John Kennedy, la presidenza e il Partito Democratico

Di Leopoldo Nuti Domenica 02 Marzo 2008 21:06 Stampa
John Fitzgerald Kennedy è stato di volta in volta definito come un politico idealista, visionario, pragmatico, cinico, privo di scrupoli, arrivista, freddo, calcolatore. La sua fortuna presso gli storici ha conosciuto oscillazioni profonde, dalle prime biografie entusiastiche di Arthur Schlesinger o Theodore Sorensen, alle critiche degli storici revisionisti degli anni Settanta e Ottanta come Thomas Reeves, fino ai giudizi più equilibrati di Herbert Parmet, Robert Dallek, Robert Giglio e altri che, pur sottolineando gli aspetti contradditori della sua personalità, concludono le loro analisi con un bilancio sostanzialmente positivo del suo mandato alla presidenza degli Stati Uniti.

John Fitzgerald Kennedy è stato di volta in volta definito come un politico idealista, visionario, pragmatico, cinico, privo di scrupoli, arrivista, freddo, calcolatore. La sua fortuna presso gli storici ha conosciuto oscillazioni profonde, dalle prime biografie entusiastiche di Arthur Schlesinger o Theodore Sorensen, alle critiche degli storici revisionisti degli anni Settanta e Ottanta come Thomas Reeves, fino ai giudizi più equilibrati di Herbert Parmet, Robert Dallek, Robert Giglio e altri che, pur sottolineando gli aspetti contradditori della sua personalità, concludono le loro analisi con un bilancio sostanzialmente positivo del suo mandato alla presidenza degli Stati Uniti.[1]

Sicuramente Kennedy fu un politico cauto e prudente, qualche volta sin troppo attento a non esercitare, se non con estrema accortezza, quel ruolo di leader che egli stesso aveva definito come il compito centrale del presidente degli Stati Uniti. Proprio perché il suo istinto pragmatico lo portava a rifuggire da prese di posizione che riteneva tanto astratte quanto rischiose sul piano politico, mantenne sempre una certa distanza nei confronti dell’ala più liberal del partito democratico, pur apprezzando la compagnia dei suoi esponenti e gli stimoli intellettuali che erano in grado di dargli. Forse una delle definizioni più riuscite della sua attività di uomo politico è quella che ne ha dato Herbert Parmet quando lo ha descritto, con una sintesi capace di evocare i molti aspetti contraddittori della sua personalità, come «un idealista razionale».[2]

All’interno del Partito Democratico americano, Kennedy fu a lungo guardato dagli esponenti principali dell’establishment come un personaggio relativamente poco affidabile. Per l’origine, innanzitutto: a molti leader del partito il figlio del vecchio Joe Kennedy, una figura discussa, politicamente ambigua e spesso aspramente criticata, appariva come l’incarnazione della spregiudicatezza paterna e sembrava farsi largo all’interno della vita politica degli Stati Uniti più per le grandi risorse messegli a disposizione dal padre che non per i propri meriti o per le proprie capacità. Anche quando, passato dalla camera dei rappresentanti al senato, il giovane Kennedy iniziò a mettersi in luce e a dimostrare qualità politiche e intellettuali non comuni, rimase nei suoi confronti una diffusa avversione di fondo. I liberal gli rimproverarono a lungo sia l’eccessiva cautela nel sostenere cause progressiste quali quelle dei diritti civili della popolazione nera del Sud, sia la lunga dimestichezza – sua e di tutta la sua famiglia – con il senatore McCarthy, a cui lo legava, tra l’altro, la comune origine irlandese. Le grandi personalità democratiche – dall’ex presidente Truman all’ex segretario di Stato Dean Acheson – sembravano perplesse a causa della sua eccessiva indipendenza di giudizio e criticavano l’eterodossia di certe sue prese di posizione, come quando, in un celebre discorso tenuto al senato nel 1957, attaccò duramente un alleato importante come la Francia, rimproverandole l’aspra repressione del movimento di indipendenza algerino.

L’apparato e i quadri intermedi, infine, disapprovavano la sua scarsa attenzione nei confronti della macchina clientelare del partito, alla quale Kennedy, giudicato troppo individualista, non sembrava né prestare la dovuta attenzione né contribuire in maniera adeguata.

