Introduzione all'Afghanistan

Di Nicola Minasi Domenica 02 Marzo 2008 20:48 Stampa
Se l'Afghanistan è il cimitero degli eserciti e la comprensione è una conquista, seppure mentale, l’Afghanistan si sottrae anche a questa forma di controllo. Del resto per qualcuno «l’Afghanistan è lo specchio del mondo»1 e del mondo riassume tutte le contraddizioni che, in definitiva, lo rendono incomprensibile, o almeno inaccettabile. Queste note, più che risposte sul futuro dell’Afghanistan, cercano di fornire alcuni dati di fondo su tale complessità. Le soluzioni non sono facili, ma riconoscere la molteplicità degli interessi in gioco è indispensabile per evitarne il continuo scontro e annullamento reciproco. Il primo sguardo è sull’Afghanistan, con un riferimento al Pakistan, il secondo alla comunità internazionale.

Dati essenziali Non esistono dati precisi sulla popolazione afghana e le Nazioni Unite prevedono di condurre un censimento nell’estate 2007. Si conosce però la suddivisione etnica. I più numerosi, circa 10 milioni di persone, sono i pashtun, che vivono anche in Pakistan e parlano il pashto. Afghanistan, in realtà, significa «terra dei pashtun» perché in dary, la versione locale del persiano, afghan significa proprio pashtun e i pashtun hanno sempre governato sull’Afghanistan fin dal Settecento (escluso un breve intervallo negli anni Novanta del secolo scorso). Non ha fatto eccezione il regime talebano, composto in grande maggioranza da pashtun, che aveva stabilito il proprio centro di potere a Kandahar, sede storica dell’aristocrazia tribale. La seconda etnia, stimata in circa 5 milioni di persone, è quella tagika, da taj, «misto» in persiano: i tagiki discendono infatti da gruppi arabi che appresero il persiano. Loro lingua è appunto il dary, la seconda lingua ufficiale del paese. Gli hazara sono la terza etnia. Il nome in persiano significa «mille», perché la tradizione vuole che Gengis Khan, venuto dalle steppe mongole nel Duecento, avesse consentito a mille dei suoi soldati di stabilirsi in Afghanistan. Difatti gli hazara hanno tratti mongolici e sono diversi sia dal tipo somatico iranico dei tagiki, sia da quello dei pashtun. Oltre alla diversità fisica, gli hazara hanno anche la specificità di essere sciiti, collegati alla tradizione religiosa iraniana, al contrario delle altre etnie che sono costituite prevalentemente da sunniti.2 Quarta etnia è quella uzbeka, giunta in Afghanistan dall’Asia centrale. Uzbeko era Babur, il re che nel Cinquecento non solo costituì il primo regno afghano con capitale a Kabul, ma che dilagò addirittura nell’attuale Pakistan e nell’India settentrionale per creare il primo regno Moghul, dinastia musulmana durata fino a metà del Settecento. Questo fatto da solo dà un’idea di quanto, nella mentalità pakistana e indiana, l’Afghanistan sia cruciale per gli equilibri regionali. Esistono poi altri gruppi (ad esempio turkmeni, baluchi e addirittura arabi), ma pashtun, tagiki, hazara e uzbeki sono senz’altro i gruppi principali.

Questa elencazione mostra chiaramente la natura molteplice e disgregante dell’Afghanistan: molteplice per i contatti e gli influssi dalle regioni vicine; disgregante perché ogni gruppo può trovare uno o più «sponsor» all’e- sterno, costituendo alleanze trasversali che travalicano i confini e riproducono su scala ridotta, ma con pari tensione, scontri e confronti di portata mondiale, creando prospettive di potere per i singoli che sappiano sfruttarle.

