Le privatizzazioni in Italia e il ruolo dello Stato. Un bilancio e qualche prospettiva

Di Emilio Barucci Giovedì 27 Marzo 2008 14:57 Stampa

Il binomio privatizzazioni-liberalizzazioni rappresenta un meta-tema che ha catalizzato buona parte del dibattito di politica economica negli ultimi venti anni. Esso vede contrapposti l’intervento dello Stato da una parte, il ruolo del mercato e della proprietà privata dall’altra, benché questa rappresentazione antitetica porti con sé il rischio di semplificazioni e di luoghi comuni. Il tema non è nuovo, ma qualcosa, ultimamente, è cambiato. Fino a venti anni fa non avremmo esitato a definire di «destra» i fautori del mercato, avremmo anche trovato una netta maggioranza della classe dirigente del paese in favore di un intervento diretto dello Stato: la costituzione economica del paese aveva le sembianze di una economia mista; allo Stato, dunque, si attribuiva il ruolo di fornitore di alcuni servizi essenziali, di imprenditore in settori produttivi nevralgici e, in alcuni frangenti, di datore di lavoro di ultima istanza.1

Oggi il contesto culturale è mutato: buona parte della sinistra italiana (e il Partito Democratico nella sua totalità) è a favore di un mercato ben regolamentato ed è ben lontana dal teorizzare un intervento diretto e sistematico dello Stato nell’economia; la destra, d’altra parte, o non si cura del problema o è catturata da istanze corporative a difesa della rendita di parti della popolazione. Certo, l’intreccio tra politica ed economia non è venuto meno, ma sicuramente il vecchio sistema delle partecipazioni statali non è riproposto da nessuna parte politica.

Qualcosa è cambiato. Che cosa? Due considerazioni, una di natura storica e una culturale, meritano una riflessione. In primo luogo, nel secondo dopoguerra il modello dell’economia mista ha finito per generare un elevato debito pubblico in molti paesi, ha visto crescere la dimensione del settore pubblico ben al di là di ogni motivazione economica e ha accumulato inefficienze notevoli a livello di sistema: lo Stato spesso si è fatto carico di istanze assistenziali (in primis tutela dell’occupazione) che difficilmente potevano essere ricomprese all’interno di politiche di welfare equilibrate.

La seconda considerazione è di tipo culturale: negli ultimi trent’anni la teoria economica ha fatto notevoli passi avanti nel definire i contorni del ruolo del pubblico e del privato nell’economia.2 Negli anni Sessanta e Settanta la teoria economica è giunta a riconoscere da un lato l’efficacia del mercato nel garantire un risultato efficiente per l’economia, dall’altro ha scoperto tutta una serie di «fallimenti del mercato» che sostanzialmente hanno a che vedere con la presenza di esternalità (inquinamento, ricerca e sviluppo ecc.), beni pubblici (infrastrutture, istruzione ecc.), non concorrenzialità. Per molto tempo, la risposta a questi problemi è stata individuata nell’intervento pubblico diretto: lo Stato produttore è in grado di garantire la fornitura di beni pubblici, di internalizzare le esternalità e può non sfruttare appieno le rendite che derivano da posizione dominante. Il problema è che spesso lo faceva con costi notevoli per la comunità. Negli ultimi anni la teoria economica ha messo a punto un insieme di strumenti che hanno permesso una risposta più articolata a questi problemi, una risposta che non passa tramite la proprietà pubblica, ma tramite la tutela della concorrenza – da per- seguire come bene in sé – e un’efficace regolamentazione dei mercati che per natura sono esposti in modo endemico al rischio di «fallimento». La regolamentazione, piuttosto che l’intervento statale, rappresenta la soluzione ai fallimenti del mercato.

