da quelle crisi sulla vecchia Europa. Al contempo, è dalla scoperta della capacità trasformativa della propria forza gravitazionale che l’Europa unita individua una strategia ampia di stabilizzazione del suo contesto regionale. Il 1997 è quindi l’anno in cui si decide l’inizio di negoziati formali con sei paesi aspiranti-membri.

E se la crisi del Kosovo, nel 1999, costituisce un’altra esperienza drammatica per la vecchia Europa (per le stesse pressioni già descritte, per l’incapacità di risolvere il problema senza gli Stati Uniti e per la pesantezza degli strumenti con cui questi intervengono), particolarmente indicative, per questa analisi, sono le iniziative prese all’indomani di quella crisi. Ad Helsinki, a dicembre, si decide l’apertura del negoziato con altri sei paesi (paesi spesso in condizioni ben più problematiche della serie precedente). Alla Turchia si riconosce per la prima volta lo status di paese «candidato». Già durante l’estate, l’Unione europea lancia un Piano di stabilità per l’Europa Sud-orientale (relativo al rapporto con la regione balcanica nel suo complesso e alla cooperazione intraregionale) e un Processo di stabilizzazione e associazione (PSA, come strumento di rapporto bilaterale) volti a intensificare i rapporti con, e la dipendenza politica ed economica dei Balcani dall’Unione. Queste iniziative costituivano un passo avanti importante rispetto a precedenti, limitate risposte e, fin dall’inizio, conterranno implicitamente una promessa di inclusione istituzionale. La stessa promessa verrà poi resa più esplicita al Consiglio europeo di Santa Maria Da Feira, nel 2000, e quindi con l’impegno successivo di una «prospettiva europea» per i paesi partecipanti a quei programmi. È sempre a seguito della crisi del Kosovo che, assieme ad altre importanti riforme nel campo della politica estera e di sicurezza, la Commissione viene attrezzata con uno specifico Commissario all’allargamento.

Specialmente indicativo della necessità sentita di una risposta europea, sempre nel contesto delle successive crisi nei Balcani, è il trattamento di casi particolarmente problematici, casi che, senza la pressione creata da quelle crisi, sarebbero stati esclusi dall’ipotesi di integrazione. La Slovacchia, per esempio, doveva seguitare fino all’integrazione, nel 2004, a ricevere giudizi fortemente critici da parte della Commissione e del Parlamento europeo (trattamento delle minoranze, uso della tortura, e altro). Tuttavia, l’ipotesi che una forte interazione fosse più condizionante che non l’esclusione favoriva, fin dalla metà del decennio scorso, un atteggiamento aperto dell’Unione nei suoi confronti. «Nonostante vi siano seri problemi (in Slovacchia) con il funzionamento delle istituzioni democratiche, che sono totalmente inaccettabili per noi» veniva suggerito in un dibattito al Parlamento europeo nel 1996, «dobbiamo aprire i programmi e gli strumenti finanziari comunitari alla partecipazione slovacca, con l’obiettivo di un approfondimento e rafforzamento del rapporto e del terreno politico comune fra quel paese e l’Unione europea».[2] In modo simile, nel 2001 la Macedonia fu il primo paese cui venne concesso l’Accordo nel quadro dello PSA, con il suo simbolismo di primo passo verso l’integrazione, come incentivo alla soluzione delle divisioni etniche e pur di fronte alla protesta di parte della burocrazia comunitaria per l’inadeguatezza economica e politica del paese ad assumere i relativi impegni.

«L’Europa non è mai esistita,» diceva Jean Monnet, a pochi anni da una guerra scoppiata in Europa e da cui erano scaturite le peggiori devastazioni della storia umana, e mentre si accingeva, appunto, a proporre una prima architettura di Europa sopranazionale. E Robert Schuman collegava la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio ad un obiettivo molto immediato e concreto: «La solidarietà di produzione così creata mostrerà che ogni guerra fra la Francia e la Germania diviene non solo impensabile, ma materialmente impossibile».[3] Né l’uno né l’altro dei due dirigenti francesi vedeva l’Europa comunitaria come un progetto territoriale, ma piuttosto come una risposta funzionale a sviluppi e problemi storici precisi.