L’Afghanistan di oggi L’Afghanistan di oggi è il risultato prima della sconfitta militare del regime talebano e poi degli accordi di Bonn del dicembre 2001, che hanno portato al potere i gruppi di opposizione che, con maggiore o minore intensità, avevano combattuto i talebani. La vittoria sui talebani, tecnicamente, è stata riportata dall’Alleanza del Nord, l’insieme di milizie tagike – comandate da Ahmad Shah Massoud (ucciso da due falsi giornalisti arabi il 9 settembre 2001) – uzbeke e hazara, più altre componenti minori. Questi gruppi, più quelli della resistenza antisovietica in esilio, sono poi confluiti nei negoziati di Bonn. Questi non hanno però reinsediato un governo legittimo in esilio e, soprattutto, non hanno incluso i talebani: non si è trattato quindi di accordi di pace, ma di un accomodamento politico che, sotto la spinta della caduta militare talebana, ha privilegiato alcuni gruppi su altri.3 Gli accordi di Bonn, inoltre, hanno tracciato il percorso da seguire: un’assemblea (lloya jirga)4 d’emergenza per creare un governo interinale, un’assemblea costituente e infine elezioni parlamentari e presidenziali (il presidente Hamid Karzai è stato eletto nell’ottobre 2004, mentre le elezioni dei rappresentanti al parlamento si sono tenute nel settembre 2005).

Qual è stato l’esito di questo percorso? Un parlamento bicamerale e un sistema di governo centralizzato, in una repubblica presidenziale dove capo di Stato e di governo coincidono. Storicamente è una novità, perché l’Afghanistan ha sempre avuto un capo di Stato separato dal primo ministro. Ma è una novità anche l’idea di Stato centralizzato erogatore di servizi: l’Afghanistan infatti è sempre stato governato come un sistema feudale-tribale, dove le varie tribù difendevano e sfruttavano il territorio mantenendo legami più o meno forti con il governo centrale.

Il sistema uscito dal processo di Bonn è quindi nuovo e senza precedenti ed è difficile farlo funzionare anche perché la popolazione, piegata da anni e anni di guerra, preferisce ricorrere ad un’organizzazione di tipo tradizionale.

Ma il problema fondamentale è stato come ristabilire il rapporto tra pasthun e le altre etnie. Mentre statisticamente i pashtun hanno sempre avuto la maggioranza dei posti di governo, a Bonn è stata presa la decisione di riconoscere un rapporto paritario tra i pashtun e gli altri gruppi etnici. La sensazione emersa è che i pasthun siano stati puniti per avere generato il movimento dei talebani. Nella traduzione pratica ciò ha finito per sovrarappresentare il gruppo dei tagiki, che oggi contano il primo vice presidente, il capo delle Forze armate, il capo dei servizi, il presidente della camera bassa in parlamento, che è anche capo dell’opposizione, e vari ministri. Si tratta in fondo dell’ultima vittoria di Massoud, che è riuscito a fare vincere ai suoi una partita storica a costo della propria stessa vita.

Il presidente Karzai tuttavia è un pashtun: gli equilibri tribali sono stati salvati? Forse sì, e in effetti Karzai è stato eletto presidente proprio con i voti dei pashtun, dopo essere stato indicato come loro capo dall’ex re Zaher, deposto nel 1973 da Daoud e rifugiato in Italia.5 Tuttavia Karzai, pur appartenendo ad un’importante tribù, non è considerato unanimemente espressione della più alta aristocrazia pashtun (anche se suo padre è stato attivo nella resistenza e ha pagato con la vita la lotta contro i talebani) e per i pashtun discen- denza e onore sono questioni fondamentali. Oltre a dovere svolgere le funzioni di capo di Stato e capo di governo, Karzai ha quindi anche il problema di dimostrare di essere un degno capo dei pasthun, senza però potere governare come i suoi predecessori. Nel contesto tribale questo minaccia concretamente il sostegno al governo, e nel ritorno dei talebani nel Sud molti leggono, oltre che l’incapacità del nuovo Stato di guadagnarsi il rispetto della popolazione, anche una questione interna alle tribù pashtun, che si sentono sostanzialmente tradite dal nuovo processo politico e dall’assenza di progetti di sviluppo.