Questa considerazione è stata rafforzata da un ulteriore argomento: al fine di garantire una gestione efficiente delle attività produttive, la proprietà privata rappresenta un assetto proprietario/di governance più efficace di quella pubblica. Mentre il management di una impresa privata è sottoposto al controllo degli azionisti, dei creditori (con lo spauracchio del fallimento) e del mercato (tramite scalate ostili nel caso di società quotate), nel caso di un’impresa pubblica i meccanismi di governance sono meno efficaci o del tutto assenti: una società a controllo statale difficilmente può essere scalata e il fallimento dovuto ad una cattiva gestione rappresenta un’ipotesi assai remota; inoltre, i manager di società pubbliche sono rimossi o confermati per ragioni che spesso non hanno niente a che vedere con le loro qualità. In un’impresa a controllo statale, le veci dell’azionista sono fatte dalla classe politica, che spesso ha a cuore interessi ben distanti da una gestione efficiente delle imprese o da obiettivi di welfare in senso nobile. Ne consegue che i rischi di una cattiva gestione sono ben maggiori rispetto al caso di una impresa a proprietà privata. Il fallimento dell’esperienza delle partecipazioni statali sul piano storico e gli avanzamenti della teoria economica nella direzione che abbiamo tratteggiato hanno portato ad una posizione culturale/accademica dominante ben chiara: superiorità della proprietà privata e del mercato ben regolamentato rispetto all’intervento diretto pubblico. Il mercato favorisce una migliore allocazione delle risorse rispetto all’intervento statale con effetti positivi a livello di sistema sul fronte della crescita e dell’equità, eliminando sacche di rendita. Se il mercato non funziona a dovere, è preferibile agire tramite la regolamentazione piuttosto che tramite un intervento diretto dello Stato.

Questa posizione ha fornito una razionalizzazione ex post all’intenso processo di privatizzazioni che ha coinvolto le maggiori economie industrializzate negli ultimi venti anni del secolo scorso. In molti casi – come per l’esperienza italiana – la ragione ultima delle privatizzazioni va ricercata in altri fattori (crisi della finanza pubblica, stato disastrato delle partecipazioni statali, vincoli dall’Unione europea ecc.). È tuttavia indubbio che la motivazione culturale abbia avuto un suo peso. Ciò non esclude un’attenta riflessione sul ruolo che lo Stato può svolgere nell’economia: deve limitarsi a privatizzare e a proporre un’efficace regolamentazione o c’è spazio per un suo intervento diretto nell’economia?

Stefano Micossi, in un articolo apparso recentemente su questa rivista,3 ha proposto un’analisi delle privatizzazioni in Italia che si colloca nel solco di questo mutamento storico e culturale. Il bilancio e la ricetta sono condivisibili: pur con qualche lato oscuro, le privatizzazioni rappresentano una storia di successo, tecnicamente sono state ben concepite, il mutamento verso un’economia di mercato regolata non è stato però compiuto in forma piena. Il processo di privatizzazione si è arenato all’inizio del nuovo millennio e l’assetto di regolamentazione a tutela della concorrenza non è stato disegnato in modo efficace. L’autore sottolinea le resistenze di tipo culturale della classe politica a muoversi in questa direzione e suggerisce di riprendere con forza il percorso interrotto. Prima di proporre qualche riflessione sul tema dell’intervento dello Stato nell’economia al giorno d’oggi, cerchiamo di valutare gli aspetti positivi e quelli meno soddisfacenti del processo di privatizzazioni in Italia.