La disciplina di partito, in altre parole, gli stava spesso stretta, e nel corso degli anni Cinquanta John Kennedy si impose all’attenzione dell’opinione pubblica americana e dei democratici confrontandosi sistematicamente con un orientamento che, se non sempre apertamente ostile, certo non gli era favorevole.

Paradossalmente, scrive di lui Theodore Sorensen, questo prodotto di una famiglia «insolitamente politica», proveniente da Boston, la più politica delle città americane, diceva di se stesso «di non considerarsi un politico tipico», e preferiva mantenere una certa distanza, se non talora ostentare una vera e propria insofferenza, nei confronti dei politici professionisti.[3] Anche la stessa campagna elettorale del 1960, che si concluse con la nomination in estate e con la conquista della Casa Bianca in autunno, fu condotta, almeno nella sua fase iniziale, contro l’establishment democratico, che sembrava preferirgli candidati più tradizionali come Hubert Humphrey, Adlai Stevenson o Stuart Symington. Kennedy invece si impose all’attenzione nazionale con le vittorie nelle prime tre primarie (New Hampshire, Wisconsin e West Virginia), e così facendo fu il primo candidato presidenziale a valorizzare le primarie come strumento per alimentare l’interesse dei media e del pubblico nei confronti di un candidato, fino a piegare l’orientamento del partito.

Se paragonato ad altri esponenti di spicco del Partito Democratico, Kennedy fu dunque sicuramente più individualista ed eterodosso, se non spregiudicato. A questo lo spingevano la sua formazione personale e soprattutto la sua visione del ruolo che il presidente degli Stati Uniti avrebbe dovuto assumere negli anni difficili che lo aspettavano. Cresciuto in un clima familiare che stimolava il coraggio personale e l’iniziativa individuale, Kennedy aveva a detta di molti suoi biografi una visione quasi eroica della presidenza e dei doveri che competevano a chi avesse occupato la Casa Bianca. Questa convinzione maturò in lui molto presto, come dimostra la sua presentazione del candidato democratico, Adlai Stevenson, alla Convenzione del partito nel 1956: «Stiamo per scegliere il capo della nazione più potente sulla terra, l’uomo che letteralmente terrà nelle sue mani il potere della sopravvivenza e della distruzione, della libertà e della schiavitù, del successo o del fallimento per noi tutti. Oggi noi scegliamo qui l’uomo che per i prossimi quattro anni guiderà, nel bene o nel male, i destini della nostra nazione e, in larga misura, del mondo libero».[4]

Una volta candidatosi egli stesso alla presidenza, questa concezione non poteva che rafforzarsi: spettava al presidente scuotere il paese dal suo torpore, prepararlo a sostenere le sfide ignote che la Nuova frontiera degli anni Sessanta gli avrebbe posto di fronte, superare prima di tutto nel suo intimo le difficoltà per poter poi trascinare dietro di sé l’opinione pubblica. La presidenza era quindi vista come il centro vitale del sistema politico di pesi e contrappesi concepito dai padri fondatori, «un capo dell’esecutivo che sia il centro vitale dell’azione nel nostro sistema di governo»: l’equilibrio dei poteri tra i vari organi del governo poteva infatti generare un’eccessiva staticità e bloccarne l’azione, e solo la figura del presidente era in grado di imprimergli il dinamismo necessario per metterlo in movimento. Come dichiarò nel gennaio 1960 al National Press Club quando annunciò la sua intenzione di candidarsi alla presidenza, i tempi e gli uomini «domandano un uomo capace di agire come comandante in capo della ‘grande alleanza’, non semplicemente un contabile che senta di aver svolto il proprio lavoro quando i conti sono in pari. Richiedono che sia il capo di un partito responsabile, non uno che salga così al di sopra delle dispute politiche da essere invisibile; un uomo che formuli le scelte legislative e combatta per loro, non un osservatore casuale del processo legislativo. Oggi una concezione ristretta della presidenza non basta più».[5]

Questa visione della presidenza era in qualche modo assecondata da uno spostamento del baricentro del sistema politico americano a favore dell’esecutivo, uno spostamento reso quasi inevitabile dalla crescita degli Stati Uniti al ruolo di potenza mondiale che sembrava richiedere una concentrazione crescente del potere nelle mani del presidente, e che sarebbe continuato negli anni fino a diventare con Richard Nixon quella «presidenza imperiale» criticata negli anni Settanta dagli stessi democratici.