Il ruolo del Pakistan In tale contesto va interpretato anche il continuo scontro, per lo meno verbale e politico, tra Pakistan e Afghanistan e più precisamente tra Karzai e il presidente Musharraf. Il Pakistan, nel confronto con l’India, cerca da sempre un retroterra sicuro in un Afghanistan debole. Durante la lotta antisovietica degli anni Ottanta, il governo pakistano è riuscito a creare le condizioni per esercitare sul proprio vicino un’influenza decisiva, servita poi a organizzare con l’Occidente il jihad contro gli invasori. Ma la questione afghano-pakistana inizia ben prima, nel 1893, quando il generale britannico Durand fissa il confine tra l’Afghanistan e le Indie Orientali dividendo il Pashtunistan. Quando, il 14 agosto 1947, il Pakistan proclama la propria indipendenza, esso eredita come confine la linea Durand e l’Afghanistan, all’ONU, è l’unico paese ad opporsi perché gli afghani, in particolare i pashtun afghani di impostazione nazionalista, non hanno mai riconosciuto quel confine e ancora oggi, con toni più o meno accesi, lo considerano inaccettabile. Tuttavia si tratta tuttora di un confine relativo: lo varcano ogni giorno 30.000 persone e, collocato in un’impervia area montuosa, è di fatto incontrollabile. Le stesse aree pakistane al di là della linea Durand sono aree tribali con statuti speciali di autonomia (Federally Administered Tribal Areas, FATA), che hanno dato non pochi problemi ai governi pakistani dall’indipendenza in avanti, e prima ancora ai britannici. Aree abitate, appunto, dai pashtun. Fino al 2006, nel tentativo di controllare queste aree, il governo pakistano ha schierato 80.000 militari. Ma ne ha persi molti e, alla fine, ha preferito stabilire un accordo con i capi locali impegnandoli ad impedire l’accesso ai ter- roristi talebani. È sul fallimento di tali accordi, o sulle accuse di assistenza da parte del Pakistan alle fazioni talebane, che si concentrano le proteste da parte dell’Afghanistan. C’è però anche una dimensione tribale: di fronte ai difficili rapporti con i pashtun afghani, Karzai cerca di accreditarsi presso i pashtun pakistani. Da ciò la proposta di Karzai, avanzata durante un pranzo con Bush e Musharraf a Washington, nel novembre 2006, di convocare una lloya jirga transfrontaliera sui problemi tra le due parti. Si tratta tuttavia di una via mai tentata prima e può essere facilmente sabotata da una parte e dall’altra. Non può inoltre essere cogente per i due governi, perché non è riconosciuta da nessuna delle costituzioni dei due paesi. Nel migliore dei casi, quindi, la jirga non risolverà i problemi bilaterali.

Comunque una soluzione dei problemi interni dell’Afghanistan è impossibile senza un coinvolgimento in positivo del Pakistan e questo, a sua volta, dipende da un’azione dell’India per la stabilizzazione. Su tutto pesa la concorrenza indo-pakistana e ora anche il cresciuto ruolo dell’India sulla scena mondiale, a partire dall’accordo sullo sfruttamento dell’energia nucleare con gli Stati Uniti. Una cooperazione regionale che faccia dell’Afghanistan un «ponte terrestre» tra i paesi della regione, agevolando gli scambi e il passaggio di oleodotti, dipende in ultima analisi dalla volontà di tutti i vicini di non interferire e anzi collaborare alla crescita. Ciò presuppone anche la disponibilità dell’Iran, della Russia e della stessa Cina, che nell’Indukush ha 76km di confine con l’Afghanistan ed è il primo partner commerciale del paese. Sull’opportunità di tale approccio complessivo nessuno dubita, ma realizzarlo richiede una serie di interventi e un coordinamento davvero imponenti.

La comunità internazionale, dal processo di Bonn al «Compact» Come reagisce a tutto questo la comunità internazionale? Intanto con l’azione degli organismi internazionali sul campo: l’ONU con la sua missione in Afghanistan, UNAMA (UN Assistance Mission in Afghanistan), ma anche il G8, l’Unione europea e la NATO. Il problema è che, oltre agli organismi multilaterali, i singoli Stati giocano comunque un importante ruolo diretto, nel proprio interesse nazionale. La comunità internazionale non costituisce quindi un insieme coerente e questo influisce inevitabilmente anche sul modo d’agire delle Nazioni Unite.

Ciò vuol dire questo che il coordinamento è impossibile? No, ma che è estremamente difficile e oneroso. Con gli accordi di Bonn la prima risposta al problema della ricostruzione fu la distribuzione degli impegni fra i membri del G8. Gli Stati Uniti si assunsero la ricostruzione dell’esercito, la Germania della polizia, la Gran Bretagna la lotta al narcotraffico, il Giappone il disarmo delle milizie e l’Italia la (ri)costruzione del sistema giudiziario. È stato il cosiddetto «processo di Bonn». A questi attori si è poi aggiunta la NATO, che nel 2003 ha assunto la responsabilità della missione internazionale ISAF (International Security and Assistance Force): una forza per il mantenimento della stabilità che nel 2006 è giunta a coprire l’intero paese, sostituendo la coalizione Enduring Freedom, che sotto la guida degli Stati Uniti ha dato la caccia ai talebani e ad al Qaeda sin dal 2001.