Le privatizzazioni in Italia: le luci Le ‘‘luci’’ del processo di privatizzazioni vengono sul fronte macro. In primo luogo, il controvalore ricavato dalle privatizzazioni in Italia è assai rilevante sia in valore assoluto che rispetto alle altre esperienze: se consideriamo il ventennio 1979- 99, l’Italia si colloca al secondo posto (122 miliardi di dollari) per controvalore delle dismissioni dopo il Regno Unito (165 miliardi), prima della Francia (71 miliardi), della Germania (63 miliardi) e della Spagna (62 miliardi); se invece prendiamo in considerazione il solo periodo 1992-2000, l’Italia risulta essere al primo posto per l’importo complessivo delle dismissioni (oltre 140 miliardi di euro). Sembra che la volontà di privatizzare da parte della classe politica sia stata sincera e che il processo sia stato portato avanti con forza. Una più attenta analisi mostra che le cose in realtà non stanno così: appena il 30% del controvalore delle privatizzazioni è stato accompagnato da una cessione del controllo da parte dello Stato, le dismissioni complete si sono avute all’inizio del processo e sul finire degli anni Novanta – quando il vincolo derivante dalla finanza pubblica era più forte – e sono state quasi del tutto assenti nel nuovo millennio.

Il secondo aspetto positivo – e nient’affatto trascurabile – è rappresentato dai benefici per la finanza pubblica. Le privatizzazioni hanno contribuito alla riduzione del debito pubblico: a fine 2005 il Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato (dove sono confluiti i proventi delle privatizzazioni dell’autorità centrale) ha impiegato oltre 100 miliardi di euro per riacquistare titoli del debito pubblico. Attraverso questi fondi, dal 1994 al 2005 è stato possibile estinguere ogni anno mediamente lo 0,91% dei titoli di Stato in circolazione, per un ammontare pari allo 0,77% del debito pubblico esistente. Il contributo delle privatizzazioni alla riduzione del debito è stato particolarmente elevato negli anni 1997-2001. Il totale erogato dal Fondo per l’ammortamento corrisponde al 7,6% del debito pubblico attuale e al 9,3% del totale dei titoli di Stato esistenti. La terza nota positiva è rappresentata dall’impulso che le privatizzazioni hanno dato allo sviluppo dei mercati finanziari e alla diffusione dell’azionariato in Italia. All’inizio degli anni Novanta il mercato finanziario italiano era ben poca cosa, la sua dimensione ridotta era ritenuta essere uno dei punti deboli del capitalismo italiano. Le privatizzazioni hanno rappresentato un’occasione unica per ispessire il mercato finanziario: in meno di dieci anni le banche sono passate dal controllo pubblico a quello privato e sono state investite da un processo di riorganizzazione portentoso, società a controllo pubblico di grandi dimensioni sono state collocate sul mercato. L’effetto è stato significativo: nel listino di Borsa italiana a fine 2006, 41 società quotate su 290 sono società privatizzate (includendo tra queste le banche la cui proprietà prima del collocamento era riconducibile a fondazioni), 21 su 40 sono società dell’indice S&P/MIB, di cui 8 delle prime 10. In termini di capitalizzazione, a fine 2006 circa il 60% della capitalizza- zione della Borsa è rappresentato da società privatizzate.

Se si considerano le società entrate nel mercato dal 1995 sino a fine 2004 (161 incluse molte imprese della new economy), si può osservare che 22 di queste sono società privatizzate, il 68% in termini di capitali raccolti. Anche sul fronte della diffusione dell’azionariato tra i piccoli risparmiatori il successo è stato significativo: secondo una indagine condotta da Mediobanca nel 2001 le privatizzazioni transitate sul mercato azionario hanno coinvolto oltre 20 milioni di risparmiatori e 500 mila dipendenti delle società collocate. A fine 2006 gli azionisti delle società privatizzate superavano i sei milioni. Questo dato è confermato dalle indagini di Borsa italiana sulle attitudini dei risparmiatori, che mostrano come, a fine 2004, circa il 40% dei risparmiatori che detenevano direttamente titoli azionari avevano nel loro portafoglio titoli di società privatizzate: una larga fetta di questi si è avvicinata per la prima volta al mercato azionario proprio in occasione delle privatizzazioni.

