Laicità, metodo comune di confronto

Di Giuliano Amato Martedì 13 Maggio 2008 18:48 Stampa

Nella discussione sulla laicità si può avere la sensazione che si tratti più di un contenitore che di un concetto dal contenuto definito. La sensazione è in effetti legittima e il rischio non solo di fraintendimenti, ma di non esplicitate divergenze, è quindi alto. Storicamente non sempre è stato così, ma molte cose sono cambiate negli ultimi decenni e ad esse dobbiamo le nuove letture della laicità da cui discende la poliedricità attuale della relativa nozione.

Chi ne legga e ne senta discutere può avere la sensazione che si tratti non di un concetto dal contenuto definito, ma piuttosto di un contenitore; un contenitore nel quale ciascuno riversa le sue diversificate opinioni sui modi nei quali va impostato e poi declinato il rapporto fra verità religiose e scelte pubbliche, e correlativamente fra autorità custodi di quelle verità e autorità competenti a queste scelte. La sensazione è in effetti legittima e il rischio non solo di fraintendimenti, ma di non esplicitate divergenze, è quindi alto.

Storicamente non sempre è stato così. Si parlò infatti di Stato “laico” per lo Stato che rescindeva i suoi legami da una religione prima ufficiale e non era perciò più vincolato dai dettami di quella religione, né fondava più su una legittimazione congiunta il potere civile («per grazia di Dio e della Nazione ») e lo stesso potere religioso esercitato sul suo territorio (il placet statale sulla nomina dei vescovi). In questi termini la nozione di laicità aveva una sua sostanziosa semplicità. Ma già nascondeva uno dei fattori che l’avrebbero resa tanto controversa più tardi. Che cosa significava infatti la avvenuta rescissione? Significava soltanto che lo Stato affermava la sua giurisdizione su tutti gli affari civili o significava anche che, nel regolarli e gestirli in funzione dell’interesse pubblico, non avrebbe mai più fatto i conti con i dettami della religione, ridotta ad un affare puramente privato? La religione – e qui mi riferisco in particolare a quella cattolica – dava (con difficoltà) la prima risposta, certo non la seconda. E distingueva perciò fra la sua potestas directa, rimasta solo sugli affari spirituali, e la potestas indirecta, che residuava invece su quelli di competenza esclusivamente statale e della quale dovevano tener conto i credenti operanti nello Stato. Altri la pensavano diversamente e sostenevano che Stato “laico” è quello in cui la religione riguarda solo la sfera privata e non può avere alcuna incidenza, né diretta né indiretta, su quella pubblica. È questa la nozione di laicità che, per ragioni storiche, viene riferita in primo luogo (ma non solo) alla Francia.

Si noti che i diversi modelli di disciplina del rapporto fra gli Stati e la Chiesa riflettono in parte, ma solo in parte, queste due distinte nozioni di laicità. Il regime di separazione francese ha inteso essere lo specchio della religione affare privato (non così, peraltro, quello apparentemente eguale degli Stati Uniti), mentre i regimi concordatari e comunque pattizi definiscono ambiti limitati di connessione fra la sfera delle decisioni pubbliche e le confessioni religiose beneficiarie di accordi. È un fatto però che in entrambi i regimi è rimasta sotto le ceneri una sorta di convivenza fra le due nozioni di laicità, che in più momenti sono entrate in conflitto. E quando ciò è accaduto al centro del conflitto sono stati in genere l’ammissibilità del divorzio e il trattamento delle sue conseguenze, vale a dire temi rientranti in quella che era in precedenza la giurisdizione esclusiva della Chiesa.

La convivenza e quindi il possibile conflitto hanno portato a regole comuni per la trattazione e il confronto tanto delle opinioni scaturenti dall’arena puramente civile quanto di quelle derivanti invece dai principi e dai valori della religione. Ed è appunto su questo terreno che la laicità ha finito per essere definita come un metodo, il metodo del rigetto dell’imposizione, dell’affidamento invece alla sola forza della convinzione e della sottoposizione perciò di ogni argomento a dibattito e a verifica razionale. Dal che sono scaturiti due convincimenti, tanto diffusi, quanto – e lo vedremo subito – opinabili. Il primo è che la laicità così definita e praticata rappresentasse la sottoposizione dei credenti e della potestas indirecta delle autorità religiose a regole di vita civile che erano per loro, ma non per i non credenti, più un arretramento che un punto di incontro. Il secondo è che i credenti in quanto tali fossero destinati ad essere “ospiti” più che attori dello Stato laico. E di ciò sono stati a lungo convinti gli stessi credenti. Molte cose sono cambiate negli ultimi decenni e ad esse dobbiamo da un lato la messa in discussione dei due convincimenti, dall’altro le nuove letture della laicità da cui discende la poliedricità attuale della relativa nozione. Si tratta – come del resto tutti sappiamo – in primo luogo dell’emersione nella sfera pubblica di questioni legate in parte al cambiamento dei costumi, in parte ancora maggiore al sopravvento di tecnologie capaci di manipolare in profondità la natura e gli stessi esseri umani. Sono tutte questioni che toccano direttamente i credenti e che finiscono in molti casi per arrivare al fondo della loro coscienza, là dove esercita tutto il suo peso la distinzione, per loro cruciale, fra creatore e creature. In secondo luogo, c’è stata la lenta modificazione delle nostre società, un tempo relativamente omogenee, verso una struttura multireligiosa, che per ciò stesso, e per le differenze fra le religioni, dà a queste un nuovo rilievo nella sfera pubblica.