Il giudizio sul processo di Bonn è ad oggi ancora difficile. Malgrado gli sforzi e gli aiuti investiti, in nessun settore si intravede ancora un risultato. L’esercito regolare non conta nemmeno metà degli effettivi e così la polizia. La coltivazione di oppio nel 2006 è cresciuta del 59%, dei gruppi armati illegali non ne è stato sciolto nemmeno uno (su un totale di circa 1.800) e il sistema giudiziario versa in condizioni ancora difficilissime. I motivi sono molti: prima di tutto, le risorse investite sono state insufficienti. In più i paesi coinvolti nel processo di ricostruzione hanno cercato di gestire ogni settore in proprio, senza un reale coordinamento e spesso in competizione fra loro. Infine, all’interno di ogni paese, singole agenzie ed enti hanno elaborato approcci diversi e sviluppare un’azione unitaria è diventato un vero problema. Ad esempio, l’ambasciata statunitense a Kabul conta più di trecento diplomatici di carriera e ben ventisei agenzie. In scala ridotta, il problema del coordinamento riguarda tutti gli altri Stati presenti in Afghanistan. Esistono approcci diversi tra civili e militari, tra esperti di politica ed esperti di sviluppo, tra personale a Kabul e personale nelle province e poi all’interno di ogni gruppo. Forse questo ricorda qualcosa: la frammentazione interna alla società afghana. E infatti gli esperti affermano che le fratture interne alla comunità internazionale rispecchiano quelle afghane e viceversa, in un gioco dove alleanze tattiche e strategiche mettono continuamente a dura prova il rapporto tra sviluppo, diplomazia e presenza militare.

In tale contesto nessun singolo attore, nemmeno gli Stati Uniti, può mutare il quadro in maniera unilaterale. Se c’è un’area al mondo dove il multilateralismo è una necessità è proprio l’Afghanistan. Ma il coordinamento ha costi di gestione molto alti e richiede la capacità di distinguere tra agende nazionali e obiettivi della ricostruzione che, se efficiente, dovrebbe accelerare tra l’altro la partenza degli stranieri.

Un elemento nuovo dell’intero quadro è stata la conferenza tenutasi a Londra dal 28 febbraio al 1 marzo 2006 per il lancio del cosiddetto Afghanistan Compact, un documento tra Afghanistan e comunità internazionale che individua gli obiettivi comuni per i prossimi cinque anni. Esaurita la fase di Bonn con le elezioni parlamentari, si è deciso di tracciare una mappa di sviluppo nell’ambito della sicurezza, dell’economia e della società, unendo afghani e stranieri sui vari obiettivi. Il Compact ha segnato anche l’inizio della Afghan Ownership, cioè della guida del processo di sviluppo da parte del governo afghano, con gli stranieri coinvolti quali partner. L’accordo è stato accolto con molto ottimismo, ma ha mostrato subito alcune difficoltà. Per completare nel dettaglio il piano di sviluppo il governo dovrebbe produrre una strategia complessiva in cui innestare gli aiuti internazionali. Ma i ministeri non hanno capacità di programmazione e gli stessi donatori non riescono a coordinare fra loro tutti gli interventi con ciascun ministero e in ogni settore. Di nuovo, anche con il Compact, il coordinamento è un problema serio.

Il «processo di Kabul» Il sorgere e morire di fori di coordinamento non si può in ogni caso comprendere senza considerare le personalità sulla scena in un determinato momento. Kabul, a suo modo, sta diventando una realtà cosmopolita dove si muovono centinaia di stranieri in interazione continua, con amicizie, interessi, vanità ed alleanze diverse, spesso separati dalla realtà circostante. È il «processo di Kabul», dove il continuo rimescolamento delle carte, dei funzionari, degli eventi, spinge ognuno a rivedere continuamente le proprie posizioni rispetto a quelle di tutti gli altri.