Le privatizzazioni in Italia: il chiaroscuro Il recupero di efficienza delle imprese a controllo statale rappresenta la tesi centrale in favore della loro privatizzazione: la proprietà privata sarebbe superiore a quella pubblica per meccanismi di governance più efficaci, ne consegue che dopo la privatizzazione dovremmo assistere ad un recupero di efficienza nella gestione della società (redditività e produttività) e ad altri mutamenti strutturali: riduzione degli organici e dell’indebitamento, aumento degli investimenti. Quali evidenze si hanno su questo fronte nel caso dell’esperienza italiana?

Un’analisi dei bilanci delle società privatizzate a cavallo della loro privatizzazione permette di identificare gli aspetti positivi e negativi apportati dal nuovo assetto proprietario. La Tabella 1 riporta l’analisi statistica relativa alla media e alla mediana di alcuni indicatori di bilancio tre anni prima della privatizzazione (pre) e tre anni dopo (post) per un campione composto dalle cinquanta società privatizzate più significative.

I risultati ci mostrano un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Partiamo dalle note positive. In primo luogo, la profittabilità delle imprese aumenta successivamente alla privatizzazione; l’aumento è statisticamente significativo e, dunque, conferma le aspettative circa la migliore gestione delle aziende da parte del privato rispetto alla proprietà pubblica. Il secondo gruppo di indicatori suggerisce che le imprese abbiano aumentato il proprio giro d’affari successivamente alla privatizzazione, mentre non si assiste alla attesa diminuzione del personale. Il terzo insieme di risultati riporta in modo chiaro il recupero di efficienza gestionale: tutti e tre gli indicatori sulla produttività del fattore lavoro (ricavi, utili, attivo, rapportati al numero dei dipendenti) mostrano un miglioramento sostanziale e statisticamente significativo a seguito della privatizzazione. Risultati meno incoraggianti vengono dagli altri indicatori. Dai due indici sulla politica di investimenti delle imprese emerge la sostanziale neutralità dell’ingresso dei privati nel capitale; anche sul fronte della struttura patrimoniale non si osservano mutamenti rilevanti associati alla privatizzazione. L’ultima riga mostra come il payout rate sia aumentato in misura statisticamente significativa a seguito della privatizzazione: il risultato può essere ricondotto ad una maggiore attenzione verso la remunerazione degli azionisti, in particolare delle società quotate.

A fronte di un recupero di redditività, giro di affari e produttività non si assiste ad un incremento degli investimenti:

 

3_2007.Barucci.Tabella1

Tabella 1. Valori medi e mediani di alcuni indicatori di bilancio prima e dopo la privatizzazione.4

difficile stabilire se questo sia dovuto ad un eccesso di capacità produttiva delle imprese a partecipazioni statali o ad altre motivazioni. Tuttavia, il forte incremento dei dividendi suggerisce che il recupero di redditività si sia tradotto in una remunerazione più significativa degli azionisti piuttosto che in investimenti produttivi. Un’ipotesi è che sia prevalsa la volontà di «fare cassa» per finanziare la spesa corrente (nel caso in cui lo Stato sia l’azionista di controllo) o per fronteggiare impegni finanziari (nel caso di azionista privato di controllo).

I risultati meritano di essere indagati a seconda del settore di appartenenza dell’impresa privatizzata. Se ci addentriamo in questa analisi scopriamo che mentre il recupero di produttività è diffuso tra tutte le aziende, l’aumento di redditività è perlopiù concentrato nel settore finanziario e nei settori produttivi in cui la pressione della concorrenza si fa meno sentire. Il dato suggerisce che il recupero di efficienza associato alla privatizzazione non si sia trasferito pienamente sui consumatori finali nel caso di imprese operanti in settori non concorrenziali.

Le privatizzazioni in Italia: le ombre Oltre che dai risultati negativi sul fronte dell’alta redditività tramutata in remunerazione degli azionisti piuttosto che in investimenti, le note negative sul processo di privatizzazioni vengono sostanzialmente da due fronti: assetti proprietari delle società privatizzate e rafforzamento dei gruppi industriali italiani.