Si parla, in ragione di tutto ciò, di società post secolari e se ne ravvisa il nuovo tratto distintivo nell’abbandono dell’idea delle religioni come affare privato e nella rinnovata presa d’atto che esse entrano, necessariamente, nella sfera pubblica. Con quali conseguenze sulla nozione di laicità? Di sicuro viene messa in crisi quella costruita appunto sulla religione come affare privato, sebbene essa pretenda di valere ancora e concorra perciò alla varietà dei linguaggi da cui siamo partiti. Ma la stessa nozione di laicità come metodo razionale dell’argomentare, per quanto non intaccata, rischia di risultare inadeguata in assenza di alcuni essenziali chiarimenti. Se la si va infatti ad approfondire nell’esegesi dei suoi sostenitori, è ben possibile che in taluni di essi si riscontri l’idea che metodo “razionale” significa abbandono di ogni ancoraggio a valori assoluti e quindi una sorta di relativizzazione di qualsivoglia argomento. Ed è altrettanto possibile che ad un’idea simile si affianchi la convinzione che ciò sia anche coerente con i principi democratici, giacché la democrazia sarebbe, in quanto tale, il regno del solo relativo, al quale si devono quindi adeguare gli assoluti che premono alle porte.

Ebbene, non è esattamente così. Di sicuro non è pensabile che in una società multireligiosa ciascuna religione pretenda che le leggi statali riflettano pedissequamente i propri assoluti. Basti pensare che può trattarsi di “assoluti” incompatibili fra di loro o incompatibili con quelli di ideologie forti presenti nella medesima società. E il risultato sarebbe perciò una inevitabile e rovinosa deflagrazione dell’insieme. Ma questo non significa che al polo opposto di una tale deflagrazione vi sia la negazione degli assoluti e quindi l’assunto che le religioni, e i loro principi, devono star fuori dalla sfera pubblica proprio perché metterebbero in campo degli assoluti, mentre la democrazia ammette soltanto i “relativi”. Non è vero, questa diffusa e apparente verità è invece una autentica sciocchezza, giacché la democrazia è fondata essa stessa su assoluti, tali essendo la dignità della persona, il rispetto per la sua vita e per le sue libertà, l’eguaglianza a prescindere da qualunque fattore di possibile discriminazione, il pluralismo, la tutela delle minoranze, la coltivazione della pace e della solidarietà nelle relazioni internazionali. Il problema dell’arena democratica, allora, non è quello di escludere gli assoluti, ma di farli convivere quando siano diversi, ovvero di declinarli in modo compatibile quando siano i medesimi assoluti ad essere intesi in modi diversi. Ecco allora trovato il vero terreno, e il vero metro, della laicità nella società post secolare. La laicità è e rimane il metodo della argomentazione e della critica razionale, ma il metodo in quanto tale serve non ad escludere, bensì a rendere componibile, nella sfera pubblica, la declinazione delle verità che convivono in una stessa società. Su che cosa si fonda la componibilità? Non sulla “relativizzazione”, ma sulla consapevolezza da parte di ciascuno del limite che tutti incontriamo nella ricerca di un bene comune riguardante anche altri che non la pensano come noi. È insomma l’assenza del fanatismo, della ubris di sé e delle proprie verità. Si dirà che ciò è più facile per i non credenti che non per i credenti, portatori di credenda non negoziabili, e si continuerà a presumere che i credenti possano essere solo prigionieri della laicità. No, neppure questo è vero. Ai credenti lo disse già San Tommaso che respingere chi, in buona fede, segue un diverso codice etico e mettere così a rischio la coesione del corpo sociale sono un male peggiore del ridimensionamento di regole o proibizioni pur ispirate alla legge naturale cristiana. E caso mai sono in più casi i non credenti a doversi rendere consapevoli che anch’essi sono mossi da verità, anch’essi tendono a ritenerle assolute e anch’essi, quindi, devono prendere atto che la naturale finitezza de- gli esseri umani li pone davanti a realtà sconosciute, che impongono anche a loro l’umiltà del limite. Non intendo aprire qui un discorso più lungo di quanto l’occasione consenta, ma se è giusto discutere di fede e ragione, è anche giusto discutere di scienza e ragione. La scienza ci ha dato e ci dà tante risposte, ma ha sollevato e solleva tante domande: domande sulla rispondenza a ragione della messa in opera di talune delle sue scoperte (l’ordigno atomico, che per la prima volta nella storia ha messo l’uomo in condizione di distruggere il pianeta in cui vive, pesa come un macigno), ovvero sulla veridicità di acquisizioni che risulteranno nel tempo fallaci (la veridicità delle razze, su cui dopo Linneo tanto è stato scritto e tanto male è stato fatto, è un altro macigno che pesa). Sono domande – sia chiaro – che non mettono in discussione il metodo scientifico, ma che semplicemente richiedono di ritenervi incorporato il senso del limite e la disponibilità quindi a definire, non da soli, dove esso possa essere. Va aggiunto che ogni serio scienziato lo sa, lo dice e lo pratica. Ma è proprio nella polemica con i credenti, e quindi nella polemica sulla laicità, che c’è chi sembra dimenticarlo. La laicità come terreno comune dipende forse interamente da questo. Dalla consapevolezza comune del limite (a ciascuno il suo) che tutti incontriamo. C’è anche tale consapevolezza nella razionalità del metodo. Mentre l’ubris – l’umanità lo ha scoperto ben prima della nozione di laicità – porta alla lacerazione e quindi alla negazione degli altri. Alla negazione perciò della stessa laicità.