Buona parte di questi attori resta in Afghanistan per un periodo relativamente breve: uno o due anni, tranne rare eccezioni. Pochi parlano la lingua locale. Molti dei nuovi arrivati non hanno il tempo di ambientarsi nel nuovo contesto e non riescono ad andare oltre la lettura del romanzo «Il cacciatore di aquiloni». Eppure sono tutte persone chiamate da subito a prendere decisioni e posizioni per la propria organizzazione o per conto del proprio paese, magari ripetendo gli errori dei loro predecessori. Non è un giudizio sul valore dei singoli, ma un dato di fatto oggettivo.

Le misure di sicurezza per gli stranieri hanno inoltre eretto un muro con i cittadini locali. Tutti gli ambasciatori e la gran parte dei direttori delle agenzie internazionali devono muoversi con una scorta: entrare in un negozio o visitare una scuola può essere un problema. In maniera più o meno formale, vige per tutti il divieto di passeggiare: anche fare la spesa, per chi vuole pensarci da solo, può essere un’avventura notevole. L’Afghanistan e le sue tradizioni diventano così inafferrabili ai più: il venerdì vari mercatini allestiti nelle basi militari si affollano di stranieri che fanno un tuffo turistico nel paese in cui già vivono, ma da cui sono separati, e si accaniscono in contrattazioni fino all’ultimo dollaro per acquistare tappeti che, in definitiva, pagheranno almeno tre volte il loro valore. In queste condizioni un esercito di interpreti, impiegati locali e autisti diventano mediatori con un mondo in cui, tutto sommato, non si entra mai. È un problema concreto per gente responsabile di fondi, risorse e personale destinato alla ricostruzione di un paese che rischia di non conoscere adeguatamente. A causa di tali difficoltà assume poi un ruolo speciale la figura dell’esperto che abbia scritto o condotto a lungo ricerche sull’Afghanistan. Mentre in altre aree di crisi, ad esempio il Medio Oriente, esiste una certa distinzione tra mondo accademico e mondo politico, in Afghanistan capita che gli studiosi scendano nell’arena e siano incaricati di effettuare studi e consulenze, o gestire programmi. Ma subito rischiano di cadere in quel gioco di specchi e interessi che fa perdere la propria imparzialità e, in qualche modo, crea una frattura con il lavoro teorico. Raccordare il mondo degli stranieri e quello degli afghani è quindi fondamentale, per non continuare a parlare in parallelo lingue differenti e perpetuare quelle frammentazioni che, sia tra afghani che stranieri, rendono così difficile un coordinamento efficace.

Conclusioni L’ambasciatore Kenzo Oshima, in quel momento alla presidenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, al termine di una visita a Kabul nel novembre 2006, ha commentato: «Eravamo venuti con mille domande, ripartiamo con duemila domande». Di fatto, il punto di partenza per ogni operazione politica o di studio deve essere il riconoscimento della conflittualità intrinseca al sistema afghano: non solo tra etnie e fazioni, ma anche nella comunità internazionale. Esistono interessi in conflitto, posizioni diverse all’interno di ogni paese e interazioni complesse sulla stessa scena di Kabul. Il tutto, aggravato dal riattecchire degli scontri a Sud, rischia di fare perdere il controllo e portare ad un’involuzione in assenza di un colpo d’ala. Non c’è bisogno di essere pessimisti. Le scuole afghane sono oggi affollate come non mai, anche con tre turni al giorno. La domanda di istruzione indica che le famiglie vogliono investire nei figli e, non a caso, gran parte della campagna antigovernativa dei talebani nel Sud del paese è incentrata sulla distruzione delle scuole. La popolazione vuole crescere ma, lasciata in balia delle dinamiche distruttive conosciute finora, rischia di ricadere nell’inferno.

L’unico modo per uscire da questo ciclo è rafforzare la comunità internazionale, attraverso un coordinamento più forte che deve essere realizzato dalle Nazioni Unite, e aumentare la responsabilità del governo afghano. Strumento essenziale di tale strategia dovrebbe essere la creazione di fondi unici, trust funds, per l’azione nei vari settori (idrico, energetico, sanitario e così via). In tal modo, riducendo l’azione diretta dei singoli donatori e rafforzando l’azione coordinante delle Nazioni Unite, dovrebbe diminuire la conflittualità interna al sistema. Ciò dovrebbe facilitare anche un rapporto più dialettico con il governo afghano, che spesso riesce anche a dividere i suoi numerosi interlocutori. Del resto il governo, dopo la conferenza di Londra, ha il diritto e l’obbligo di fare uno sforzo per erogare servizi e produrre risultati: è cruciale che sia messo di fronte alle proprie responsabilità e sia premiato con aiuti e assistenza solo se mostra buona volontà nel contesto di una condizionalità positiva.