Negli anni Novanta il dibattito su assetti proprietari e privatizzazioni è stato molto intenso. Da una parte vi erano i sostenitori dell’utilizzo delle privatizzazioni al fine di iniettare elementi di democrazia nel mercato per il controllo societario tramite un azionariato diffuso, dall’altra avevamo coloro che puntavano a privatizzare passando in primo luogo attraverso gli esponenti del vecchio capitalismo italiano alla ricerca di soci stabili. L’analisi dell’evoluzione dell’assetto proprietario delle venticinque principali società privatizzate5 mostra come nessuna di esse abbia assun- to l’assetto proprietario di public company «pura» e come non si sia riusciti a condizionare gli assetti proprietari in modo duraturo nel tempo.

Riguardo alle otto società in cui, oltre all’affidamento a privati di parte del capitale, vi sia stata anche un’offerta pubblica di vendita, i soci del cosiddetto «nocciolo duro» sono rimasti «stabili» solo in quattro casi. In tre delle altre quattro società è subentrato un azionista di controllo terzo rispetto al gruppo originario di controllo; in un caso un membro del nucleo stabile ha liquidato gli altri soci. In definitiva, la strategia volta a costituire dei «noccioli duri» stabili e/o public company si può dire sostanzialmente fallita: l’assetto proprietario più comune è rappresentato dal controllo di minoranza statale o dal controllo di un privato (eventualmente tramite operazioni a debito, come nel caso di Telecom), indipendentemente dal metodo di vendita utilizzato. L’unica eccezione è rappresentata dalle banche, nel capitale delle quali le fondazioni hanno assunto un peso rilevante con un management che gode di una discreta indipendenza. Nella Tabella 2 è riportata la ripartizione delle principali società privatizzate rispetto all’assetto proprietario assunto ad oggi.

 

3_2007.Barucci.Tabella2


La seconda nota dolente viene dal fronte dei gruppi industriali. Uno degli obiettivi del piano originario sulle privatizzazioni era di rafforzare i gruppi industriali privati permettendo loro di competere a livello internazionale. Su questo punto i risultati sono stati molto deludenti: non sono emersi nuovi attori sul mercato finanziario italiano e, salvo alcune rare eccezioni, gli industriali hanno colto l’occasione delle privatizzazioni per riposizionare il loro business alla ricerca di rendite residuali quasi monopolistiche.

Quale ruolo per lo Stato nell’economia? È definitivamente finito il tempo dello Stato produttore? La risposta a questa domanda passa tramite un’attenta analisi della tesi che è stata posta all’inizio. Chi propone l’intervento dello Stato deve dimostrare in primo luogo che il mercato fallisce in modo eclatante e, in secondo luogo, che lo Stato produttore sarebbe superiore alla regolamentazione in termini di efficienza del sistema. L’onere della prova spetta a chi propone l’intervento del pubblico: impresa assai difficile.

Quale spazio dunque per lo Stato produttore? Lo spazio si può creare laddove la regolamentazione non sia capace di garantire la concorrenzialità del mercato, la qualità di un servizio, livelli adeguati nella fornitura di un bene pubblico. In alcuni mercati un sistema efficace di regolamentazione può essere molto complesso, spesso rischia di arriva- re troppo tardi e di essere superato in breve tempo: meglio passare tramite l’intervento dello Stato, che può risolvere questi problemi all’interno della sua organizzazione. Un altro ambito in cui l’intervento dello Stato può essere invocato è rappresentato da quelle attività che richiedono forti investimenti senza un ritorno immediato: a differenza del privato (accusato spesso di «short termismo»), lo Stato si può permettere di agire come un investitore istituzionale di medio-lungo periodo. Ne consegue che non c’è nessuna ragione economica per mantenere in ambito pubblico – al riparo della concorrenza – larga parte dei servizi pubblici locali, l’Istituto poligrafico dello Stato, parte delle attività delle Poste e della RAI. Cosa ben diversa è invece il tema dell’intervento dello Stato nelle infrastrutture e nelle reti: in questi casi il privato può non essere in grado di garantire livelli adeguati di investimenti e libertà di accesso a condizioni vantaggiose. Dobbiamo comprendere che il confronto pubblico/privato assume contorni diversi a seconda del mercato e dell’impresa.