Analogamente, l’integrazione di otto paesi ex comunisti è avvenuta in risposta ad un profondo cambiamento del sistema internazionale, al vuoto lasciato dal ritiro di Stati Uniti e Unione Sovietica e alla instabilità che ne è conseguita. La mancanza di tensione sistemica produceva violenza prolungata e su larga scala in Jugoslavia, ma anche, più in generale, lasciava privi di una direzione di sviluppo principale le politiche interne di tutti quei paesi. L’ancoraggio all’Unione appariva, alle nuove dirigenze, l’unica soluzione. All’inizio degli anni Novanta, il presidente ceco Václav Havel ammoniva che le nuove democrazie dell’Est stavano «scivolando in una situazione incerta di vuoto politico, economico e di sicurezza», e che «senza adeguati rapporti esterni, è in pericolo la stessa esistenza delle nostre giovani democrazie.»[4] In sintesi, sono stati quegli sviluppi politici, al Centro e all’Est del continente europeo, con le loro possibili conseguenze rese evidenti dal dramma dei Balcani, a determinare i nuovi confini dell’Europa unita (e quelli del prossimo futuro). La geografia, ovviamente, rimaneva, ma come contiguità geografica e non come fattore programmatico.

Infine, se il tentativo dell’Unione di derivare dall’esperienza recente una strategia generale volta a creare stabilità nelle regioni circostanti non ha prodotto risultati sostanziali (nel marzo 2003 la Commissione presentava una comunicazione al Consiglio e al Parlamento con il titolo «Wider Europe: New Neighbourhood» da cui nascevano successive iniziative) questo si deve, oltre a debolezze intrinseche di quella politica, alla diminuita urgenza prodotta dagli eventi storici e al confondersi di progetti e visioni del futuro nella nebbia fitta della «stanchezza dell’allargamento». E qui, ovviamente, è opportuno suggerire che il bisogno di capacità dirigenziali nella politica europea cresce quanto minore è la pressione e l’urgenza immediata degli eventi storici.

 

I limiti della capacità di assorbimento dell’Unione Concepire come spazialmente aperti i confini dell’Unione, come sembra indicare l’analisi fin qui fatta, esaspera ulteriormente un problema che ha accompagnato l’Europa comunitaria in tutte le fasi di allargamento: quello della capacità di assorbire nuovi Stati membri. Da sempre la necessità di adeguamento dei processi decisionali collettivi (e, per alcuni, di una più sistematica integrazione) è proposta come pregiudiziale ad ulteriori ampliamenti dell’Unione. La bocciatura nei referendum francese e olandese del Trattato costituzionale ha bloccato alcune innovazioni rilevanti proprio in considerazione dei problemi legati all’allargamento.

Anche in questo caso, le argomentazioni offerte non sono particolarmente sofisticate: si riferiscono, principalmente alla difficoltà di governo dell’Unione via via che il numero dei suoi componenti cresce (a trentacinque con i paesi dei Balcani). Le pagine che seguono, mentre contestano che si possa proporre un antagonismo netto tra ulteriore allargamento e limiti dei meccanismi dell’Unione, cercano di qualificare i termini di questa questione e di porla nel contesto più complesso delle dinamiche della globalizzazione. Il problema, va detto subito, non è soltanto un problema numerico, ma anche della natura (dinamica) dell’Unione e dei contenuti di quel governo dell’Unione.

Per cominciare va qualificato il carattere specifico con cui è nata l’Unione. Se non è possibile, infatti, ricondurre tale nascita a basi etniche o persino di storia istituzionale comune (a parte quando lo si fa sta bilendo una alterità, come successo, ancora una volta, con la Turchia, nel dibattito sul Trattato costituzionale),[5] l’Europa unita si sviluppa piuttosto su basi civiche, cioè di adesione volontaria a norme positive. Essa nasce dall’esclusione dei singoli ethnos, delle singole individualità e interessi strettamente nazionali, in circostanze storiche contingenti caratterizzate dal peso e condizionamento della partecipazione degli Stati Uniti agli affari europei.