Sul piano internazionale è ovvio che nulla sarà risolto se i vari attori continueranno a sfruttare l’instabilità per ostacolare i propri avversari, dentro e fuori il paese. Anche qui il sistema deve creare incentivi per la cooperazione, riconoscendo i differenti interessi e tentando di armonizzarli tramite concessioni reciproche. Ognuno, agendo in Afghanistan, lancia un segnale ad altri Stati secondo delicati equilibri di potere al proprio stesso interno: esplicitare questi interessi ed equilibrarli quanto possibile deve essere il nuovo obiettivo della comunità internazionale, intesa nel senso più largo e alto del concetto. È necessario tuttavia evitare la creazione di nuovi organismi o duplicazioni, altrimenti la scelta di chi debba prendere parte alla ricostruzione diverrà una questione dirompente.

Serve infine uno sforzo rinnovato per sviluppare una vera pubblica amministrazione afghana. Uno Stato affidabile in Afghanistan non è mai esistito: formare una classe di amministratori responsabili, ben remunerati e difficilmente corruttibili è indispensabile anche per richiamare lo Stato alle proprie responsabilità. Sono tutti processi lunghi e costosi in termini di tempo, denaro ed energie, ma necessari, perché l’Afghanistan rischierà sempre diessere ostaggio degli interessi di qualche paese o dell’ambizione di singoli capi o fazioni al proprio interno. Il risultato non dovrebbe essere necessariamente la creazione di una democrazia modello, ma di uno Stato sufficientemente solido e indipendente per garantire un livello di vita e sicurezza decente alla popolazione. Idealmente anche i paesi vicini e il resto della comunità internazionale potrebbero trovare prospettive di commercio e di crescita, collaborando alla transizione della regione dall’attuale equilibrio sub-ottimale ad uno dove tutti possano trarre vantaggio dalla stabilità. Ma ciò richiede pazienza, disponibilità a negoziare e rinunce da parte di molti attori. Se l’Afghanistan è davvero lo specchio del mondo i risultati, riportati o mancati, saranno d’esempio nel bene e nel male per il resto del pianeta.

[1]Barnett Rubin, The Fragmentation of Afghanistan, Yale University Press, New Haven e Londra 2002.

[2] La loro principale provincia, un tempo chiamata Hazarajat, è quella di Bamiyan, sede dei famosi Buddha: curioso che la loro roccaforte corrisponda quindi ad uno dei più importanti luoghi del buddhismo, che attecchì in Afghanistan nel III secolo a.C., quasi a sottolineare la loro diversità.

[3] Oggi vari osservatori, afghani e internazionali (ad esempio il presidente della camera alta, il professor Sebghatullah Mojaddedy, o lo stesso Lakhdar Brahimi, inviato speciale del segretario generale dell’ONU prima sotto il regime talebano, poi durante e dopo gli accordi di Bonn), concordano che l’esclusione dei talebani dai negoziati sia stata forse un errore. Fatto sta che il tentativo di Bonn è stato di provare una ricostruzione dello Stato dall’alto, nell’assunto che il nuovo governo si sarebbe guadagnato il consenso popolare.

[4] «Lloya jirga» è un termine pashto che significa più o meno «grande assemblea ». Le «jirghe» sono incontri tribali del mondo pashtun, ma l’espressione «lloya jirga», intesa come riunione eccezionale, esisteva già sotto la monarchia di Amanullah, re del primo Afghanistan indipendente (1919-1929) e riguardava anche le tribù non pashtun.

[5] Zaher Shah fu il secondo re afghano a recarsi in esilio in Italia. Il primo fu Amanullah Khan, creatore dell’Afghanistan indipendente nel 1919. L’Italia strinse subito con lui un rapporto eccellente e fu anzi il primo paese dell’Europa occidentale (dopo URSS e Turchia) a stabilire relazioni diplomatiche, il 3 giugno 1919. Amanullah Khan regnò all’insegna dell’apertura e modernizzazione e, deposto nel 1929, scelse come destinazione l’Italia. Alcuni discendenti, come la principessa India d’Afghanistan, nominata nel 2006 ambasciatore per la cultura afghana in Europa, vivono tuttora in Italia.