Ipotizzando che l’intervento diretto dello Stato abbia una ragione economica, come deve avvenire? L’intervento deve avvenire preferibilmente tramite una società quotata: lo Stato deve comportarsi come un investitore istituzionale che richiede una remunerazione del capitale contenuta nel medio periodo con limitata rischiosità, lasciando una ampia autonomia al management. Insomma, limitarsi a portare le risorse e a definire dei macro-obiettivi di gestione. La quotazione sul mercato ha un effetto positivo: funziona da meccanismo di governance in quanto espone la società al controllo del mercato e limita le inefficienze dell’organizzazione pubblica.

In conclusione, l’intervento diretto dello Stato nell’economia non è scomparso, ma deve essere l’eccezione, deve essere lineare e deve essere motivato sul piano dell’analisi economica dopo un’attenta valutazione dell’efficacia della regolamentazione. È chiaro che il ruolo dello Stato rischia di essere confinato a settori che il privato non vuole occupare e quindi che presentano molte criticità sul piano gestionale. In poche parole, una sfida molto difficile per la classe politica.6

 

[1] All’inizio degli anni Novanta, le partecipazioni statali costituivano una parte rilevante dei settori delle infrastrutture (trasporti, grandi opere), dei servizi di pubblica utilità (gas, elettricità, telecomunicazioni), dell’industria petrolchimica e siderurgica, degli istituti di credito (le banche pubbliche rappresentavano il 90% dei prestiti alle imprese e l’80% dei depositi), ben undici settori non finanziari vedevano al vertice per fatturato una società controllata dallo Stato: chimica, energia, fibre artificiali e sintetiche, impiantistica, vetro, meccanica ed elettromeccanica, siderurgia, minerario, pubblicità e spettacolo, servizi pubblici, trasporti. Secondo Mediobanca, ,quattordici dei primi venti gruppi di imprese italiane non finanziarie per fatturato e dipendenti erano di proprietà dello Stato; cfr. Ufficio studi Mediobanca, Le Principali Società Italiane, Milano 1992.

[2] Su questo punto si veda ad esempio J. Vickers, G. Yarrow, Economic Perspectives on Privatization, in «Journal of Economic Perspectives», 5/1991, pp. 111-32 e A. Shleifer, State versus Private Ownership, in «Journal of Economic Perspectives», 12/1998, pp. 133-50.

[3] S. Micossi, Le privatizzazioni in Italia: qualche utile lezione, in «Italianieuropei», 2/2007, pp. 69-78.

[4] Gli asterischi riportati nell’ultima colonna mostrano la significatività statistica della differenza tra la mediana nei tre anni successivi alla privatizzazione e il valore riportato nei tre anni precedenti. Se non ci sono asterischi vuol dire che la differenza non è significativa. Quando compaiono tre asterischi la differenza è assai significativa.

[5] Le imprese sono: AdR, Acciaierie speciali Terni, Autogrill, Autostrade, Banca di Roma, Banca Nazionale del Lavoro, Banco di Napoli, Cirio Bertolli De Rica, Cofiri, Comit, Credito Italiano, ENEL, ENI, Fincantieri, Finmeccanica, GS, Laminati Piani, IMI, INA, Istituto Bancario San Paolo, Nuovo Pignone, SEAT, Savio Macchine Tessili, SIV, Telecom Italia. Il controvalore del totale di queste operazioni è pari a 109,6 miliardi di euro.

[6] Larga parte di questo contributo si basa sull’analisi contenuta in E. Barucci, F. Pierobon, Le privatizzazioni in Italia, Carocci, Roma 2007.