Tale contesto sistemico chiarisce anche il carattere specifico, «civico» appunto, dell’Europa unita. Il potere preponderante (militare ed economico) degli Stati Uniti, mentre l’inizio della guerra fredda restringe il «menù» della politica internazionale dei singoli Stati è, al contempo, fattore di diluizione delle vecchie problematiche inter-europee, fattore di coesione principale del blocco occidentale e fattore condizionante delle regole sulla cui base l’unità europea matura (si potrebbe dire che tocca agli europei, in questa fase, adeguarsi ad una sorta di acquis dettato dagli Stati Uniti e collegato a vari interventi, dagli aiuti in materiale bellico al Regno Unito durante la guerra, al Piano Marshall e ad interventi successivi). John Foster Dulles spiegava perfettamente l’effetto unico della massa critica statunitense sulle vecchie problematiche inter-europee in un’audizione al senato sulle ragioni della partecipazione statunitense al Trattato Nord Atlantico (aprile 1949). L’alleanza con gli Stati Uniti, notava il futuro segretario di Stato, «sovrapporrà al Patto di Bruxelles (Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda e Lussemburgo) un’altra unità occidentale che è più grande e più forte, in modo tale che esso non debba temere l’inclusione della Germania».[6]

In altri termini, è il contesto atlantico che permette di superare le vecchie problematiche della sicurezza, di sorpassare i particolarismi nazionali e formare un’unità politica sulla base di principi e norme tendenzialmente universali. Questa sua natura (che pure, notano molti studiosi, produrrà poi un problema di deficit democratico nelle decisioni collettive) fa dell’Unione un contenitore particolarmente adatto all’integrazione di nuovi membri. Lo stesso allargamento, poi, e i nuovi membri cristallizzeranno l’Unione in questa sua natura (pur se, in questa nuova fase, cambieranno o si attenueranno i ruoli specifici di alcuni dei vecchi membri come avvenuto, ad esempio, con il venir meno del ruolo propositivo francese e di quello trainante dell’asse franco-tedesco) con il risultato che tali membri andranno poi a pesare dalla parte della «stanchezza dell’allargamento».

In secondo luogo, e particolarmente in relazione alla fase più recente dell’allargamento, va riconosciuto il rapporto fra la natura specifica dell’Unione e le dinamiche della globalizzazione: la sua consonanza con molte delle norme, regole e principi attorno a cui si organizzano i rapporti internazionali, a partire da quelli commerciali, in un’arena di ampiezza globale (massima liberalizzazione e regolamentazione dei mercati, democratizzazione politica, pressione verso il rispetto dei diritti umani ecc.). E se è vero che tali dinamiche convivono con altre di segno anche opposto (il peso del petrolio, in primo luogo, che contrasta la pressione verso la democratizzazione), pur tuttavia le norme e regole suddette rimangono quelle maggiormente condizionanti delle regole della globalizzazione.

Anzi, per più ragioni (divario tecnologico e scientifico e altro), mentre la fine della guerra fredda dava nuova vitalità al rapporto tra le due parti dell’Atlantico (compresa, qui, l’intera area OCSE), sono stati i nuovi attori del mercato mondiale a doversi adeguare alle stesse regole fondamentali su cui si basavano i rapporti interni all’Unione e quelli atlantici. Come indicava alcuni anni fa l’economista Joseph Quinlan, «alla fine del Ventesimo secolo, l’interdipendenza economica di Stati Uniti ed Europa era più grande che mai. Entrambe le parti sono entrate nel Ventunesimo secolo come attori chiave della crescita e della prosperità mondiali e come architetti principali del sistema basato su regole che governa il commercio globale».[7]

L’effetto più importante della recente fase di allargamento dell’Unione va quindi visto nel contesto dei processi di globalizzazione, con i dieci paesi ex comunisti integrati nell’Unione che vengono a pesare dalla parte, appunto, dell’Unione e della Comunità atlantica nel processo di consolidamento delle regole della globalizzazione, mentre essi stessi si adeguano a quelle regole. E, vedere in questo contesto dinamico il problema dell’allargamento, ci aiuta a meglio chiarire in che termini oggi vada vista la capacità di assorbimento dell’Unione – il problema stesso, si diceva sopra, di come si evolvono i contenuti di quel governo dell’Unione.

In primo luogo – e a monte dello stesso accesso all’Unione – va evidenziato come l’integrazione dei nuovi membri non vada affatto a sovraccaricare i processi decisionali unitari per tutta la fase di armonizzazione all’acquis precedente all’accesso – pur essendo questa la fase di maggior pressione sul sistema politico e istituzionale del singolo nuovo membro. Il paese aspirante membro non negozia con i membri esistenti nessuna norma: se debba esserci o no, per esempio, la pena di morte nei codici penali. La Turchia ha abolito la pena di morte in ogni circostanza, tra il 2003 e il 2005, semplicemente come parte dell’armonizzazione normativa che condiziona l’accesso.