Nell’accettare e anzi incoraggiare questa tendenza, Kennedy era quindi figlio della sua epoca, perché si rendeva conto del processo di trasformazione che la politica americana stava attraversando. A questa consapevolezza razionale, poi, Kennedy aggiungeva di suo un tocco personale quasi romantico (quella che Arthur Schlesinger definì la «mistica» della presidenza) nel sottolineare la solitudine dell’uomo che, posto al vertice del sistema, avrebbe potuto essere chiamato a prendere decisioni cruciali. Kennedy amava spesso citare la definizione della presidenza data da Harry Truman come «il lavoro più solitario del mondo», ma quale fosse la sua visione del compito che lo attendeva lo spiega ancor meglio un poemetto da lui recitato alla stampa alla vigilia della crisi dei missili a Cuba: «Bullfight critics ranked in rows/Crowd the enormous Plaza full/But only one is there who knows/And he’s the man who fights the bull».[6]

Quale spazio poteva avere, in questa auto-rappresentazione così accesamente individualista della politica e dei compiti del presidente, il Partito Democratico? A prima vista, Kennedy ne aveva una visione distaccata e disincantata, quasi ironica. Nei suoi discorsi pubblici sono frequenti i riferimenti divertiti e spesso pungenti alla litigiosità degli esponenti democratici, alla loro aspre diversità di opinioni, all’uso non proprio cristallino della macchina clientelare. Nel 1956, presentando il governatore Ribicoff alla Convenzione dei democratici del Massachussetts, Kennedy citava con divertita approvazione un brano di uno scrittore satirico di inizio secolo, Finley Peter Dunne, che già ai primi del Novecento descriveva il partito in termini non esattamente incoraggianti: «Il Partito Democratico non ha relazioni con se stesso. Quando vedete due uomini in cravatta bianca seduti in due angoli opposti, l’uno che mormora ‘traditore’ e l’altro che sibila ‘miscredente’, potete scommettere che sono due leader democratici che cercano di riunire il partito. Ci sono tanti democratici fuori dal partito quanti ce ne sono al suo interno, seduti sulla soglia pronti a riammettersi al suo interno ed estrometterne gli altri. Chi urla più forte vince».[7]

Questa divergenza di opinioni, così strettamente legata alla tradizione del partito, era aumentata in maniera preoccupante negli anni in cui Kennedy si era affacciato alla vita politica, al punto che alcuni storici parlano apertamente di due partiti nettamente separati all’interno della comune denominazione di democratici. Secondo James MacGregor Burns, alla vigilia delle elezioni del 1960 c’erano i democratici settentrionali, urbani, progressisti, attivisti che puntavano tutto sulla figura del presidente, e quelli rurali, meridionali, conservatori, sospettosi delle iniziative del governo, e che proprio per questo si sentivano rappresentati dal Congresso.[8] La corrente progressista prese il sopravvento dopo le elezioni congressuali del 1958, contribuendo a definire un’agenda politica molto avanzata per gli anni Sessanta, ma il partito restava profondamente spaccato su molte delle questioni più serie e problematiche.

Kennedy era conscio di questa profonda divisione e la cautela spesso mostrata nella sua azione politica da presidente rifletteva probabilmente questa consapevolezza. Tuttavia sembrava anche apprezzare, e persino ritenere utile, un certo grado di divergenza, se non proprio di litigiosità, all’interno del partito: nel 1954, sottolineando la presenza fra i democratici del Massachusetts di un gran numero di figure di spicco capaci di iniziative fortemente individuali, dotate di spirito critico e insofferenti della disciplina di partito, notava che «questi leader coraggiosi e pugnaci hanno tutti mantenuto la loro indipendenza individuale a dispetto di ogni tentativo di controllare i loro voti, le loro azioni e le loro menti. Una tale diversità può essere motivo di disperazione per il Democratic National Committee e per tutti coloro interessati nella facile elargizione clientelare (…). Ma non è fonte di disperazione o vergogna per i democratici del Massachusetts; al contrario, siamo fieri della nostra indipendenza e intendiamo mantenerla nonostante ciò che gli altri possano dire o scrivere di noi».[9]

Dalle sue dichiarazioni pubbliche come da quelle private, infatti, emerge anche una fierezza di fondo nel rivendicare la tradizione di indipendenza di giudizio tipica dei democratici, sia pure spinta anche fino alla riottosità. Solo da una vivacità politica e intellettuale portata fino alle estreme conseguenze e da un confronto il più aperto possibile poteva scaturire quella nuova leadership che Kennedy riteneva indispensabile: la nuova leadership «audace e vigorosa, dedita al partito e alla gente – uomini giovani, le loro menti fertili con nuove idee e fervide di un nuovo spirito» chiamata a contrastare un Partito Repubblicano inesorabilmente ancorato al passato.