A valle dell’accesso, non c’è dubbio che l’allargamento appesantisca i processi decisionali. E tuttavia, mutano anche i compiti del governo dell’Unione via via che essa condiziona normativamente l’interazione politica ed economica al livello globale (finché questo avviene, naturalmente). In altre parole, mentre l’Unione crea attorno a sé una nuova realtà e un nuovo contesto internazionale, alcune sue competenze, dimensioni e compiti si dissolvono in quella nuova realtà (ampliamento dell’Organizzazione mondiale del commercio ecc.).

Infine, un rapido accenno al problema dell’accesso della Turchia (al momento, incastratosi come una spina in gola di un’Europa che stenta a ritrovare la sua strada) aiuta a chiarire sia quanto discusso qui sopra e sia lo stesso problema di quel caso di accesso.

Riprendendo alcuni concetti discussi nelle pagine precedenti, va riconosciuto come la Turchia attualmente graviti verso l’Unione per ragioni analoghe a quelle dell’Est europeo: per ragioni sistemiche (minor capacità di ancoraggio all’Occidente da parte degli Stati Uniti dopo la fine della guerra fredda), ragioni che, nel caso turco, si aggiungono ad altre storiche e di evoluzione politica recente (l’evoluzione recente della democrazia in Turchia che ha come carburante essenziale l’aspettativa di integrazione nell’UE).

Il secondo aspetto di questa gravitazione verso l’Unione riguarda, anche per il caso turco, il rapporto con i processi di globalizzazione: i dettami esterni dell’armonizzazione normativa rendono più indolore l’adeguamento, appunto, a quei processi (in una prospettiva forte di integrazione nell’Unione, l’abolizione della pena di morte è accettata come costo di quel rapporto esterno e i partiti che la sostengono non sono costretti a pagare un prezzo, internamente, per tale decisione).

Ma la Turchia presenta anche un dilemma, attualmente, all’Europa della «stanchezza dell’allargamento». La sua posizione geografica, infatti, fa di quel paese un attore decisivo nel consolidamento delle regole della globalizzazione. Un ancoraggio solido all’Europa, infatti, lo porterebbe a pesare dalla parte della democratizzazione nella regione (una Turchia membro dell’Unione creerebbe importanti pressioni sui sistemi politici dei paesi vicini). Ma le regioni circostanti la Turchia sono anche quelle da cui si sviluppano dinamiche alternative sempre di ordine globale, soprattutto per il peso del petrolio e il sostegno che esso fornisce ai regimi autocratici. Specialmente preoccupante, pertanto, è uno scenario di definitivo disancoraggio della Turchia dall’Europa e di un suo possibile andare a pesare dalla parte di quella dinamica alternativa. Non è azzardato suggerire che la direzione in cui si consolidano le regole della globalizzazione nel prossimo futuro dipende, in maniera sostanziale, dall’evoluzione positiva o negativa del rapporto fra Turchia e Unione europea.



[1] I. B. Neumann, Uses of the Other: The East in European Identity Formation, University of Minnesota Press, Minneapolis 1999.
[2] European Parliament, Debates of the European Parliament, 4-477/6, Lussemburgo, 11 marzo 1996.

[3] Citato in J. B. Duroselle, Storia diplomatica dal 1919 ai nostri giorni, LED, Milano 1998, p. 440.

[4] Citato in A. G. V. Hyde-Price, The International Politics of East Central Europe, Manchester University Press, Manchester 1996, p. 230.
[5] Se non è questa la sede per una discussione approfondita sulle «radici dell’Europa», vale la pena qui notare il livello paradossale talvolta raggiunto dagli argomenti a sostegno delle radici comuni. Polemizzando con la posizione favorevole espressa dalla Commissione sul negoziato con la Turchia, il 6 ottobre 2004 il quotidiano «Frankfurter Allgemeine Zeitung» si appellava alle differenze culturali di quel paese e al senso di «affinità» che gli europei avrebbero sempre provato «anche quando sono stati in guerra fra di loro».
[6] US Senate, Committee on Foreign Relations, The North Atlantic Treaty, GPO,Washington 1949, p. 1.
[7] J. P. Quinlan, Drifting Apart or Growing Together? The Primacy of the Transatlantic Economy, Center for Transatlantic Relations, Johns Hopkins University-SAIS, Washington 2003.