«Questo nuovo Partito Repubblicano – notava sarcasticamente nel 1956 – somiglia molto a quelle macchine usate che molti di voi hanno ispezionato dopo che anch’esse erano state pubblicizzate come praticamente nuove: un po’ più brillanti, un po’ più luccicanti, magari con qualche accessorio in più, ma sotto avevano lo stesso logoro e inadeguato motore».

È anche in questi frequenti accenni sarcastici all’inadeguatezza dei repubblicani a guidare il paese che emerge, per contrasto, la visione positiva che Kennedy aveva del proprio partito e del compito che doveva svolgere, mobilitando le coscienze laddove i repubblicani le assopivano, stimolando il dibattito senza restrizioni per far scaturire le idee e incoraggiare il rinnovamento del clima politico e intellettuale del paese. «È il Partito Democratico che è il partito del cambiamento, il partito di domani come di oggi». Da questo punto di vista, per l’orgoglio con cui si identificava nelle tradizioni della sua parte politica e per la tenacia e il sarcasmo con cui criticava quella avversa, Kennedy era un democratico apertamente schierato. «Se fossi arrivato dallo spazio del tutto ignorante dei problemi in discussione – raccontò a Sorensen durante il suo primo mandato al senato – dopo aver ascoltato per un po’ Mundt, Curtis e tutto quel gruppo (di senatori repubblicani, n.d.a.), sarei stato lieto di essere un democratico».

Per lui la differenza di fondo tra le due visioni politiche, sempre secondo il racconto di Sorensen, era che i democratici in genere avevano più cuore, più capacità di guardare nel futuro, e più energia. Soprattutto, non erano soddisfatti delle cose come stavano e pensavano di poterle rendere migliori. Un partito litigioso, dunque, ma pronto a recepire il bisogno di innovazione e di trasformazione della società. Non a caso, una volta giunto alla presidenza, all’interno della sua Amministrazione Kennedy avrebbe lasciato ampia libertà di giudizio e di manovra ai suoi collaboratori e incoraggiato la libera circolazione delle idee e delle iniziative, pur riservandosi naturalmente la decisione finale. «La mia esperienza di governo – commentò con Arthur Schlesinger – è che quando le cose non sono controverse, sono perfettamente coordinate, e tutto il resto, vuol dire che non sta succedendo un granché».[10]



[1] Al contrario degli studiosi, il grande pubblico non ha mai mostrato dubbi di questo tenore: a livello di opinione pubblica Kennedy continua ad essere tra i presidenti più popolari, sia negli Stati Uniti sia all’estero, e anche i sondaggi più recenti effettuati presso un pubblico generico lo collocano sempre tra i primi cinque presidenti più apprezzati di tutti i tempi.

[2] H. S. Parmet, JFK. The Presiddency of John F. Kennedy, Penguin Books, New York 1984, p. 355.
[3] T. C. Sorensen, Kennedy, Harper and Row, New York 1988, p. 72.

[4] Remarks by Senator John F. Kennedy, Democratic National Convention, Chicago, 16 agosto 1956. Questa e le altre citazioni dai discorsi di Kennedy sono disponibili su https://www.jfklibrary.org/Historical+Resources/Archives/Reference +Desk/Speeches/Speeches+of+John+F.+Kennedy.htm.

[5] J.F. Kennedy, The Presidency in 1960, National Press Club, Washington D.C., 14 gennaio 1960. 

[6] «I critici della corrida schierati in riga/affollano l’enorme piazza/ma solo uno lì sa/ed è colui che combatte il toro».

[7] Remarks by Senator John F. Kennedy, Massachusetts State Democratic Convention, Worcester, 8 giugno 1956.
[8] J. MacGregor Burns, Deadlock of Democracy, Prentice Hall, Englewood Cliffs 1963.
[9] Remarks by Senator John F. Kennedy, Jefferson-Jackson Day Dinner, Boston, 23 gennaio 1954.
[10] Arthur M. Schelsinger, Jr., A Thousand Days. John F. Kennedy in the White House, Fawcett, New York 1988, p. 629.